L’Italia e il modello di democrazia ungherese
- di Giuseppe Savagnone*
Una profonda sintonia
Il
recente incontro a Roma tra il premier ungherese Viktor Orbán e Giorgia
Meloni ha confermato, secondo tutti i resoconti della stampa, la
profonda sintonia che da sempre unisce i due leader. E che coinvolge, al di là
dei singoli temi, una più generale visione culturale e politica.
È
significativo che, nel settembre del 2023, in occasione del «Budapest
Demographic Summit», la nostra presidente del Consiglio – nel far presente che
«l’Italia guarda l’esperienza dell’Ungheria con interesse e ammirazione per i
risultati raggiunti in materia di famiglie e natalità», – abbia
sottolineato come «la grande battaglia per chi difende l’umanità e i
diritti delle persone sia anche quella di difendere le famiglie, sia anche
quella di difendere le nazioni, sia anche quella di difendere l’identità, sia
anche quella di difendere Dio e tutto ciò che ha costruito questa civiltà».
Così
come è significativo che, nel settembre scorso, il premier ungherese abbia
definito Giorgia Meloni «la mia sorella cristiana», aggiungendo: «Le
culture simili hanno un ruolo molto più importante del passato. Non è solo una
mia collega, è la mia sorella cristiana ed è fondamentale».
Questa
convergenza di fondo ha permesso ai due leader, nell’incontro di Roma dei
giorni scorsi, di sorvolare sulle diverse vedute riguardanti la guerra in
Ucraina – mascherate nel comunicato finale dalla formula generica che li
impegna al «sostegno a una pace giusta e duratura» – e di insistere invece
sulla loro totale consonanza circa «l’importanza di contrastare la migrazione
irregolare», e l’«urgenza di un quadro giuridico aggiornato per
facilitare, aumentare ed accelerare i rimpatri dall’Unione europea, con
particolare attenzione al consolidamento del concetto di Paesi di origine
sicuri (…), sulla base del percorso avviato dall’accordo Italia-Albania».
Ma
non è solo il tema dei migranti a unire Orbán e la Meloni. Si tratta,
piuttosto, di una concezione della democrazia che punta sulla personalità del
leader per ottenere un’investitura popolare – anche il premier ungherese fonda
il suo potere su regolari elezioni – , in forza della quale avere il controllo
pieno della dinamica politica della società.
È
questa visione che sta alla base di quella che Meloni definisce «la madre di
tutte le riforme», il premierato, condizione per una «stabilità e continuità»
del governo che la nostra premier non si stanca di additare come l’ideale a cui
l’Italia deve puntare e che in Ungheria si è pienamente realizzato dall’aprile
del 2010, da quando cioè Orbán è, senza interruzione, primo ministro. Più di
quattordici anni.
In
questa prospettiva, è all’esecutivo che spetta dettare la linea su cui si
costruisce l’unità di un paese. Ogni diversità di punti di vista,
ogni ostacolo alla politica del premier, è una minaccia a questa unità e
(per evocare le parole della Meloni) un tradimento della famiglia,
dell’identità nazionale e di Dio.
È
in questa logica che, secondo una risoluzione di condanna del Parlamento
europeo del 15 novembre 2022 – votata ad ampia maggioranza (433 voti
favorevoli, 123 contrari, fra cui i rappresentanti italiani di Lega e Fratelli
d’Italia) – , il governo di Orbán ha fortemente ridotto, in Ungheria
l’indipendenza della magistratura, il pluralismo dei media, le libertà di culto
e di associazione, lo spazio dei diritti delle persone LGBTQ+, delle minoranze
etniche e dei richiedenti asilo.
La
Meloni, nel suo amichevole incontro, non ha fatto cenno a questi aspetti, anzi
si è vivamente complimentata con Orbán per la sua conduzione di questi mesi di
presidenza del Consiglio europeo, in realtà contestatissima dalla stragrande
maggioranza dei componenti dell’UE per la sua autoreferenzialità sovranista
e il suo totale disprezzo della dimensione comunitaria.
Non
è stato un silenzio “diplomatico”. In realtà, su molti dei punti che agli occhi
dei parlamentari europei sono apparsi capi d’accusa, la nostra premier ha già
espresso una sostanziale sintonia.
Una
possibile soluzione del conflitto tra politica e magistratura
In
particolare, sembra accomunare Meloni a Orbán il modo di concepire il rapporto
tra politica e giustizia. Da tempo siamo testimoni delle reiterate proteste
della nostra premier nei confronti delle sentenze della magistratura che, a suo
avviso costituiscono un’invasione del campo della politica per il fatto stesso
che ostacolano i progetti del governo.
Non
sembra azzardato pensare che il suo modello sia molto vicino a quello che
si è realizzato in Ungheria, dove la nuova Legge Fondamentale, varata nel 2012,
ha declassato al rango di organo consultivo il Consiglio giudiziario nazionale
(OIT), espressione del principio di autonomia della magistratura, e lo ha
sostituito con l’Ufficio giudiziario nazionale (OBH), il cui vertice è di
nomina parlamentare, e dunque in mano al Fidesz – il partito di maggioranza il
cui leader è Orbán – e che, significativamente, è stato guidato, fino al 2019
da Tünde Handó, esponente di Fidesz e consorte di uno dei (pochi) redattori
della Legge Fondamentale.
Gli
effetti di questo controllo del sistema giudiziario da parte della politica
si sono evidenziati all’opinione pubblica italiana in occasione del
processo a Ilaria Salis, incarcerata l’1 febbraio 2023 con l’accusa di avere
picchiato, durante una manifestazione, due estremisti di destra (la cui
prognosi peraltro è stata di pochi giorni) e detenuta per 15 mesi in cella, in
condizioni disumane – è stata tradotta nell’aula giudiziaria in catene durante
le udienze -, prima ancora di essere anche solo giudicata e riconosciuta
colpevole.
La difesa dei confini
Per
una coincidenza, la visita a Roma di Orbán è avvenuta in concomitanza con la
definitiva approvazione, da parte del Senato, del Decreto Flussi, in cui si
coniugano la strenua lotta del nostro governo per la «difesa dei confini» e
quella che lo stesso governo sta conducendo, finora con scarsa fortuna,
contro i limiti legislativi fatti valere dalla magistratura, in base alla
tutela dei diritti umani dei migranti.
Tra
le novità del testo c’è un nuovo elenco dei Paesi considerati “sicuri”, che
include paesi fortemente problematici come Bangladesh (dove gli
omosessuali possono essere condannati all’ergastolo) ed Egitto (vedi caso
Reggeni); la secretazione dei contratti pubblici relativi a fornitura di mezzi
e materiali per il controllo delle frontiere e delle attività di soccorso in
mare (sottraendo così ad ogni controllo la fornitura di motovedette e
altri strumenti di repressione alla Guardia libica e al governo tunisino);
competenza delle Corti d’Appello e non più dei Tribunali specializzati, per
quanto riguarda la convalida del trattenimento dei richiedenti asilo.
Su
quest’ultimo punto c’è il parere negativo del plenum del Consiglio superiore
della magistratura (CSM), solo consultivo, ma difficile da liquidare invocando
la faziosità delle “toghe rosse”, perché il CSM, a differenza dell’Associazione
nazionale magistrati (Anm), che istituzionalmente difende le posizioni di una
categoria, è l’organo previsto dall’art. 104 della Costituzione per
l’autogoverno della magistratura, è presieduto dal presidente della Repubblica
e si pone, come tale, al di sopra delle parti (i componenti non sono solo
magistrati e quelli “laici” esprimono tutti gli schieramenti politici).
Secondo
il plenum del CSM con questo provvedimento si «incrina il consolidato assetto
giurisdizionale in tema di convalida dei trattenimenti, sin qui imperniato
sull’attribuzione della relativa competenza alle Sezioni specializzate in
materia di immigrazione».
In
particolare, il CSM contesta il trasferimento delle cause relative ai migranti
alle Corti di Appello, osservando che da un lato esso creerà in queste ultime
un sovraffollamento di procedimenti che rallenterà ulteriormente la già lenta
macchina della giustizia, dall’altro, sottraendo la decisione di queste cause
ai Tribunali specializzati, le metterà nelle mani di giudici che non avranno la
competenza necessaria per affrontarle.
Il sistema giudiziario
Questa
legge, insomma, è un tentativo di cominciare a rimodellare la stessa struttura
del sistema giudiziario in funzione delle esigenze della politica, in questo
caso per evitare ulteriori intralci al progetto Albania. Anche se in Italia, a
differenza che in Ungheria, il governo e la maggioranza che lo sostiene
non sono ancora in grado di cambiare la Costituzione, che prevede la
separazione dei poteri e l’autonomia della magistratura. Il modello
ungherese di democrazia dovrà ancora attendere.
C’è
da chiedersi se gli italiani siano veramente disposti ad abbracciarlo,
rinunziando ai princìpi e allo stile di uno Stato di diritto. Tanto più
che l’appello ai valori etico religiosi che dovrebbero giustificare questa
rinunzia presenta sicuramente degli aspetti su cui varrebbe la pena di
riflettere – in una società che sembra aver smarrito il senso della famiglia e
della generatività, quello della solidarietà nazionale, quello della dimensione
religiosa dell’esistenza – , ma nella prospettiva in cui – tanto da parte di
Orbán quando della Meloni – viene situato, ha il sapore di un
slogan.
In
particolare, il continuo richiamo all’eredità cristiana appare in evidente
contraddizione con la sistematica esclusione e persecuzione di quegli stranieri
poveri con cui, secondo il capitolo 25 del vangelo di Matteo, Cristo si voluto
identificare («Ero straniero e mi avete accolto»). Così come, più in
generale, evidente dispregio delle vite degli esseri umani che non abbiano in
marchio dell’appartenenza alla propria nazione.
Israele e Palestina
Significativo
l’atteggiamento di sostanziale sostegno al governo israeliano, da parte dia del
governo italiano che di quello ungherese, nella sua campagna di sterminio e di
pulizia etnica conto uomini, donne e bambini palestinesi. Non una parola
di critica la Meloni ha accennato al presidente israeliano Herzog quando è venuto
a Roma.
E
– in un contesto che ha visto la strage di 44.000 civili, in larga percentuale
donne e bambini, nonché la sistematica violenza esercitata nei confronti di
tutto un popolo, affamato, sfrattato, deportato – , il nostro ministro
degli Esteri ha usato nei confronti d’Israele l’espressione «crimini di guerra»
solo quando l’esercito di Tel Aviv ha sparato in Libano contro una sede
dell’Unifil controllata dagli italiani. Posizione del tutto analoga,
ancora una volta, a quella di Orbán, il quale, davanti al manato di arresto nei
confronti di Netanyahu, da parte della Corte penale internazionale (di cui
anche l’Ungheria riconosce la giurisdizione), ha risposto invitando il premier
israeliano a Budapest. Non è così – stando a quanto Gesù ci ha detto – che Dio
vuole essere difeso.
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo.
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