venerdì 13 dicembre 2024

LA SPERANZA DI DIO


 La paradossale speranza di Dio


- 3° Domenica di Avvento (anno C) - 15 dicembre 2024

 


LETTURE   Sof 3,14-18   Is 12   Fil 4,4-7   Lc 3,10-18

 COMMENTO di Alberto Vianello

 La terza domenica di Avvento è sempre caratterizzata dal tema della gioia. Nella prima Lettura, il profeta invita Gerusalemme a gioire, perché Dio, «in mezzo a te, è un salvatore potente». La presenza di Dio è sempre benefica: al limite può prendersela con il peccato, ma mai con il peccatore.

Ma l'invito di Sofonia non è a una gioia spensierata: facciamo finta che i problemi non esistano… Perché problemi ce n'erano, eccome! Basta leggere i primi versetti del stesso cap. 3 dal quale è tratta la Lettura di questa domenica: sono una precisa e circostanziata accusa dei peggiori mali compiuti nella città santa. Infatti vi si viveva una grave realtà di idolatria, di ingiustizia, di materialismo diffuso; a cominciare proprio dagli ambienti religiosi. La parola del profeta vuole scuotere, ma non atterrire o creare pessimismo.
Allora la gioia che annuncia è una possibilità nuova. Sempre, quando c’è Dio, c'è una nuova opportunità, una nuova terra buona e bella verso la quale mettersi in cammino. Una possibilità che sta davanti proprio perché Dio «sta in mezzo» (due volte in questo breve brano) a questo popolo, a questa gente.
Il Natale rischia sempre di essere un'attesa della venuta che poi "passa": una volta arrivata la festa, passiamo oltre, e ci dimentichiamo che questo arrivo del Signore è per rimanere, per essere sempre «in mezzo» a noi, come «salvatore potente».

 Certo, ci risulta "impotente" questo Dio del Natale, se pensiamo in termini di miracoli. Il miracolo c'è, anche se è ben altro, come vedremo nel Vangelo: è la conversione del cuore e della vita, nel concreto delle situazioni umane che viviamo. Per questo, Sofonia parla sì della gioia, ma è quella del Signore: «Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia». Che l'uomo possa davvero cambiare, questa è la gioia del Signore. Davvero una gioia paradossale: che Dio l'onnipotente non trovi altra gioia che nel piccolo e povero uomo. Ed è paradossale che Dio, che ben conosce l'uomo e ha sperimentato sempre il contrario nella storia, creda ancora e sempre possibile la sua conversione al bene.

Per noi, questa speranza di gioia per Dio, diventa un invito a non lasciarsi invecchiare, di non pensare che se non sono cambiato finora non cambierò più: «Ti rinnoverà con il suo amore».

 Anche la seconda Lettura invita alla gioia nella prospettiva della vicinanza del Signore: il cristiano è chiamato a riconoscere ciò che, in definitiva, prevale su tutto, cioè proprio il Signore con la sua grazia.

«La vostra amabilità sia nota a tutti»: nel testo greco il termine ha più il significato di «mansuetudine», che Paolo usa innanzitutto per il Cristo (cfr. 2Cor 10,1). Mentre il debole è rinchiuso nella sua condizione e desidera il potere e l'affermazione, questo termine esprime la mansuetudine di chi crede e si affida alla potenza di Dio, che è la potenza dell'amore; e quindi non cerca di imporsi con le proprie forze. Così la mansuetudine che qui Paolo raccomanda è quella relativa all’attesa dell'intervento benefico e trasformante dell'attenzione e della cura del Signore per la storia degli uomini.

 Quindi Paolo invita ad evitare l'affanno e la preoccupazione e, invece, ad essere assidui nella preghiera come modalità di rivolgersi a Dio. Anche in questo caso il testo letterale e più pertinente: non dice «fate presenti a Dio le vostre richieste», ma «riconoscete come note presso Dio le vostre richieste». Le preghiere non servono a informare Dio delle nostre situazioni di bisogno, come Lui non le conoscesse o fosse "distratto". La preghiera serve a cambiare noi, non Dio: in essa prendiamo coscienza che Dio è vicino, conosce la nostra realtà, ci sostiene e ci accompagna.

Da qui «la pace di Dio» che diventa il custode dei cuori e delle menti: talmente si afferma dominante, per chi ha imparato a vivere nella mansuetudine e nella preghiera.

 Nel Vangelo, la gioia è presente nell'attività che, per Luca, sintetizza il ministero di Giovanni Battista: «Evangelizzava il popolo». È il portare «la buona notizia», il lieto annuncio. Esso si concretizza nella disponibilità alla conversione, che, negli esempi che leggiamo nel testo, comporta operare concretamente un cambiamento della propria vita. Ma è una conversione che non significa cambiare mestiere, ma cambiare modo di compierlo.

 Sono appelli al cambiamento che ci coinvolgono tutti. «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha». È l’invito alla conversione come capacità di vivere la condivisione: ovvero a non considerare solo il proprio diritto, la propria libertà, il proprio bisogno, ma anche quelli delle altre persone, soprattutto se povere. Fare parti con gli altri, non tenendo per sé i beni, ma riconoscendo il grande bene della relazione. È un vivere non più per sé, ma insieme all'altro.

 Ai pubblicani (iniqui e impuri esattori delle tasse), Giovanni dice: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Vuol dire non porsi nell'atteggiamento della pretesa nei confronti degli altri, nel rapportarsi a partire da un potere da esercitare su di loro. Evitare di esigere dagli altri, come se essi ci "dovessero" tutto questo. Bisogna, invece, vivere l'umiltà, accettando veramente e concretamente la propria realtà e quella degli altri.

 Ai soldati Giovanni dice: «Non maltrattate e non estorcete, accontentatevi delle vostre paghe». Esiste una violenza quotidiana, domestica, sottile: è quella che deriva dal conoscere la debolezza e la vulnerabilità dell'altra persona, e di far leva su queste usando così violenza nei loro confronti.

In definitiva, Giovanni Battista ci rivela un livello quotidiano di conversione. Bisogna farsi carico della propria umanità e di quella degli altri, di mettere una misura alle proprie pretese sugli altri, di assumere le proprie fragilità e di misurare la propria libertà nell'armonia con la libertà degli altri.

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È la domenica della letizia e se Paolo fosse qui, con tutte le esortazioni che ha fatto sull’essere lieti, sai quante tozze darebbe in giro?! A me poi più di tutti. Ce n’è ragione perché una delle contraddizioni dei cristiani, al solo vederli, è l’aspetto quaresimale, deluso, angustiato. Parola di Papa. Al contrario, come splende l’amabilità in chi mostra gratitudine!

 Nel brano del vangelo il focus è su Giovanni, l’austero profeta vestito di peli di cammello. Luca osserva le categorie di persone che vanno da lui: soldati, esattori delle tasse, poveri e benestanti, gente di città come gli scribi e dei villaggi. Perché? Passi il clima di attesa spirituale e politica diffuso in Palestina in quegli anni, ma che agitava il cuore di quella gente che possiamo capire anche noi? Succede di sentire certe volte che le cose personali non sono a posto. Per lo più ci fumiamo una sigaretta su e tiriamo avanti. Solo i più accorti si chiedono in cosa devono cambiare. Pochi cercano risposte negli studi degli psicologi. Meno ancora chiedono consiglio ad un prete.

La terapia consigliata da Giovanni è senz’altro pragmatica, c’è poco da spiegare coi traumi infantili e le compensazioni successive: la risposta parla di comportamenti che devono essere improntati a giustizia. Se hai rubato fai basta e rimedia. Se rubare, ma è solo uno dei divieti, ti toglie la pace, un comportamento riparativo te la restituisce. Gli scrupoli servono a poco. Se la coscienza dell’errore ci condanna è l’occasione per arricchirsi del cuore di Dio, dopo di che non abbiamo più nulla che ci rimproveri o di che vergognarci.

 Tutto questo si fa per ritrovare il centro di sé stessi, l’anima. E non è che sia una cosa semplice conoscere il proprio cuore, implica relazione massima con la verità come modo di essere, di porsi e di agire. Geremia dice (17,9): “Più fallace di ogni altra cosa è il cuore è difficilmente guaribile, chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori”. Il salmo 138 rilancia questa corrispondenza fra il cuore e il Signore quando prega: “Scrutami o Dio e conosci il mio cuore, vedi se percorro una via di menzogna e guidami sulla via della vita”.

 Che dobbiamo fare per ritrovare noi stessi o per essere pronti alla venuta del messia? Ecco la domanda che quelle folle rivolgevano a Giovanni.

Se diciamo che Gesù è il nostro cuore non si intende un’emozione devozionale. Gesù è davvero il nostro cuore, talché se desideriamo conoscere, riprendere contatto con la verità, redire in seipsum, ritornare in sé stessi come diceva sant’Agostino, desideriamo essere Cristo. 

Ancora sant’Agostino spiega che il nostro cuore è inquieto, (dell’inquietudine che spingeva militari, esattori, scribi da Giovanni ed oggi i clienti dagli psicologi) finché non riposa in te, Signore. Si tratta comunque di un’inquietudine salutare. Il sacramento della penitenza e della riconciliazione a questo tende: a ridurre la distanza tra l’io e il sé, tra la mente e il cuore, tra l’uomo e Dio, che in Gesù ci è possibile riconoscere come la nostra vera icona.

 Valerio Febei e Rita

MONASTERO DI MARANGO


 

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