Eugenio
Borgna è morto a 94 anni. Rivoluzionò la cura psichiatrica come
"rapporto tra interiorità". Ha scritto molti saggi confrontandosi
anche con opere di letteratura, poesia, filosofia. Ha scritto per Esodo
articoli che mostrano la grande apertura per le tematiche della fede. Nei
contatti avuti direttamente colpiva la sua gentilezza, la pronta disponibilità
e l'interesse per una relazione personale.
Pubblichiamo l'articolo La violenza del linguaggio nelle
relazioni, tratto da Esodo n. 1/2020, pp. 9-13, "Parola che crea,
parola che distrugge".
Sono
molte le pagine che ho dedicato alle parole, alla loro importanza nelle
relazioni quotidiane, e in particolare a quella delle parole nelle relazioni
fra medico e paziente: paradigmatiche nel creare relazioni umane, e
terapeutiche, o invece conflittuali, e antiterapeutiche. Fra le discipline
mediche, la psichiatria è quella che dà la maggiore importanza alle parole, e
non può vivere senza le parole, di quelle dei pazienti, e di quelle di chi li
cura.
Come
diceva Friedrich Hoelderlin, sulla scia di intuizioni nutrite di genialità e di
follia, tutto è connesso, e allora vorrei dire che le relazioni sono il
background, il tessuto ineliminabile, della vita, intrecciandosi alle emozioni
che proviamo, e alle parole che le esprimono. Se vogliamo conoscere qualcosa di
quello che avviene in noi, quando siamo in relazione, e non possiamo non
esserlo sempre, non dovremmo mai stancarci dal seguire il cammino che ci porta
alla nostra interiorità: in interiore homine habitat veritas: lo diceva
sant’Agostino.
Noi
siamo un colloquio
Ogni
relazione è dialogo, è colloquio, è un essere insieme nell’ascolto, e non
sempre è facile esserlo, ascoltare è attenzione, che è preghiera, si ascoltano
le parole che ci sono dette, ma anche quelle che non ci sono dette, e che
parlano con la voce degli occhi, alcuni occhi sbranano, come diceva Elias
Canetti, e dei volti, delle lacrime e del sorriso. Quando ci incontriamo con
una persona, la dovremmo guardare negli occhi, e la cosa ha una enorme
importanza non solo nella relazione fra medico e paziente, fra insegnanti e
allievi nella scuola, ma anche fra genitori e figli. Non saprei parlare della
violenza che oggi dilaga nelle parole che si dicono nelle più diverse aree
tematiche della vita senza svolgere alcune considerazioni sulla fenomenologia
delle parole che dovremmo ricordarci di dire.
Le
parole sono creature viventi
Le
parole sono creature viventi, le parole non sono mai inerti e mute, comunicano
sempre qualcosa, sono impegnative per chi le dice, e per chi le ascolta, e una
volta dette non ci appartengono più. Non c’è conoscenza se non seguendo il
sentiero talora luminoso talora oscuro delle parole, ma ci sono parole che
curano, parole che fanno del bene, e parole che fanno del male, e questo non ha
importanza solo nella relazione fra medico e paziente, ma anche nella vita di
ogni giorno. Sono le parole che ci consentono di essere in relazione con gli
altri, con le persone che ci sono amiche, con quelle che ci chiedono di essere
ascoltate, e con quelle che curiamo, se siamo medici. Non sempre siamo
consapevoli dell’importanza che le parole hanno nel destare risonanze emozionali
creative, e nel creare relazioni umane, che siano portatrici di serenità e di
attesa, di conforto e di speranza, o invece di malessere e di sofferenza, di
angoscia e di disperazione; ma non dovremmo mai dimenticarlo in ogni stagione
della nostra vita.
Quando
parliamo con una persona, cerchiamo di capire cosa ci dicano il suo volto e il
suo sguardo, il suo sorriso e le sue lacrime? Non dovremmo mai dimenticare
quello che ha scritto un grande scrittore francese, André Gide: nessuna parola
giunga alle nostre labbra che non sia stata prima nel nostro cuore. Se lo
facessimo, sapremmo trovare parole gentili che curano, e fanno del bene, parole
che creano fiducia, e speranza, parole che ci allontanano dalla indifferenza e
dalla violenza del linguaggio. Non so pensare a quanta consapevolezza noi
abbiamo della importanza del linguaggio, che richiede in ogni caso riflessione
e attenzione a quello che avviene nella nostra vita interiore, e in quella
delle persone che la vita ci fa incontrare. Le parole che ci scambiamo in
internet non bastano, e non servono, a metterci in una relazione dialogica con
gli altri da noi, e semmai ci rendono partecipi di esperienze che non siano
nutrite di emozioni.
Grande
è la responsabilità delle famiglie e della scuola, degli strumenti di
comunicazione, nel ridare importanza alle parole viventi, alle parole che hanno
un suono, senza disconoscere i significati della comunicazione digitale, ma
rimarcandone i limiti, e circoscrivendone le aree di comunicazione che in essa
tendono ad essere astratte, ed estranee ad ogni contenuto emozionale.
Come
riscoprire le parole gentili?
Le
parole che non fanno male, le parole che aiutano le persone che vivono nel
dolore, o nella disperazione, le parole che non consentono il linguaggio della
violenza, non le troveremmo mai se non siamo capaci di immedesimarci nelle
emozioni delle persone, che la vita ci fa incontrare. Non ci sono ricette, non
ci sono consigli, in questo campo, ed è necessario affidarsi all’intuizione e
alla sensibilità personali. Ci sono psichiatri e psicologi che non le hanno, e
persone semplici che le hanno: sono qualità, almeno in parte, innate, e in ogni
caso educabili. Non c’è comunicazione autentica se non quando si evitano parole
indistinte e banali, ambigue e indifferenti, glaciali e astratte, crudeli e
anonime. Ma è necessario educarsi a rivivere in noi le situazioni dolorose
degli altri, e a immaginare quali parole vorremmo sentire dagli altri, se
fossimo noi a stare male, e ad avere bisogno di parole che aprano il nostro
cuore alla speranza.
Costa
tempo, costa fatica, questa educazione alla immedesimazione nei pensieri e
nelle emozioni delle persone che incontriamo; ma è un dovere al quale non
dovremmo mai venire meno: solo così si può sperare in una rinnovata coscienza
etica della vita.
Le
relazioni quotidiane
Le
parole sono essenziali nel creare relazioni quotidiane gentili e umane, invece
gelide e ostili. Non ci sono insomma relazioni quotidiane, che non siano
trainate dalle parole, dalla grande importanza che esse hanno nella vita. Non
sono ovviamente un linguista, e non saprei inoltrarmi nelle selve oscure delle
etimologie, e nondimeno nei lunghi anni di vita in psichiatria, in un manicomio
in particolare, sono giunto a mano, a mano a conoscere quali parole dire, e
quali non dire, quando ero in dialogo con le pazienti di cui mi occupavo. Le
esperienze, che mi è stato possibile fare, mi hanno fatto conoscere
l’importanza delle parole nella vita quotidiana, e la frequenza di quelle
intessute di noncuranza e di indifferenza, di disinteresse e di apatia: premesse
alla nascita della violenza del linguaggio.
Non
ho potuto confrontarmi con un tema, come quello della violenza nel linguaggio
nelle relazioni quotidiane, di questa radicale importanza, senza riflettere
prima sulla fenomenologia e sulla dinamica del linguaggio delle parole: non c’è
solo questo, certo, c’è anche il linguaggio del corpo vivente, dei gesti e dei
volti, degli sguardi e delle lacrime, e c’è anche, non meno importante, il
linguaggio del silenzio. Non dovremmo dimenticarlo, e in ogni caso vorrei ora
continuare a riflettere sulla fenomenologia delle parole, e in particolare
sulle risonanze, che esse possono avere nelle nostre quotidiane relazioni di
vita, evitando le parole portatrici di aggressività e di violenza, che oggi
riemergono così frequentemente.
Le
parole divorate dall’indifferenza
Mille
modi di essere in relazione, ma, prima ancora di parlare della violenza nel
linguaggio quotidiano, vorrei dire qualcosa dell’indifferenza che ci porta a
essere prigionieri dei nostri desideri e delle nostre attese, e a rifuggire
dall’ascolto, e dalla ricerca, di quelli degli altri. L’indifferenza è una
delle premesse a non interessarsi del valore e dei significati delle parole,
essa crea il deserto in noi: il deserto dei tartari, così come ne parla Dino
Buzzati nel suo bellissimo romanzo. La mattina, risvegliandoci, Friedrich
Nietzsche diceva che dovremmo augurarci di fare durante la giornata almeno una
buona azione: questa sarebbe la sconfitta dell’indifferenza, che si nasconde
nella noia, nel disinteresse al dolore e alle sofferenze, nel venire meno al
dovere della generosità e della solidarietà, e nella scelta di parole che non
hanno risonanze risanatrici nella vita interiore degli altri.
Sono
parole non ancora immerse nella violenza, ma fanno del male, generano
malessere, e non di rado angoscia, nelle persone, in quelle adolescenti in
particolare, con le quali ci incontriamo. L’egoismo e l’indifferenza che ne
consegue, o che lo genera, sono i primi germi, i più diffusi, ai quali dovremmo
fare attenzione, e ai quali invece non pensiamo, distraendoci, e smarrendo
gentilezza e umanità. La violenza nel linguaggio la riconosciamo facilmente, ma
non ci accorgiamo che anche parole divorate dall’indifferenza fanno soffrire
gli altri che non riescono a difendersi. Le parole dell’egoismo e
dell’indifferenza, le une sconfinanti nelle altre, le dovremmo riconoscere, ed
evitare a ogni costo, perché sono pericolose ugualmente a quelle violente che
sono più facilmente riconosciute nelle loro conseguenze. La violenza del
linguaggio nasce da uno sconvolgimento etico ancora più radicale e
sconvolgente.
La
violenza del linguaggio
Il
passaggio dall’indifferenza del linguaggio alla violenza del linguaggio si
constata oggi con inquietante frequenza in molte condizioni sociali di vita.
Basta andare in macchina, anche su strade provinciali, nemmeno molto
trafficate, perché la violenza, e non solo l’indifferenza e l’insofferenza
delle persone, si abbia a manifestare nei gesti e nelle parole. Il linguaggio
violento si tocca con mano, ed è espressione di una raggelante indifferenza
etica. L’andare in macchina, la cosa oggi più banale e più frequente, ci parla
della violenza, che non è solo nelle parole, ma anche nei gesti che le
accompagnano, causando indelebili ferite alla dignità e alla libertà,
all’umanità e alla gentilezza, al rispetto e all’autonomia degli altri da
noi.
Il
linguaggio della violenza, che sradica le fondazioni etiche delle relazioni
quotidiane, dilaga in aree sempre più vaste della vita: da quelle della vita
quotidiana a quelle della vita politica. La violenza del linguaggio lascia
ferite che non si rimarginano, e continuano a sanguinare; e la cosa è così
diffusa che non ce ne accorgiamo. Dall’iniziale indifferenza ai valori delle
relazioni quotidiane si passa così alla violenza agghiacciante delle parole, e
da queste non si torna più indietro, inaridendo ogni fonte etica della vita.
Non dimentichiamoci mai di riflettere sul destino delle parole che diciamo, e
talora di quelle che dovremmo dire, e non diciamo, a causa delle nostre paure,
e delle nostre negligenze.
La
violenza del linguaggio non si manifesta solo quando si è in macchina, ma
anche, e in misura ancora più pericolosa, in alcune trasmissioni televisive, in
alcuni articoli giornalistici, e nella vita politica. Le relazioni quotidiane
ne sono deformate e lacerate nei loro orizzonti di senso, conducono
all’esasperazione, e alla creazione di esistenze imprigionate nei grovigli di
individualismi, perduti a ogni possibile speranza. Ma la violenza delle parole
rinasce nei suoi aspetti più devastanti, direi, nelle forme di espressione
politica che raggiungono dissonanze intollerabili. Le parole, quelle che ho
cercato di indicare nelle loro sfere semantiche gentili e comunitarie, ne sono
sfigurate, non comunicano se non rabbia e aggressività, ritorsioni e violenza,
ai confini di una umanità ferita e lacerata. Ciascuno di noi dovrebbe
impegnarsi nel recuperare linguaggi e comportamenti educati e gentili, aperti
all’ascolto e alla solidarietà, estranei a ogni forma di violenza.
Quale
salvezza?
Solo
recuperando il valore delle parole, e cogliendone le fragilità e gli orizzonti
di senso, è possibile immaginare di moderare il flusso continuo e inarrestabile
della violenza del linguaggio. La gentilezza è la forma di vita, antitetica a
quella divorata dall’indifferenza e dalla violenza, che dovrebbe essere
illustrata nella sua ragione d’essere nella scuola primaria e nelle scuole
secondarie. In alcune scuole austriache questo avviene, illustrando il tema non
meno importante della follia, considerata come dolorosa possibilità umana, e
non demonizzata come esperienza di vita insignificante e desertica. A questa
degenerazione etica non ci sarà salvezza se non insegnando nelle scuole il
significato umano e rivoluzionario delle parole, e quello della gentilezza, che
si dovrebbe accompagnare a ogni momento della nostra vita, e che nobilita la
condizione umana: la psichiatria conosce bene queste cose che non si stanca di
ripetere. Sì, in psichiatria parole sbagliate e immotivate, sconsiderate e
indifferenti, sono causa di dolore e di angoscia, di ferite dell’anima, che
possono non guarire più, e allora mi augurerei che queste mie pagine, nutrite
di anni e anni trascorsi nel mondo misterioso della follia, possano essere di
un qualche aiuto nelle riflessioni sugli infiniti orizzonti di senso delle
parole, e in particolare sulla loro incompresa fragilità.
La
violenza delle parole non è se non la premessa, voluta, o non voluta, alla
violenza delle azioni, ed è allora un tema di radicale attualità. Non dovremmo
mai dimenticarlo.
Indicazioni
di lettura
Agostino,
Le confessioni, Einaudi, Torino 1966.
E.
Borgna, La follia che è anche in noi, Einaudi, Torino 2019.
E.
Borgna, Saggezza, il Mulino, Bologna 2019.
E.
Borgna, Il fiume della vita. Una storia interiore, Feltrinelli, Milano
2020.
D.
Buzzati, Il deserto dei tartari, Mondadori, Milano 2016.
E.
Canetti, Il gioco degli occhi, Adelphi, Milano 1995.
A.
Gide, La sinfonia pastorale, Frassinelli, Torino 1953.
F.
Hoelderlin, Tutte le liriche, Mondadori, Milano 2001.
F.
Nietzsche, Frammenti postumi 1884, Adelphi, Milano 1976.
L.
Serianni, Il sentimento della lingua, il Mulino, Bologna 2019.
Alzogliocchiversoilcielo
Immagine
Nessun commento:
Posta un commento