domenica 8 dicembre 2024

EMOTIVITA' A SCUOLA


 La scuola non può essere fatta di docenti affaticatissimi e studenti che tornano in lacrime.
 Bisogna curare gli aspetti emotivi. 

INTERVISTA a Daniela Lucangeli

Di Fabio Gervasio

Daniela Lucangeli, esperta di psicologia dell’apprendimento, affronta le sfide cruciali dell’educazione contemporanea in un’intervista a Orizzonte Scuola che parte da una sua recente battuta sul “personal educator” per esplorare temi fondamentali della pedagogia moderna. La discussione si sviluppa attraverso riflessioni profonde sul rapporto tra emozioni e apprendimento, sul ruolo dell’insegnante e sull’importanza della dimensione umana nell’educazione.

Lucangeli, ordinario in Psicologia dell’educazione e dello sviluppo presso l’Università di Padova, Presidente della sezione sviluppo dell’Accademia Mondiale delle scienze Learning Disabilities (IARLD), Presidente dell’Associazione per il coordinamento nazionale degli insegnanti specializzati e la ricerca sulle situazioni di handicap (CNIS), nonché socio di numerose associazioni scientifiche internazionali e nazionali nell’ambito delle scienze dello sviluppo, affronta numerosi aspetti nel corso dell’intervista rilasciata alla nostra testata.

Da pedagogista una battuta iniziale la devo rubare, perché da una sua battuta sull’introduzione di una nuova figura, che sarebbe il personal educator, è nata un po’ una discussione. Ci spiega un attimo questo aspetto?

Grazie per questa domanda, perché è da qualche settimana che mi tormenta questa battuta. È stata, appunto, soltanto una battuta nata durante un webinar, quando, ad un certo punto, con Dario Ianes ci siamo detti che sono tanti anni che stiamo discutendo della scuola inclusiva, della personalizzazione, e a quel punto ho detto che invece di parlare sempre di personal trainer vorrei si parlasse dei personal educator. Ma ho fatto una battuta per dire che è talmente tanto ovvio che un educatore può essere solo educatore di un essere vivente, che chiamiamo persona e personalizzazione del sistema, che ogni altra modalità di leggere l’educazione, la scuola, mi sembra da non affrontare neanche.

Era una battuta per sorridere insieme sul fatto che se dobbiamo arrivare a dei paradossi per portarci a riflettere su quanto a volte scivoliamo sulle bucce di banane nel sistema quotidiano di discussione anche sulle nostre questioni educative di base, forse non è il caso di sprecare energie. Ridendone pensavo di far cosa buona e giusta, invece evidentemente ho generato queste domande come se davvero volessi creare una nuova figura. Non è così, ma era un concetto per far riflettere sul fatto che abbiamo bisogno proprio di un’educazione che torni a guardare al tu per tu. Per me era talmente evidente che tutto potevo immaginarmi meno che questo avrebbe generato discussione, ma ben venga la discussione, anche perché così si capisce, se mi permetti, la differenza tra la relazione umana del guardarsi e parlarsi, in cui i toni della voce e lo sguardo modulano le parole, e le trascrizioni fredde.

Le trascrizioni possono non far percepire il significato profondo, avrebbe detto Chomsky, di ciò che viene comunicato, quindi il significato profondo, e sorridiamo del fatto che non dobbiamo dimenticare questa base comune che mette insieme chi si occupa di educazione e chi si occupa di psyché, ovvero che tu sei il mio fine e non è tutto uguale per chiunque rientri in questo fine. Se tu nella scuola sei il mio fine, l’attenzione alla persona è una condizione sine qua non.

Professoressa Lucangeli, partiamo facendo un punto di situazione, nonostante le tante attività di formazione e sensibilizzazione su un approccio positivo con gli alunni che tenga conto anche della sfera emotiva e del supporto necessario, la scuola italiana su questo tema è ancora a macchia di leopardo. Cosa è necessario affinché questo approccio diventi strutturale?

Devo dire che da un po’ di tempo c’è maggiore chiarezza sul fatto che le emozioni non sono un fattore indipendente né dall’apprendimento né dalla salute complessiva che il tempo scuola determina. Cioè la warm condition, l’educare con emozioni calde, ci dice che noi non apprendiamo soltanto con sistemi cognitivi che i neuroscienziati chiamano dipendenti dalle cortecce associative, quindi dagli apprendimenti cognitivi base, prestazionali attraverso la memoria, l’attenzione eccetera, ma abbiamo delle forme di apprendimento molto più profonde e questo apprendimento profondo della nostra specie, che non è prestazionale, non è passivo, ma è di elaborazione dell’informazione che diventa intelligenza, passa attraverso strutture neurali che si chiamano sistema limbico, ovvero il sistema che riconosce e segnala se ciò che sto apprendendo è appreso bene o con segnali di allerta.

Tante volte ho detto che se mentre studio, studio con ansia, l’ansia è un’intelligenza antica che il mio sistema limbico mi rimanda e che mi dice scappa da là perché non ti fa bene. Ora, venendo alla domanda su come mai la scuola è a macchia di leopardo, questo avviene perché c’è un cambio di paradigma, perché significa che dobbiamo abbandonare quel sistema classico da cui la scuola forse ha preso origine, almeno la scuola italiana per come la conosciamo, cioè io ti insegno, tu apprendi, io verifico, che è il circolo classico dell’insegnamento/apprendimento che da decine di anni stiamo dicendo non corrispondere a come funziona il nostro sistema, il nostro cervello, la nostra intelligenza, anche emotiva.

Perché noi non siamo dei frigoriferi in cui le informazioni possono essere mantenute quanto più corrette, quanto meno elaborate, bensì noi siamo dei trasformatori e nel trasformare l’informazione quello che dici tu modifica me, ma mi modifica sia attraverso una segnalazione cognitiva, che è il prendere l’informazione nuova, ma poi c’è anche un’informazione calda, emotiva, che può generare piacere, curiosità, interesse, motivazione, oppure può essere calda nel senso che genera un alert, ovvero che c’è un guaio, un giudizio che mi mette in difficoltà. Questa segnalazione antica è il segnale che il cervello limbico dà all’intelligenza e alle cortecce associative di “scappa o cerca ancora”.

E di qui il mio discorso serio alla scuola e ai colleghi che si occupano di scuola è che tutto questo non è parere di qualcuno, compresa me, ma tutto questo è quello che le evidenze stanno portando alla luce del funzionamento di specie, quindi in tutti noi le emozioni regolamentano il flusso del vivere soprattutto in termini di benessere e malessere, di salute del processo. Quindi la scuola è fonte di salute alla mia intelligenza, alla mia persona, al mio sentire o è fonte di malessere? Questo è un po’ il dibattito che non può continuare ad essere sotterraneo, perché da un punto di vista delle ricerche così come quando apro gli occhi sono gli occhi che vedono, allo stesso modo quando apprendo sono le emozioni che sentono, quindi non è che è parere di qualcuno, quelle emozioni tracciano le memorie e le memorie tracciano il futuro.

Tra gli alunni aumenta la sofferenza verso un approccio educativo basato sulla mortificazione, un approccio passivizzante, giudicante e non di supporto. L’ansia scolastica viene vissuta già in tenera età tra aspettative dei genitori e difficili rapporti con gli insegnanti. Come abbassare la conflittualità e dare la giusta serenità agli studenti nel percorso di apprendimento sviluppando il modello che lei spesso richiama della curiosità epistemica?

C’è ancora in corso un dibattito non risolto all’interno di coloro che si occupano di scuola in varia natura e questo dibattito riguarda il ruolo dell’insegnante. Da un lato si pensa che il magister non deve occuparsi del fatto che l’alunno stia bene o meno, perché la scuola non ha un fine curativo ma di insegnamento, quindi l’insegnante si deve occupare che l’alunno sappia le discipline con la correttezza con cui le deve conoscere per poter avere delle competenze che siano durevoli, adeguate e che diano al discente la possibilità di migliorare le proprie funzioni e la sua intelligenza. Questa visione intende che in fondo tutta l’attenzione agli aspetti che chiamano psicologici, come se l’apprendimento o l’intelligenza non lo fossero, e che in realtà sono gli aspetti emotivi del come mi sento e non soltanto di come elaboro, non siano un compito del docente.

Tuttavia non dobbiamo dimenticare che il docente entra a svolgere un ruolo attivo nell’età del neurosviluppo, in cui per filogenesi è fondamentale il modello significativo di riferimento per formare l’immagine di sé stessi come competenti, adeguati, intelligenti, benvoluti e inclusi ed è fondamentale che questa parte della riflessione del “a me spetta insegnarti”, si arricchisca del fatto che per “insegnar-ti”, e non mettere nella memoria passiva, valutata e basta, io sono un umano che ha a che fare con un umano che ha delle caratteristiche in cui mentre apprende anche sente. Tutto questo non è dipendente dalla mia volontà, semplicemente accade, quindi dobbiamo ampliare il nostro paradigma di conoscenze per essere chi lascia il segno, altrimenti tutti lo nasconderemo, ma tutti siamo vittime di figli che tornano in lacrime, di insegnanti che tornano affaticatissimi e in lacrime, di sistemi che non si comprendono.

L’umanità è questa, l’umanità ha delle funzioni di decisione razionale e delle funzioni di decisione senziente, non è che perché il mio compito è insegnarti storia, matematica o grammatica, nel mentre te lo sto insegnando non ti sto anche passando un messaggio che ti dà rispetto, dignità, competenza, debolezza, vulnerabilità, esclusione, quindi questo processo non è eliminabile, non è eludibile, anche se vorrei semplicemente insegnare informazioni, l’altro, siccome è un umano, accanto alle informazioni prende tutto il resto. In realtà sarei anche stanca di continuare a ripeterlo, perché non è una posizione personale, non è una posizione che può essere messa in discussione, perché metterla in discussione significa spostare il ragionamento da un ragionamento ben fondato su come funziona la psyché dell’umano a un ragionamento di tipo ideologico al quale si può concordare o meno.

Posso anche non essere d’accordo, ma funziona lo stesso così, è quello che vorrei far capire, nel senso che posso anche non concordare ideologicamente, ma il fatto che io non sia d’accordo non modifica come funziona il cervello umano e come funziona in quell’età in cui i nostri figli sono affidati ai docenti. Che cosa c’entra in tutto questo la curiosità epistemica? C’entra perché il principio di specie che fa sì che io sono in qualche modo collegato alla figura significativa di riferimento non è solo affettiva e non è solo psicosociale, basti guardare tutte le ricerche sull’attaccamento e sul “te” modello significativo, ma è anche cognitiva.

Questo accade perché c’è un bisogno innato di sapere, che si chiama curiosità epistemica, che attribuisce a te che sai una potenza di aiuto tale che sprecarla, a mio avviso, non è etico. Quindi poiché abbiamo componenti cognitive, componenti di specie sociale e componenti emozionali e tutto questo porta una fortissima funzione di modello significativo nelle mani dei docenti, ecco che dobbiamo approfittarne, perché vuol dire che come educatori possiamo fare molto come differenziali di sviluppo.

Un tema caldo e molto dibattuto riguarda l’uso dei dispositivi digitali e dei social tra i ragazzi, sia a scuola che in famiglia. Alcuni esperti hanno lanciato un appello per introdurre un divieto al loro accesso legato all’età dei ragazzi. In una società dove la tecnologia ci isola sempre di più quanto è importante mettere dei limiti oltre ad avviare un’educazione sul corretto uso del digitale?

È una domanda che contiene molte domande e proverò a rispondere un po’ a volo di rondine. La prima domanda, che è implicita, è collegata a quella che mi hai fatto della curiosità epistemica, perché la curiosità epistemica è il desiderio naturale di sapere e la parola desiderio la collego a tutte le riflessioni sulla tecnologia. Cercando di sintetizzare un po’, dobbiamo partire dal fatto che siamo in un mondo che sviluppa e svilupperà tecnologia, per questo motivo così come dobbiamo conoscere cosa fa la tecnologia, è altrettanto importante conoscere l’impatto che questo cambiamento ha su una specie umana che nei suoi milioni di anni evolutivi non l’aveva mai incontrata prima.

Per esempio, un impatto forte è quello con cui hai concluso la domanda, ovvero che siamo sempre più soli e a tal proposito c’è una ricerca molto importante che dimostra che l’emozione che nell’età più iperconnessa che ci sia mai stata tecnologicamente è la solitudine, perché ci possiamo connettere in pochi istanti a tutto e a tutti, ma nonostante ciò nell’occidente del mondo l’emozione più diffusa per bambini, adolescenti, adulti e anziani è la solitudine.

Una domanda che si sono fatti i ricercatori dicono è stata proprio quella di chiedersi come mai se siamo connessi siamo soli e sono costretti ad ammettere che la distinzione tra processi naturali e processi artificiali è una distinzione ancora da comprendere. Facciamo un esempio, è noto che da sempre l’uomo ha bisogno della luce del sole, ma per la nostra intervista posso usufruire della luce del neon artificiale perché mi consente di parlare con te, ma se io sostituissi la luce del sole con la luce artificiale probabilmente “sprogrammerei”, quindi danneggerei, le modalità con cui proprio per leggi di natura io ho salute. Da qui il ragionamento dei ricercatori si è spostato su cosa determina una vita artificiale di relazione e di connessione e questo ragionamento ha portato a capire che in pratica ci sono una marea di cambiamenti.

Qui mi fermo perché il dibattito sarebbe troppo ampio per capire in poche parole il discernimento da ciò che è vero a ciò che non è vero, a ciò che è amico e ciò che non lo è. A questo punto la questione è capire se basta vietare per educare il processo di crescita in un tempo in cui la tecnologia è anche risorsa e non solo danno. Vietare significa allontanare nel tempo l’esposizione, allontanarla nel tempo quando le risorse sono più mature, sia delle funzioni cerebrali sia anche dei contesti sociali.

Quindi il dibattito, che non è il mio ma lo sto semplicemente riassumendo, tra coloro che sono favorevoli al divieto almeno finché non abbiamo raggiunto la maturità, perché la tecnologia ha tutta una serie di fattori di rischio, dai campi elettromagnetici al circuito della ricompensa, e l’altra parte che aggiunge che oltre al non esporre quando è condizione di rischio, è necessario educare il fattore di corretto utilizzo di strumenti potentissimi.

In questo educare il corretto utilizzo di strumenti potentissimi si apre anche qui un fiume di ragionamenti da fare. Collegando le tue domande mi piacerebbe parlarti in questo momento del fatto che torna il termine desiderio, cioè nelle ultime ricerche che sto studiando risulta chiaro che la differenza tra dipendere e non dipendere da qualcosa, che sia il gioco, che sia un addiction chimico o che sia la tecnologia, la differenza la fa il desiderare.

I ricercatori ci spiegano ci spiegano che il processo del desiderare è un processo di intelligenza limbica antico in cui io chiamo il futuro nel presente ed è capace di discernere ciò che si desidera. Quando invece si dipende noi non abbiamo la potenza di discernere e non abbiamo la condizione di chiamare il futuro nel presente, bensì di ripetere il passato costantemente in cui non siamo liberi di modificare perché dipendiamo e questa dipendenza ha alterato quello che si chiama circuito della ricompensa, cioè un circuito limbico in cui in qualche modo il cervello è abituato a ricompensarci dicendo che quella cosa è un bene per noi ogni volta che ci spinge a cercare la stessa cosa.

Ecco che nel momento in cui dipendiamo dalla tecnologia, noi siamo dentro una sorta di ruota che non ci consente di desiderare altro. Concludendo, concordo con i ricercatori e con gli scienziati che ritengono che la tecnologia si è infiltrata nella crepa lasciata dal vuoto dell’educazione che abbiamo lasciato al desiderare di stare, di capire, di comprendere, di aumentare, di migliorare, di riuscire, di sbagliare con te a fianco. Cioè questo desiderare epistemico, che tu hai citato, è un po’ il fondamento della scuola Magister che mi piacerebbe tanto. Quindi la tecnologia ci sostituisce se noi non siamo Magister.

Un’ultima domanda. In un suo intervento lei ha parlato dell’importanza della socializzazione portando come esempio il mondo animale ed in particolare le dinamiche degli stormi, il cui studio è uno degli elementi che hanno portato all’assegnazione del premio Nobel a Giorgio Parisi. Ci spiega queste dinamiche e quanto è importante per i nostri ragazzi l’interazione in presenza?

Anche qui ci sarebbe tanto da dire, però io citavo lo studio sugli stormi perché ad un certo punto a volte capita di non sapere più come arrivare a dare delle metafore adeguate ai processi di cui parliamo con fondamento scientifico.

Quindi tutti quei concetti di cui parlo, come ad esempio che noi siamo una specie sociale, che noi siamo tutti interconnessi, che questa interconnessione fa sì che io inspiro ciò che tu hai espirato, che io porto nei miei circuiti cerebrali ciò che tu mi hai raccontato, che una classe sia una struttura inclusiva, che respira la stessa aria ma che pensa gli stessi pensieri, la stessa intelligenza, che questa intelligenza sia distribuita, l’ho detto talmente tante volte che per spiegarlo ho adoperato l’esempio dello stormo.

Lo stormo è un sistema inclusivo in cui tutti gli animali che appartengono allo stesso stormo sono animali che hanno un cervello che riconosce e codifica addirittura la forza del battito d’ali sincronizzato con gli altri del proprio gruppo. Quindi, nel momento in cui una di queste creature si affatica e non riesce nel volo, il capo branco che sta guidando il volo in quel momento sente la debolezza e comanda con il battito d’ali a coloro che sono in grado di portare un supporto di andare ad aiutare chi è in difficoltà, nella mia metafora il capo branco è il Magister, è l’adulto che sta accompagnando.

Questo è uno dei tantissimi esempi che sono stati messi in luce come intelligenze di stormo, io ho fatto la domanda che mi veniva spontaneamente simile a quella del personal educator per fare un paradosso e ho detto, ma noi come madri, come padri, come Magister, come insegnanti, ci comportiamo da gladiatori in guerra o da capo stormo? Perché se siamo un capo stormo immediatamente prestiamo il nostro aiuto affinché chi è debole ce la faccia, se invece siamo un gladiatore, cioè siamo nel giudizio continuo, nella condanna continua, nella ripetizione continua, del tu devi e non capisci, allora non siamo nel modello di un sistema incluso.

Ora uno su questo si può dire di essere d’accordo o meno, ma gli esseri viventi della nostra specie funzionano così. Concludendo, dall’inizio alla fine ti ho ripetuto lo stesso concetto in fondo, con domande molto differenti, però che noi riteniamo di essere d’accordo o non d’accordo è ininfluente, perché il sistema vivente di un bimbo che cresce ha bisogno di un capo stormo e non di un gladiatore, altrimenti non evolve la propria fioritura, ma tutt’al più reagisce diventando forte perché il suo desiderio è eliminare il gladiatore o diventare un altro gladiatore e così continueremo in questo a esercitare le funzioni che invece di essere salute di un sistema sociale che nell’educazione ha il suo perno, diventa fire to fire, cioè fuoco con il fuoco, che è un po’ quello che sto vedendo accadere a tanti livelli e non soltanto dell’educazione.

 

Orizzonte scuola

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