INTERVISTA a Daniela Lucangeli
Daniela
Lucangeli, esperta di psicologia dell’apprendimento, affronta le sfide cruciali
dell’educazione contemporanea in un’intervista a Orizzonte Scuola che parte da
una sua recente battuta sul “personal educator” per esplorare temi fondamentali
della pedagogia moderna. La discussione si sviluppa attraverso riflessioni
profonde sul rapporto tra emozioni e apprendimento, sul ruolo dell’insegnante e
sull’importanza della dimensione umana nell’educazione.
Lucangeli,
ordinario in Psicologia dell’educazione e dello sviluppo presso l’Università di
Padova, Presidente della sezione sviluppo dell’Accademia Mondiale delle scienze
Learning Disabilities (IARLD), Presidente dell’Associazione per il
coordinamento nazionale degli insegnanti specializzati e la ricerca sulle
situazioni di handicap (CNIS), nonché socio di numerose associazioni
scientifiche internazionali e nazionali nell’ambito delle scienze dello
sviluppo, affronta numerosi aspetti nel corso dell’intervista rilasciata alla
nostra testata.
Da
pedagogista una battuta iniziale la devo rubare, perché da una sua battuta
sull’introduzione di una nuova figura, che sarebbe il personal educator, è nata
un po’ una discussione. Ci spiega un attimo questo aspetto?
Grazie
per questa domanda, perché è da qualche settimana che mi tormenta questa
battuta. È stata, appunto, soltanto una battuta nata durante un webinar,
quando, ad un certo punto, con Dario Ianes ci siamo detti che sono tanti anni
che stiamo discutendo della scuola inclusiva, della personalizzazione, e a quel
punto ho detto che invece di parlare sempre di personal trainer vorrei si
parlasse dei personal educator. Ma ho fatto una battuta per dire che è talmente
tanto ovvio che un educatore può essere solo educatore di un essere vivente,
che chiamiamo persona e personalizzazione del sistema, che ogni altra modalità
di leggere l’educazione, la scuola, mi sembra da non affrontare neanche.
Era
una battuta per sorridere insieme sul fatto che se dobbiamo arrivare a dei
paradossi per portarci a riflettere su quanto a volte scivoliamo sulle bucce di
banane nel sistema quotidiano di discussione anche sulle nostre questioni
educative di base, forse non è il caso di sprecare energie. Ridendone pensavo
di far cosa buona e giusta, invece evidentemente ho generato queste domande
come se davvero volessi creare una nuova figura. Non è così, ma era un concetto
per far riflettere sul fatto che abbiamo bisogno proprio di un’educazione che
torni a guardare al tu per tu. Per me era talmente evidente che tutto potevo
immaginarmi meno che questo avrebbe generato discussione, ma ben venga la
discussione, anche perché così si capisce, se mi permetti, la differenza tra la
relazione umana del guardarsi e parlarsi, in cui i toni della voce e lo sguardo
modulano le parole, e le trascrizioni fredde.
Le
trascrizioni possono non far percepire il significato profondo, avrebbe detto
Chomsky, di ciò che viene comunicato, quindi il significato profondo, e
sorridiamo del fatto che non dobbiamo dimenticare questa base comune che mette
insieme chi si occupa di educazione e chi si occupa di psyché, ovvero che tu
sei il mio fine e non è tutto uguale per chiunque rientri in questo fine. Se tu
nella scuola sei il mio fine, l’attenzione alla persona è una condizione sine
qua non.
Professoressa
Lucangeli, partiamo facendo un punto di situazione, nonostante le tante
attività di formazione e sensibilizzazione su un approccio positivo con gli
alunni che tenga conto anche della sfera emotiva e del supporto necessario, la
scuola italiana su questo tema è ancora a macchia di leopardo. Cosa è
necessario affinché questo approccio diventi strutturale?
Devo
dire che da un po’ di tempo c’è maggiore chiarezza sul fatto che le emozioni
non sono un fattore indipendente né dall’apprendimento né dalla salute
complessiva che il tempo scuola determina. Cioè la warm condition, l’educare
con emozioni calde, ci dice che noi non apprendiamo soltanto con sistemi
cognitivi che i neuroscienziati chiamano dipendenti dalle cortecce associative,
quindi dagli apprendimenti cognitivi base, prestazionali attraverso la memoria,
l’attenzione eccetera, ma abbiamo delle forme di apprendimento molto più
profonde e questo apprendimento profondo della nostra specie, che non è
prestazionale, non è passivo, ma è di elaborazione dell’informazione che
diventa intelligenza, passa attraverso strutture neurali che si chiamano
sistema limbico, ovvero il sistema che riconosce e segnala se ciò che sto
apprendendo è appreso bene o con segnali di allerta.
Tante
volte ho detto che se mentre studio, studio con ansia, l’ansia è
un’intelligenza antica che il mio sistema limbico mi rimanda e che mi dice
scappa da là perché non ti fa bene. Ora, venendo alla domanda su come mai la
scuola è a macchia di leopardo, questo avviene perché c’è un cambio di
paradigma, perché significa che dobbiamo abbandonare quel sistema classico da
cui la scuola forse ha preso origine, almeno la scuola italiana per come la
conosciamo, cioè io ti insegno, tu apprendi, io verifico, che è il circolo
classico dell’insegnamento/apprendimento che da decine di anni stiamo dicendo
non corrispondere a come funziona il nostro sistema, il nostro cervello, la
nostra intelligenza, anche emotiva.
Perché
noi non siamo dei frigoriferi in cui le informazioni possono essere mantenute
quanto più corrette, quanto meno elaborate, bensì noi siamo dei trasformatori e
nel trasformare l’informazione quello che dici tu modifica me, ma mi modifica
sia attraverso una segnalazione cognitiva, che è il prendere l’informazione
nuova, ma poi c’è anche un’informazione calda, emotiva, che può generare
piacere, curiosità, interesse, motivazione, oppure può essere calda nel senso
che genera un alert, ovvero che c’è un guaio, un giudizio che mi mette in
difficoltà. Questa segnalazione antica è il segnale che il cervello limbico dà
all’intelligenza e alle cortecce associative di “scappa o cerca ancora”.
E
di qui il mio discorso serio alla scuola e ai colleghi che si occupano di
scuola è che tutto questo non è parere di qualcuno, compresa me, ma tutto
questo è quello che le evidenze stanno portando alla luce del funzionamento di
specie, quindi in tutti noi le emozioni regolamentano il flusso del vivere
soprattutto in termini di benessere e malessere, di salute del processo. Quindi
la scuola è fonte di salute alla mia intelligenza, alla mia persona, al mio
sentire o è fonte di malessere? Questo è un po’ il dibattito che non può
continuare ad essere sotterraneo, perché da un punto di vista delle ricerche
così come quando apro gli occhi sono gli occhi che vedono, allo stesso modo
quando apprendo sono le emozioni che sentono, quindi non è che è parere di
qualcuno, quelle emozioni tracciano le memorie e le memorie tracciano il
futuro.
Tra
gli alunni aumenta la sofferenza verso un approccio educativo basato sulla
mortificazione, un approccio passivizzante, giudicante e non di supporto.
L’ansia scolastica viene vissuta già in tenera età tra aspettative dei genitori
e difficili rapporti con gli insegnanti. Come abbassare la conflittualità e
dare la giusta serenità agli studenti nel percorso di apprendimento sviluppando
il modello che lei spesso richiama della curiosità epistemica?
C’è
ancora in corso un dibattito non risolto all’interno di coloro che si occupano
di scuola in varia natura e questo dibattito riguarda il ruolo dell’insegnante.
Da un lato si pensa che il magister non deve occuparsi del
fatto che l’alunno stia bene o meno, perché la scuola non ha un fine curativo
ma di insegnamento, quindi l’insegnante si deve occupare che l’alunno sappia le
discipline con la correttezza con cui le deve conoscere per poter avere delle
competenze che siano durevoli, adeguate e che diano al discente la possibilità
di migliorare le proprie funzioni e la sua intelligenza. Questa visione intende
che in fondo tutta l’attenzione agli aspetti che chiamano psicologici, come se
l’apprendimento o l’intelligenza non lo fossero, e che in realtà sono gli
aspetti emotivi del come mi sento e non soltanto di come elaboro, non siano un
compito del docente.
Tuttavia
non dobbiamo dimenticare che il docente entra a svolgere un ruolo attivo
nell’età del neurosviluppo, in cui per filogenesi è fondamentale il modello
significativo di riferimento per formare l’immagine di sé stessi come
competenti, adeguati, intelligenti, benvoluti e inclusi ed è fondamentale che
questa parte della riflessione del “a me spetta insegnarti”, si arricchisca del
fatto che per “insegnar-ti”, e non mettere nella memoria passiva, valutata e
basta, io sono un umano che ha a che fare con un umano che ha delle
caratteristiche in cui mentre apprende anche sente. Tutto questo non è
dipendente dalla mia volontà, semplicemente accade, quindi dobbiamo ampliare il
nostro paradigma di conoscenze per essere chi lascia il segno, altrimenti tutti
lo nasconderemo, ma tutti siamo vittime di figli che tornano in lacrime, di
insegnanti che tornano affaticatissimi e in lacrime, di sistemi che non si
comprendono.
L’umanità
è questa, l’umanità ha delle funzioni di decisione razionale e delle funzioni
di decisione senziente, non è che perché il mio compito è insegnarti storia,
matematica o grammatica, nel mentre te lo sto insegnando non ti sto anche
passando un messaggio che ti dà rispetto, dignità, competenza, debolezza,
vulnerabilità, esclusione, quindi questo processo non è eliminabile, non è
eludibile, anche se vorrei semplicemente insegnare informazioni, l’altro,
siccome è un umano, accanto alle informazioni prende tutto il resto. In realtà
sarei anche stanca di continuare a ripeterlo, perché non è una posizione
personale, non è una posizione che può essere messa in discussione, perché
metterla in discussione significa spostare il ragionamento da un ragionamento
ben fondato su come funziona la psyché dell’umano a un ragionamento di tipo
ideologico al quale si può concordare o meno.
Posso
anche non essere d’accordo, ma funziona lo stesso così, è quello che vorrei far
capire, nel senso che posso anche non concordare ideologicamente, ma il fatto
che io non sia d’accordo non modifica come funziona il cervello umano e come
funziona in quell’età in cui i nostri figli sono affidati ai docenti. Che cosa
c’entra in tutto questo la curiosità epistemica? C’entra perché il principio di
specie che fa sì che io sono in qualche modo collegato alla figura
significativa di riferimento non è solo affettiva e non è solo psicosociale,
basti guardare tutte le ricerche sull’attaccamento e sul “te” modello
significativo, ma è anche cognitiva.
Questo
accade perché c’è un bisogno innato di sapere, che si chiama curiosità
epistemica, che attribuisce a te che sai una potenza di aiuto tale che
sprecarla, a mio avviso, non è etico. Quindi poiché abbiamo componenti
cognitive, componenti di specie sociale e componenti emozionali e tutto questo
porta una fortissima funzione di modello significativo nelle mani dei docenti,
ecco che dobbiamo approfittarne, perché vuol dire che come educatori possiamo
fare molto come differenziali di sviluppo.
Un
tema caldo e molto dibattuto riguarda l’uso dei dispositivi digitali e dei
social tra i ragazzi, sia a scuola che in famiglia. Alcuni esperti hanno
lanciato un appello per introdurre un divieto al loro accesso legato all’età
dei ragazzi. In una società dove la tecnologia ci isola sempre di più quanto è
importante mettere dei limiti oltre ad avviare un’educazione sul corretto uso
del digitale?
È
una domanda che contiene molte domande e proverò a rispondere un po’ a volo di
rondine. La prima domanda, che è implicita, è collegata a quella che mi hai
fatto della curiosità epistemica, perché la curiosità epistemica è il desiderio
naturale di sapere e la parola desiderio la collego a tutte le riflessioni
sulla tecnologia. Cercando di sintetizzare un po’, dobbiamo partire dal fatto
che siamo in un mondo che sviluppa e svilupperà tecnologia, per questo motivo
così come dobbiamo conoscere cosa fa la tecnologia, è altrettanto importante
conoscere l’impatto che questo cambiamento ha su una specie umana che nei suoi
milioni di anni evolutivi non l’aveva mai incontrata prima.
Per
esempio, un impatto forte è quello con cui hai concluso la domanda, ovvero che
siamo sempre più soli e a tal proposito c’è una ricerca molto importante che
dimostra che l’emozione che nell’età più iperconnessa che ci sia mai stata
tecnologicamente è la solitudine, perché ci possiamo connettere in pochi
istanti a tutto e a tutti, ma nonostante ciò nell’occidente del mondo
l’emozione più diffusa per bambini, adolescenti, adulti e anziani è la
solitudine.
Una
domanda che si sono fatti i ricercatori dicono è stata proprio quella di
chiedersi come mai se siamo connessi siamo soli e sono costretti ad ammettere
che la distinzione tra processi naturali e processi artificiali è una
distinzione ancora da comprendere. Facciamo un esempio, è noto che da sempre
l’uomo ha bisogno della luce del sole, ma per la nostra intervista posso
usufruire della luce del neon artificiale perché mi consente di parlare con te,
ma se io sostituissi la luce del sole con la luce artificiale probabilmente
“sprogrammerei”, quindi danneggerei, le modalità con cui proprio per leggi di
natura io ho salute. Da qui il ragionamento dei ricercatori si è spostato su
cosa determina una vita artificiale di relazione e di connessione e questo
ragionamento ha portato a capire che in pratica ci sono una marea di
cambiamenti.
Qui
mi fermo perché il dibattito sarebbe troppo ampio per capire in poche parole il
discernimento da ciò che è vero a ciò che non è vero, a ciò che è amico e ciò
che non lo è. A questo punto la questione è capire se basta vietare per educare
il processo di crescita in un tempo in cui la tecnologia è anche risorsa e non
solo danno. Vietare significa allontanare nel tempo l’esposizione, allontanarla
nel tempo quando le risorse sono più mature, sia delle funzioni cerebrali sia
anche dei contesti sociali.
Quindi
il dibattito, che non è il mio ma lo sto semplicemente riassumendo, tra coloro
che sono favorevoli al divieto almeno finché non abbiamo raggiunto la maturità,
perché la tecnologia ha tutta una serie di fattori di rischio, dai campi
elettromagnetici al circuito della ricompensa, e l’altra parte che aggiunge che
oltre al non esporre quando è condizione di rischio, è necessario educare il
fattore di corretto utilizzo di strumenti potentissimi.
In
questo educare il corretto utilizzo di strumenti potentissimi si apre anche qui
un fiume di ragionamenti da fare. Collegando le tue domande mi piacerebbe
parlarti in questo momento del fatto che torna il termine desiderio, cioè nelle
ultime ricerche che sto studiando risulta chiaro che la differenza tra
dipendere e non dipendere da qualcosa, che sia il gioco, che sia un addiction
chimico o che sia la tecnologia, la differenza la fa il desiderare.
I
ricercatori ci spiegano ci spiegano che il processo del desiderare è un
processo di intelligenza limbica antico in cui io chiamo il futuro nel presente
ed è capace di discernere ciò che si desidera. Quando invece si dipende noi non
abbiamo la potenza di discernere e non abbiamo la condizione di chiamare il
futuro nel presente, bensì di ripetere il passato costantemente in cui non
siamo liberi di modificare perché dipendiamo e questa dipendenza ha alterato
quello che si chiama circuito della ricompensa, cioè un circuito limbico in cui
in qualche modo il cervello è abituato a ricompensarci dicendo che quella cosa
è un bene per noi ogni volta che ci spinge a cercare la stessa cosa.
Ecco
che nel momento in cui dipendiamo dalla tecnologia, noi siamo dentro una sorta
di ruota che non ci consente di desiderare altro. Concludendo, concordo con i
ricercatori e con gli scienziati che ritengono che la tecnologia si è
infiltrata nella crepa lasciata dal vuoto dell’educazione che abbiamo lasciato
al desiderare di stare, di capire, di comprendere, di aumentare, di migliorare,
di riuscire, di sbagliare con te a fianco. Cioè questo desiderare epistemico,
che tu hai citato, è un po’ il fondamento della scuola Magister che
mi piacerebbe tanto. Quindi la tecnologia ci sostituisce se noi non siamo Magister.
Un’ultima
domanda. In un suo intervento lei ha parlato dell’importanza della
socializzazione portando come esempio il mondo animale ed in particolare le
dinamiche degli stormi, il cui studio è uno degli elementi che hanno portato
all’assegnazione del premio Nobel a Giorgio Parisi. Ci spiega queste dinamiche
e quanto è importante per i nostri ragazzi l’interazione in presenza?
Anche
qui ci sarebbe tanto da dire, però io citavo lo studio sugli stormi perché ad
un certo punto a volte capita di non sapere più come arrivare a dare delle
metafore adeguate ai processi di cui parliamo con fondamento scientifico.
Quindi
tutti quei concetti di cui parlo, come ad esempio che noi siamo una specie
sociale, che noi siamo tutti interconnessi, che questa interconnessione fa sì
che io inspiro ciò che tu hai espirato, che io porto nei miei circuiti
cerebrali ciò che tu mi hai raccontato, che una classe sia una struttura
inclusiva, che respira la stessa aria ma che pensa gli stessi pensieri, la
stessa intelligenza, che questa intelligenza sia distribuita, l’ho detto
talmente tante volte che per spiegarlo ho adoperato l’esempio dello stormo.
Lo
stormo è un sistema inclusivo in cui tutti gli animali che appartengono allo
stesso stormo sono animali che hanno un cervello che riconosce e codifica
addirittura la forza del battito d’ali sincronizzato con gli altri del proprio
gruppo. Quindi, nel momento in cui una di queste creature si affatica e non
riesce nel volo, il capo branco che sta guidando il volo in quel momento sente
la debolezza e comanda con il battito d’ali a coloro che sono in grado di
portare un supporto di andare ad aiutare chi è in difficoltà, nella mia
metafora il capo branco è il Magister, è l’adulto che sta
accompagnando.
Questo
è uno dei tantissimi esempi che sono stati messi in luce come intelligenze di
stormo, io ho fatto la domanda che mi veniva spontaneamente simile a quella del
personal educator per fare un paradosso e ho detto, ma noi come madri, come
padri, come Magister, come insegnanti, ci comportiamo da gladiatori
in guerra o da capo stormo? Perché se siamo un capo stormo immediatamente
prestiamo il nostro aiuto affinché chi è debole ce la faccia, se invece siamo
un gladiatore, cioè siamo nel giudizio continuo, nella condanna continua, nella
ripetizione continua, del tu devi e non capisci, allora non siamo nel modello
di un sistema incluso.
Ora
uno su questo si può dire di essere d’accordo o meno, ma gli esseri viventi
della nostra specie funzionano così. Concludendo, dall’inizio alla fine ti ho
ripetuto lo stesso concetto in fondo, con domande molto differenti, però che
noi riteniamo di essere d’accordo o non d’accordo è ininfluente, perché il
sistema vivente di un bimbo che cresce ha bisogno di un capo stormo e non di un
gladiatore, altrimenti non evolve la propria fioritura, ma tutt’al più reagisce
diventando forte perché il suo desiderio è eliminare il gladiatore o diventare
un altro gladiatore e così continueremo in questo a esercitare le funzioni che
invece di essere salute di un sistema sociale che nell’educazione ha il suo
perno, diventa fire to fire, cioè fuoco con il fuoco, che è un po’
quello che sto vedendo accadere a tanti livelli e non soltanto dell’educazione.
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