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Tutti vogliamo una vita avventurosa, perché niente deprime come la
ripetitività e la noia, ma sembra che solo i bambini riescano a
trovare avventure ovunque. Forse perché la parola avventura oggi è
ridotta allo straordinario, se riferita alla vita, all'effimero, se riferita
all'amore: emozioni intense ma passeggere. Con il senso della parola
avventura abbiamo forse perso anche «il senso dell'avventura»? Vogliamo avventure, ma senza troppi
rischi, che però è come decidere di non camminare per paura di inciampare.
Collodi poteva ancora intitolare il suo libro «Le avventure di Pinocchio» per
indicare un percorso di formazione: che cosa fare per diventare uomini e non
rimanere teste e cuori di legno? Questo periodo dell'anno può allora servire
ad aggiustare una parola scassata, perché «avventura» viene da
«avvento» (venuta), cioè i giorni che, nel calendario cristiano, preparano la
Nascita (Natale). I calendari d'Avvento, con dolci e
sorprese, dovrebbero scandire più che le calorie l'attesa della (ri-)nascita,
cosmica (la luce torna a prevalere sul buio), cioè personale e collettiva.
Non bastano alberi, luci e regali per vivere «avventurosamente», cioè per
nascere di più. E poiché Natale è l'unico compleanno in cui sono gli
invitati, non il festeggiato, a ricevere regali, che avventura ci serve per
riceverli davvero? E che cosa dobbiamo regalarci a vicenda? Tornando alla storia della parola,
«avventura» non deriva, come si ripete semplificando, dal neutro plurale del
participio futuro del verbo latino ad-venio (accado):
«le cose che accadranno». La parola, come riassume bene il filosofo Giorgio
Agamben in Avventura, viene «dal latino classico e
cristiano adventus (l'avvento di un principe o del messia) o
da eventus, in ogni caso il termine designa
l'accadere a un certo uomo di qualcosa di misterioso o meraviglioso, che può
essere tanto positivo che negativo». Infatti, aventure indicava
in francese antico il romanzo cavalleresco medievale, la storia di qualcuno
che diventa uomo («umano») attraverso un rischioso percorso di esperienza e
conoscenza di sé e del mondo. Avventura era quindi nascere, diventare
se stessi, trovare il sacro (mistero e meraviglia) della vita, cioè ciò che in essa non muore, il
motivo per cui ciascuno di noi è qui. Avventura è il racconto di come
qualcuno riesce a «incarnare» il proprio destino; e dire «raccontami la tua
avventura» è come chiedere «perché e come sei venuto al mondo?». Ne rimane
traccia in espressioni come «l'avventura umana» (titolo
scelto di recente per il suo bel libro dell'amico Paolo Alliata)
per indicare proprio il percorso di ominizzazione: che cosa ha reso
umano l'uomo? Il fatto che nel romanzo medievale il
protagonista fosse un cavaliere non segnalava tanto la classe sociale o il
ruolo, ma la condizione umana, che è per definizione «errante», il rischioso
cammino verso la piena nascita di se stessi. L'avventura è quindi partorirsi,
e i mostri gli ostacoli alla propria «individuazione», compimento della
propria originalità. Infatti, il premio di quei romanzi medievali era la
beatitudine dell'amore, umano e divino. Senza avventura non si viene alla
luce: per questo la selva oscura era il teatro ideale dell'errare, come
nell'avventura dantesca. Oggi d'avventura è al massimo il genere
di un libro/film, avventuroso è un posto esotico, avventuriero un esploratore
di luoghi misteriosi o un dongiovanni a caccia di piaceri. Insomma, avventura
non è più il «senso (direzione e significato) della vita»: la (propria)
nascita, il compimento dell'umano nella forma irripetibile del nostro nome e
cognome. Eppure, persino il Dio della narrazione cristiana accetta
l'avventura umana: si incarna. Il credente dovrebbe essere chi vive la
condizione umana, dal grembo alla tomba, come avventura: se Dio si fa
uomo allora essere uomo è «da Dio», è divino. Un'ipotesi che rende tutto
entusiasmante (entusiasmo significava in greco «avere un dio dentro»): ogni
giorno è un'avventura in base a quanto avvento» di se stessi, cioè rischio di
nascere, ci concediamo. Ciò che farò oggi mi aiuta a partorire
di più la mia vita autentica o me ne allontana? Se mi aiuta, allora ci sarà
avventura, anche nel lavorare, nel cucinare, nel faticare, nel dormire... Se
mi allontana, allora la giornata è disavventura: non venire alla luce. Ma l'avventura umana comporta l'errare
(cercare ma anche sbagliare) dei cavalieri medievali, nei più o meno oscuri
boschi personali, dove si annidano i nemici del nostro nascere: le nostre
paure. C'è chi non nasce a se stesso per paura dell'abbandono, del giudizio
altrui, di non essere amato, di non essere degno, di soffrire... insomma
tutti quei complessi di inferiorità (vittime) che ci bloccano il passo
trasformandosi spesso in complessi di superiorità (carnefici), in ogni caso
violenza su noi stessi o sugli altri. In ogni casella del calendario
d'Avvento potremmo riconoscere uno di questi mostri e combatterli, come consiglia in una lettera il
poeta Rilke a un giovane, rifacendosi proprio all'immaginario cavalleresco:
«Le nostre paure più profonde sono come dei draghi a guardia del nostro
tesoro più segreto». Il colore delle vesti liturgiche delle
messe d'Avvento è non a caso il viola, colore della prova, del mistero, della
vita spirituale e dell'unione dei colori dell'umano e del divino, di terra e
cielo, il rosso e il blu. Insomma, l'Avvento sta al Natale come l'avventura
alla nascita, perché vivere è provare a nascere del tutto, incarnare
un destino. Se a Natale riceviamo regali è per
ricordarci che la Vita (divina) vuole la nostra venuta. Noi infatti siamo chiamati a due
nascite: la prima senza far nulla, la seconda (che dura tutta la vita)
diventando noi stessi, cioè, incarnando in ogni fibra ciò che in quella vita
non morirà, essere e fare quello che solo noi potevamo essere e fare. E
allora tutto diventa avventura: fare una lezione (che cosa scopro oggi da
Omero e dai miei studenti?), scrivere (che bellezza trovo in questa vita?),
amare e lasciarsi amare (saprò dire ti amo e lasciarmelo dire?), fare la
spesa (sarò «cavaliere» con chi sta alla cassa o in fila?), cucinare (sarò
capace di creare un piatto in sintonia con la stagione e con l'ospite?),
sbagliare (saprò chiedere scusa a me stesso e agli altri?)... insomma, le
«prove» che ci portano a trovare il sacro ordinario, l'entusiasmo
quotidiano. Vi auguro giorni pieni «d'avvento»,
perché troviamo il coraggio di nascere un po' di più e di aiutare chi ci sta
accanto a farlo. Ogni casella del calendario d'avvento potrebbe contenere un:
«Raccontami la tua avventura» rivolto a qualcuno e un «Che drago affronto
oggi?» rivolto a noi stessi. Buona avventura! |
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martedì 10 dicembre 2024
L'AVVENTURA DEL RINASCERE
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