* Lo
storico del cristianesimo Cassese ripercorre la felice convergenza nella
tradizione tra le statuine di origine mediterranea e le fronde decorate di
ascendenza nordeuropea.
-di Michele Cassese
Anche
stavolta, con il ritorno del Natale, assistiamo alle solite diatribe sul
presepe. Viene spontaneo pensarle come parte anch’esse, ormai, delle tradizioni
natalizie. Allestirlo o no, nelle scuole che vedono ormai
una buona parte degli alunni avere un’appartenenza religiosa non cristiana, o
non averla affatto? Fare il presepe per obbligo di legge, come aveva proposto
una senatrice, e sanzionare i dirigenti scolastici inadempienti? O delegare la
scelta all’autonomia decisionale dei singoli istituti scolastici, sancita dalle
norme italiane? È in gioco la cultura italiana o la laicità dello Stato? E, in
una prospettiva più ampia, la formazione degli studenti include o esclude la
dimensione religiosa?
Proviamo
a tornare sull’argomento come parte di una discussione seria e importante. Il
problema, a mio parere, non va affrontato secondo un’ottica di obbligo o
divieto, ma va inquadrato nell’orizzonte socio-antropologico in cui collochiamo
l’espressione religiosa nella scuola. Non è banale chiedersi che valore abbia
fare il presepe, o festeggiare pubblicamente la Pasqua, la fine del Ramadan, la
ricorrenza del Purim o il capodanno cinese. Si avverte oggi una sensibilità
nuova nell’esprimere sé stessi e nel comunicare, per cui gesti e segni
acquistano per chi li compie un’importanza assai rilevante. L’uso del tricolore
nei cortei o sui palazzi pubblici, la bandiera della pace sul balcone, ma anche
fare un gesto di saluto o scrivere su un pezzo di carta i propri desideri sono
indice del «bisogno di esprimere le cose importanti con azioni fondate sui
segni e la speranza che in queste azioni la realtà cambi» (F.-J.Nocke). Quali
“cose importanti” e quali speranze di cambiamento, è necessario chiedersi, sono
espresse dal presepe? Ne siamo consapevoli?
Va
ricordato che la cultura, nel suo pieno significato antropologico, comprende in
sé intrinsecamente anche l’aspetto religioso, come ci hanno insegnato i nostri
padri greco-latini. Religione difatti è un “rispetto rigoroso” di ciò che è
tramandato dall’antico (Cicerone), un legame tra un me e un tu, una relazione
con le realtà meta-fisiche o nascoste, ma anche con quelle umane, terrestri
(Lattanzio). Essa è dunque espressione di un rapporto con altre realtà,
avvertito come esigenza personale e sociale.
Vorrei
ricordare qui la testimonianza resa dal presidente Sandro Pertini nel 1981 a un
gruppo di giovani a Selva di Val Gardena. In quell’occasione dichiarava
apertamente che, pur non avendo un’appartenenza religiosa, era fiero della sua
fede politica e sociale, fatta di valori per i quali aveva lottato. Perciò li
invitava ad avere una propria fede, di qualsiasi segno o espressione, religiosa
o meno, su cui fondare l’esistenza e per cui spendere la vita. Una tale fede va
espressa anche pubblicamente come propria identità e appartenenza, e va
condivisa con i concittadini, pur senza imporla, nel modo più opportuno.
Laicità non è laicismo, non significa assenza di espressione religiosa, né
agnosticismo, o eliminazione dal contesto pubblico della propria identità, ma
possibilità di esternare sé stessi, i propri punti di riferimento, ed è di
conseguenza accoglimento, da parte della società, di ogni specificità.
Tale
visione plurale è sostenuta dalla nostra Costituzione (Art.8), che attesta la
libertà di organizzazione e manifestazione per le confessioni religiose diverse
da quella cattolica. È un principio importante nella realtà multiculturale e
multireligiosa italiana e di altri Paesi europei, in cui si è fatta oggi più
rilevante la presenza di donne e uomini, provenienti da altre culture
religiose, che vivono l’esigenza di esprimersi pienamente, sia pur in
integrazione e sintonia «con l’ordinamento giuridico italiano» e «le norme del
diritto internazionale generalmente riconosciute» (Art. 10).
Questa
libertà di manifestazione religiosa dovrebbe estendersi anche all’ambiente
scolastico, lasciandone agli organi della scuola l’organizzazione, in una
programmazione il più inclusiva possibile.
Quindi
non limitiamoci a promuovere nella scuola la libertà per la parte cattolica di
allestire il presepe e l’albero di Natale. Osserviamo come l’albero, pur
presente fin dai primi secoli del cristianesimo, è stato valorizzato
soprattutto dal Nord Europa, e particolarmente dalla tradizione protestante.
Ciò non ci ha impedito negli ultimi due secoli di cooptarlo con spontaneità
nella nostra cultura del Sud dell’Europa, più legata alla tradizione cattolica.
Ciò permette la coesistenza – anche in molte nostre chiese – dell’albero
natalizio, simbolo di Cristo Luce del mondo, e del presepe, espressione scenica
della venuta di Cristo come Salvatore, proposta 9 secoli fa da Francesco
d’Assisi e fatta propria da tutto il mondo cattolico. Due sensibilità religiose
cristiane diverse si manifestano insieme a Natale, due segni, propri di diverse
culture, possono essere affidati a ogni nuova generazione come veicoli di ‘cose
importanti’ e di speranza.
Come
i cristiani festeggiano le loro ricorrenze religiose, così anche gli altri
scolari e studenti dovrebbero poter fare memoria e celebrare una festa della
loro tradizione religiosa. Ciò permetterebbe di far conoscere ai propri
compagni ciò che è “importante” nella loro cultura, e quali sono le loro
speranze. Chi professa la fede ebraica potrebbe proporre una delle sue grandi
feste, come la Pasqua, il Capodanno o il giorno dell’espiazione (Purim). Gli
islamici potrebbero festeggiare il “Piccolo o Grande Bayram”, la “festa della
fine del digiuno”, o quella della nascita di Maometto; gli induisti la festa
“Makar Sankranti” o “Pongal”, i buddisti la festa della nascita o
dell’illuminazione di Budda, i cinesi il loro Capodanno; per gli africani
sarebbe interessante trovare una forma per festeggiare l’“Essere Supremo” o gli
antenati defunti. Certamente le modalità vanno studiate e preparate, in una
programmazione a lungo termine, accurata e partecipata. Niente sarebbe più
dannoso che un affastellarsi di feste, in cui il folklore prevalesse sulla
trasmissione di significati.
Si
potrebbe così contribuire in modo rilevante alla formazione umana e “culturale”
degli studenti. I ragazzi sperimenterebbero la libertà di manifestazione della
sensibilità e identità religiosa apprese nelle famiglie d’origine; e diverrebbe
possibile conoscere in modo esperienziale la cultura altrui e il valore della
diversità, che non è annullamento delle singole identità culturali e religiose,
quanto educazione al rispetto, arricchimento reciproco e soprattutto
ampliamento di orizzonti culturali: tutti compiti specifici della scuola.
Per
i cristiani protestanti e cattolici, infine, sarebbe una messa in atto di quel
dialogo interreligioso a cui essi fortemente si rifanno; mentre per i cattolici
in particolare sarebbe un esercizio di fedeltà all’insegnamento del Concilio
Vaticano II (cfr. Nostra Aetate) e alle indicazioni spirituali e pastorali
di papa Francesco (cfr. Fratelli tutti, n. 271).
Fonte: Avvenire
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