venerdì 13 dicembre 2024

IL VALORE DELLE PAROLE


 Eugenio Borgna è morto a 94 anni. Rivoluzionò la cura psichiatrica come "rapporto tra interiorità". Ha scritto molti saggi confrontandosi anche con opere di letteratura, poesia, filosofia. Ha scritto per Esodo articoli che mostrano la grande apertura per le tematiche della fede. Nei contatti avuti direttamente colpiva la sua gentilezza, la pronta disponibilità e l'interesse per una relazione personale.


Pubblichiamo l'articolo La violenza del linguaggio nelle relazioni, tratto da Esodo n. 1/2020, pp. 9-13, "Parola che crea, parola che distrugge".

 

Sono molte le pagine che ho dedicato alle parole, alla loro importanza nelle relazioni quotidiane, e in particolare a quella delle parole nelle relazioni fra medico e paziente: paradigmatiche nel creare relazioni umane, e terapeutiche, o invece conflittuali, e antiterapeutiche. Fra le discipline mediche, la psichiatria è quella che dà la maggiore importanza alle parole, e non può vivere senza le parole, di quelle dei pazienti, e di quelle di chi li cura. 

Come diceva Friedrich Hoelderlin, sulla scia di intuizioni nutrite di genialità e di follia, tutto è connesso, e allora vorrei dire che le relazioni sono il background, il tessuto ineliminabile, della vita, intrecciandosi alle emozioni che proviamo, e alle parole che le esprimono. Se vogliamo conoscere qualcosa di quello che avviene in noi, quando siamo in relazione, e non possiamo non esserlo sempre, non dovremmo mai stancarci dal seguire il cammino che ci porta alla nostra interiorità: in interiore homine habitat veritas: lo diceva sant’Agostino. 

Noi siamo un colloquio 

 Ogni relazione è dialogo, è colloquio, è un essere insieme nell’ascolto, e non sempre è facile esserlo, ascoltare è attenzione, che è preghiera, si ascoltano le parole che ci sono dette, ma anche quelle che non ci sono dette, e che parlano con la voce degli occhi, alcuni occhi sbranano, come diceva Elias Canetti, e dei volti, delle lacrime e del sorriso. Quando ci incontriamo con una persona, la dovremmo guardare negli occhi, e la cosa ha una enorme importanza non solo nella relazione fra medico e paziente, fra insegnanti e allievi nella scuola, ma anche fra genitori e figli. Non saprei parlare della violenza che oggi dilaga nelle parole che si dicono nelle più diverse aree tematiche della vita senza svolgere alcune considerazioni sulla fenomenologia delle parole che dovremmo ricordarci di dire. 

 Le parole sono creature viventi 

 Le parole sono creature viventi, le parole non sono mai inerti e mute, comunicano sempre qualcosa, sono impegnative per chi le dice, e per chi le ascolta, e una volta dette non ci appartengono più. Non c’è conoscenza se non seguendo il sentiero talora luminoso talora oscuro delle parole, ma ci sono parole che curano, parole che fanno del bene, e parole che fanno del male, e questo non ha importanza solo nella relazione fra medico e paziente, ma anche nella vita di ogni giorno. Sono le parole che ci consentono di essere in relazione con gli altri, con le persone che ci sono amiche, con quelle che ci chiedono di essere ascoltate, e con quelle che curiamo, se siamo medici. Non sempre siamo consapevoli dell’importanza che le parole hanno nel destare risonanze emozionali creative, e nel creare relazioni umane, che siano portatrici di serenità e di attesa, di conforto e di speranza, o invece di malessere e di sofferenza, di angoscia e di disperazione; ma non dovremmo mai dimenticarlo in ogni stagione della nostra vita. 

Quando parliamo con una persona, cerchiamo di capire cosa ci dicano il suo volto e il suo sguardo, il suo sorriso e le sue lacrime? Non dovremmo mai dimenticare quello che ha scritto un grande scrittore francese, André Gide: nessuna parola giunga alle nostre labbra che non sia stata prima nel nostro cuore. Se lo facessimo, sapremmo trovare parole gentili che curano, e fanno del bene, parole che creano fiducia, e speranza, parole che ci allontanano dalla indifferenza e dalla violenza del linguaggio. Non so pensare a quanta consapevolezza noi abbiamo della importanza del linguaggio, che richiede in ogni caso riflessione e attenzione a quello che avviene nella nostra vita interiore, e in quella delle persone che la vita ci fa incontrare. Le parole che ci scambiamo in internet non bastano, e non servono, a metterci in una relazione dialogica con gli altri da noi, e semmai ci rendono partecipi di esperienze che non siano nutrite di emozioni. 

Grande è la responsabilità delle famiglie e della scuola, degli strumenti di comunicazione, nel ridare importanza alle parole viventi, alle parole che hanno un suono, senza disconoscere i significati della comunicazione digitale, ma rimarcandone i limiti, e circoscrivendone le aree di comunicazione che in essa tendono ad essere astratte, ed estranee ad ogni contenuto emozionale. 

 Come riscoprire le parole gentili? 

 Le parole che non fanno male, le parole che aiutano le persone che vivono nel dolore, o nella disperazione, le parole che non consentono il linguaggio della violenza, non le troveremmo mai se non siamo capaci di immedesimarci nelle emozioni delle persone, che la vita ci fa incontrare. Non ci sono ricette, non ci sono consigli, in questo campo, ed è necessario affidarsi all’intuizione e alla sensibilità personali. Ci sono psichiatri e psicologi che non le hanno, e persone semplici che le hanno: sono qualità, almeno in parte, innate, e in ogni caso educabili. Non c’è comunicazione autentica se non quando si evitano parole indistinte e banali, ambigue e indifferenti, glaciali e astratte, crudeli e anonime. Ma è necessario educarsi a rivivere in noi le situazioni dolorose degli altri, e a immaginare quali parole vorremmo sentire dagli altri, se fossimo noi a stare male, e ad avere bisogno di parole che aprano il nostro cuore alla speranza. 

Costa tempo, costa fatica, questa educazione alla immedesimazione nei pensieri e nelle emozioni delle persone che incontriamo; ma è un dovere al quale non dovremmo mai venire meno: solo così si può sperare in una rinnovata coscienza etica della vita. 

 Le relazioni quotidiane 

 Le parole sono essenziali nel creare relazioni quotidiane gentili e umane, invece gelide e ostili. Non ci sono insomma relazioni quotidiane, che non siano trainate dalle parole, dalla grande importanza che esse hanno nella vita. Non sono ovviamente un linguista, e non saprei inoltrarmi nelle selve oscure delle etimologie, e nondimeno nei lunghi anni di vita in psichiatria, in un manicomio in particolare, sono giunto a mano, a mano a conoscere quali parole dire, e quali non dire, quando ero in dialogo con le pazienti di cui mi occupavo. Le esperienze, che mi è stato possibile fare, mi hanno fatto conoscere l’importanza delle parole nella vita quotidiana, e la frequenza di quelle intessute di noncuranza e di indifferenza, di disinteresse e di apatia: premesse alla nascita della violenza del linguaggio. 

Non ho potuto confrontarmi con un tema, come quello della violenza nel linguaggio nelle relazioni quotidiane, di questa radicale importanza, senza riflettere prima sulla fenomenologia e sulla dinamica del linguaggio delle parole: non c’è solo questo, certo, c’è anche il linguaggio del corpo vivente, dei gesti e dei volti, degli sguardi e delle lacrime, e c’è anche, non meno importante, il linguaggio del silenzio. Non dovremmo dimenticarlo, e in ogni caso vorrei ora continuare a riflettere sulla fenomenologia delle parole, e in particolare sulle risonanze, che esse possono avere nelle nostre quotidiane relazioni di vita, evitando le parole portatrici di aggressività e di violenza, che oggi riemergono così frequentemente. 

 Le parole divorate dall’indifferenza 

 Mille modi di essere in relazione, ma, prima ancora di parlare della violenza nel linguaggio quotidiano, vorrei dire qualcosa dell’indifferenza che ci porta a essere prigionieri dei nostri desideri e delle nostre attese, e a rifuggire dall’ascolto, e dalla ricerca, di quelli degli altri. L’indifferenza è una delle premesse a non interessarsi del valore e dei significati delle parole, essa crea il deserto in noi: il deserto dei tartari, così come ne parla Dino Buzzati nel suo bellissimo romanzo. La mattina, risvegliandoci, Friedrich Nietzsche diceva che dovremmo augurarci di fare durante la giornata almeno una buona azione: questa sarebbe la sconfitta dell’indifferenza, che si nasconde nella noia, nel disinteresse al dolore e alle sofferenze, nel venire meno al dovere della generosità e della solidarietà, e nella scelta di parole che non hanno risonanze risanatrici nella vita interiore degli altri. 

Sono parole non ancora immerse nella violenza, ma fanno del male, generano malessere, e non di rado angoscia, nelle persone, in quelle adolescenti in particolare, con le quali ci incontriamo. L’egoismo e l’indifferenza che ne consegue, o che lo genera, sono i primi germi, i più diffusi, ai quali dovremmo fare attenzione, e ai quali invece non pensiamo, distraendoci, e smarrendo gentilezza e umanità. La violenza nel linguaggio la riconosciamo facilmente, ma non ci accorgiamo che anche parole divorate dall’indifferenza fanno soffrire gli altri che non riescono a difendersi. Le parole dell’egoismo e dell’indifferenza, le une sconfinanti nelle altre, le dovremmo riconoscere, ed evitare a ogni costo, perché sono pericolose ugualmente a quelle violente che sono più facilmente riconosciute nelle loro conseguenze. La violenza del linguaggio nasce da uno sconvolgimento etico ancora più radicale e sconvolgente. 

 La violenza del linguaggio 

 Il passaggio dall’indifferenza del linguaggio alla violenza del linguaggio si constata oggi con inquietante frequenza in molte condizioni sociali di vita. Basta andare in macchina, anche su strade provinciali, nemmeno molto trafficate, perché la violenza, e non solo l’indifferenza e l’insofferenza delle persone, si abbia a manifestare nei gesti e nelle parole. Il linguaggio violento si tocca con mano, ed è espressione di una raggelante indifferenza etica. L’andare in macchina, la cosa oggi più banale e più frequente, ci parla della violenza, che non è solo nelle parole, ma anche nei gesti che le accompagnano, causando indelebili ferite alla dignità e alla libertà, all’umanità e alla gentilezza, al rispetto e all’autonomia degli altri da noi. 

Il linguaggio della violenza, che sradica le fondazioni etiche delle relazioni quotidiane, dilaga in aree sempre più vaste della vita: da quelle della vita quotidiana a quelle della vita politica. La violenza del linguaggio lascia ferite che non si rimarginano, e continuano a sanguinare; e la cosa è così diffusa che non ce ne accorgiamo. Dall’iniziale indifferenza ai valori delle relazioni quotidiane si passa così alla violenza agghiacciante delle parole, e da queste non si torna più indietro, inaridendo ogni fonte etica della vita. Non dimentichiamoci mai di riflettere sul destino delle parole che diciamo, e talora di quelle che dovremmo dire, e non diciamo, a causa delle nostre paure, e delle nostre negligenze. 

La violenza del linguaggio non si manifesta solo quando si è in macchina, ma anche, e in misura ancora più pericolosa, in alcune trasmissioni televisive, in alcuni articoli giornalistici, e nella vita politica. Le relazioni quotidiane ne sono deformate e lacerate nei loro orizzonti di senso, conducono all’esasperazione, e alla creazione di esistenze imprigionate nei grovigli di individualismi, perduti a ogni possibile speranza. Ma la violenza delle parole rinasce nei suoi aspetti più devastanti, direi, nelle forme di espressione politica che raggiungono dissonanze intollerabili. Le parole, quelle che ho cercato di indicare nelle loro sfere semantiche gentili e comunitarie, ne sono sfigurate, non comunicano se non rabbia e aggressività, ritorsioni e violenza, ai confini di una umanità ferita e lacerata. Ciascuno di noi dovrebbe impegnarsi nel recuperare linguaggi e comportamenti educati e gentili, aperti all’ascolto e alla solidarietà, estranei a ogni forma di violenza. 

 Quale salvezza? 

 Solo recuperando il valore delle parole, e cogliendone le fragilità e gli orizzonti di senso, è possibile immaginare di moderare il flusso continuo e inarrestabile della violenza del linguaggio. La gentilezza è la forma di vita, antitetica a quella divorata dall’indifferenza e dalla violenza, che dovrebbe essere illustrata nella sua ragione d’essere nella scuola primaria e nelle scuole secondarie. In alcune scuole austriache questo avviene, illustrando il tema non meno importante della follia, considerata come dolorosa possibilità umana, e non demonizzata come esperienza di vita insignificante e desertica. A questa degenerazione etica non ci sarà salvezza se non insegnando nelle scuole il significato umano e rivoluzionario delle parole, e quello della gentilezza, che si dovrebbe accompagnare a ogni momento della nostra vita, e che nobilita la condizione umana: la psichiatria conosce bene queste cose che non si stanca di ripetere. Sì, in psichiatria parole sbagliate e immotivate, sconsiderate e indifferenti, sono causa di dolore e di angoscia, di ferite dell’anima, che possono non guarire più, e allora mi augurerei che queste mie pagine, nutrite di anni e anni trascorsi nel mondo misterioso della follia, possano essere di un qualche aiuto nelle riflessioni sugli infiniti orizzonti di senso delle parole, e in particolare sulla loro incompresa fragilità. 

La violenza delle parole non è se non la premessa, voluta, o non voluta, alla violenza delle azioni, ed è allora un tema di radicale attualità. Non dovremmo mai dimenticarlo. 

 Indicazioni di lettura 

 Agostino, Le confessioni, Einaudi, Torino 1966. 

E. Borgna, La follia che è anche in noi, Einaudi, Torino 2019. 

E. Borgna, Saggezza, il Mulino, Bologna 2019. 

E. Borgna, Il fiume della vita. Una storia interiore, Feltrinelli, Milano 2020. 

D. Buzzati, Il deserto dei tartari, Mondadori, Milano 2016. 

E. Canetti, Il gioco degli occhi, Adelphi, Milano 1995. 

A. Gide, La sinfonia pastorale, Frassinelli, Torino 1953. 

F. Hoelderlin, Tutte le liriche, Mondadori, Milano 2001. 

F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884, Adelphi, Milano 1976. 

L. Serianni, Il sentimento della lingua, il Mulino, Bologna 2019. 

 

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