Intervento del Presidente
della Repubblica
Sergio Mattarella
in occasione della Celebrazione del “Giorno del Ricordo”.
Sono passati quasi ottant’anni dai terribili avvenimenti che
investirono le zone del confine orientale e venti anni dall’istituzione del
Giorno del Ricordo, deliberata dal Parlamento a larghissima maggioranza. Giorno
dedicato alla tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe,
dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo
dopoguerra.
Lungo tempo è trascorso da quegli eventi ma essi sono
emotivamente a noi vicini: questo consente – in una vicenda storica complessa e
ancora soggetta a ricerche, dibattiti storiografici e politici – di stabilire
dei punti fermi e di delineare alcune prospettive.
In quelle martoriate ma vivacissime terre di confine, che da
secoli ospitavano popoli, lingue, culture, alternando fecondi periodi di convivenza a momenti di contrasto
e di scontri, il secolo scorso ha riservato la tragica e peculiare sorte di
vedere affiancati, a pochi chilometri di distanza - in una lugubre geografia
dell’orrore - due simboli della catastrofe dei totalitarismi, del razzismo e
del fanatismo ideologico e nazionalista: la Risiera di San Sabba, campo di
concentramento e di sterminio nazista, e la Foiba di Basovizza, uno dei luoghi
dove si esercitò la ferocia titina contro la comunità italiana.
Quel territorio, intriso di storie e di civiltà, condivise lo
stesso tragico destino di molti Paesi dell’Europa centro-orientale, che – dopo
la sconfitta del nazifascismo – si videro negate le aspirazioni alla libertà,
alla democrazia e all’autodeterminazione a causa dell’instaurazione della
dittatura comunista, imposta dall’Unione Sovietica. Milioni di persone, in qui
Paesi, si videro allora espulse dalla terra che avevano abitato, costrette a
mettersi in cammino alla ricerca di una nuova patria.
Un muro di silenzio e di oblio – un misto di imbarazzo, di
opportunismo politico e talvolta di grave superficialità – si formò intorno
alle terribili sofferenze di migliaia di italiani, massacrati nelle foibe o
inghiottiti nei campi di concentramento, sospinti in massa ad abbandonare le
loro case, i loro averi, i loro ricordi, le loro speranze, le terre dove
avevano vissuto, di fronte alla minaccia dell’imprigionamento se non
dell’eliminazione fisica.
Il nostro Paese, per responsabilità del fascismo, aveva
contribuito a scatenare una guerra mondiale devastante e fratricida; e fu
grazie anche al contributo dei civili e dei militari alla lotta di Liberazione
e all’autorevolezza della nuova dirigenza democratica, che all’Italia fu
risparmiata la sorte dell’alleato tedesco, il cui territorio e la cui
popolazione vennero drammaticamente divisi in due. Questo, tuttavia, non evitò
che le istanze legittime di tutela della popolazione italiana residente nelle
zone del confine orientale fossero osteggiate, frustrate e negate.
Il nostro “muro di Berlino” - certamente ben minore per
dimensioni ma con grande intensità delle sofferenze provocate - passava per il
confine orientale, per la cortina di ferro che separava in due Gorizia,
allontanando e smembrando territori, famiglie, affetti, consuetudini,
appartenenze.
Il nuovo assetto internazionale, venutosi a creare con la
divisione in blocchi ideologici contrapposti, secondo la logica di Yalta, fece
sì che passassero in secondo piano le sofferenze degli italiani d’Istria, di
Dalmazia e di Fiume.
Furono loro a pagare il prezzo più alto delle conseguenze
seguite alla guerra sciaguratamente scatenata con le condizioni del Trattato di
pace che ne derivò.
Dopo aver patito le violenze subite all’arrivo del regime di
Tito, quei nostri concittadini, dopo aver abbandonato tutto, provarono sulla
propria sorte la triste condizione di sentirsi esuli nella propria Patria.
Fatti oggetto della diffidenza, se non dell’ostilità, di parte dei
connazionali.
Le loro sofferenze non furono, per un lungo periodo,
riconosciute. Un inaccettabile stravolgimento della verità che spingeva a
trasformare tutte le vittime di quelle stragi e i profughi dell’esodo forzato,
in colpevoli - accusati indistintamente di complicità e connivenze con la
dittatura - e a rimuovere, fin quasi a espellerla, la drammatica vicenda di
quegli italiani dal tessuto e dalla storia nazionale.
La ferocia che si scatenò contro gli italiani in quelle zone
non può essere derubricata sotto la voce di atti, comunque ignobili, di
vendetta o sommaria giustizia contro i fascisti occupanti; il cui dominio era
stato – sappiamo - intollerante e crudele per le popolazioni slave, le cui
istanze autonomistiche e di tutela linguistica e culturale erano state per
lunghi anni negate e represse.
Le sparizioni nelle foibe o dopo l’internamento nei campi di
prigionia, le uccisioni, le torture commesse contro gli italiani in quelle
zone, infatti, colpirono funzionari e militari, sacerdoti, intellettuali,
impiegati e semplici cittadini che non avevano nulla da spartire con la
dittatura di Mussolini. E persino partigiani e antifascisti, la cui unica colpa
era quella di essere italiani, di battersi o anche soltanto di aspirare a un
futuro di democrazia e di libertà per loro e i loro figli, di ostacolare l’annessione
di quei territori sotto la dittatura comunista.
Le foibe e l’esodo hanno rappresentato un trauma doloroso per
la nascente Repubblica che si trovava ad affrontare l’eredità gravosa di un
Paese uscito sconfitto dalla guerra.
Quelle vicende costituiscono una tragedia, che non può essere
dimenticata.
Non si cancellano pagine di storia, tragiche e duramente
sofferte.
I tentativi di oblio, di negazione o di minimizzare sono un
affronto alle vittime e alle loro famiglie e un danno inestimabile per la
coscienza collettiva di un popolo e di una nazione.
L’istituzione del giorno del Ricordo - con tante iniziative
da essa scaturite, con ricerche, libri, dibattiti - ha avuto il merito di
riconnettere la memoria collettiva a quel periodo e a quelle sofferenze, dopo
anni di rimozione.
Ha reso verità a tante vittime innocenti e al dolore dei loro
familiari
Tutto questo è stato importante, doveroso, pur se in ritardo,
giusto. Ma non è sufficiente.
Il ricordo, la memoria della persecuzione e delle tragedie,
deve essere fecondo, deve produrre anticorpi, deve portarci, come hanno
sottolineato, con semplicità ed efficacia straordinaria, Lada e Alessandra
Rivaroli, e anche la Signora Haffner , a
fare in modo che simili lacerazioni crudeli nei confronti della libertà, del
rispetto dei diritti umani, della convivenza appartengano a un passato
irripetibile.
Malgrado queste tragiche esperienze del passato, assistiamo
con angoscia anche oggi, non lontano da noi, al risorgere di conflitti
sanguinosi, in nome dell’odio, del nazionalismo esasperato, del razzismo.
Dall’Ucraina al Medio Oriente ad altre zone del mondo, la
convivenza, la tolleranza, la pace, il rispetto dei diritti umani e del diritto
internazionale sono messi a dura prova.
I soprusi e le violazioni si moltiplicano e chiamano quanti
condividono i valori di libertà e di convivenza a una nuova azione di
contrasto, morale e politica, contro chi minaccia la libertà, il corretto
ordine internazionale e le conquiste democratiche e sociali.
Pagine buie della storia, anche d’Europa, sembrano volersi
riproporre.
Disponiamo di un forte antidoto e dobbiamo consolidarlo e
svilupparlo sempre di più.
La costruzione dell’Unione Europea, pur con i suoi ritardi e
le sue carenze, ha rappresentato – come ha fatto ben presente il Professor
Rossi - il ripudio della barbarie
provocata da tutti i totalitarismi del Novecento e la concreta e valida
direzione di marcia per guardare al futuro con fiducia e con speranza.
In questo quadro nelle splendide terre di cui parliamo, oggi,
grazie alla comune appartenenza all’Unione Europea, non vi sono più barriere o
frontiere, ma strade e ponti.
La diversità non genera più risentimento o sospetto, ma
produce amicizia e progresso.
Con Slovenia e Croazia coltiviamo e condividiamo, in Europa e
nel mondo, i valori della democrazia, della libertà, dei diritti. E lavoriamo
insieme per la pace, per lo sviluppo, per la prosperità dei nostri popoli,
amici e fratelli.
I giovani lo sanno e lo vivono.
Le giovani generazioni lo stanno già facendo da molto tempo,
sviluppando un comune senso di appartenenza a una regione che trova nell’ampio
spettro di presenze, etnie, storie, culture, tradizioni, la sua preziosa e
feconda peculiarità.
Gorizia, la città simbolo della divisione, è oggi associata -
grazie a una generosa intuizione della Slovenia - a Nova Gorica: due città, due
Stati, una sola capitale della cultura europea per il 2025.
Occorre adesso lavorare alacremente, a livello europeo,
perché - come il Ministro Tajani ha poc’anzi ricordato - anche gli altri Paesi
dei Balcani Occidentali candidati all’ingresso nell’Unione possano compiere le
procedure di adesione senza ritardi e senza indugi.
Si tratta anche di una risposta concreta ai pericoli del
possibile riaccendersi, nella regione, di sopiti conflitti di natura etnica o
religiosa, che rischierebbero di riportare la storia, a tempi che non vogliamo
più rivivere.
Le divisioni, i conflitti, i drammi del passato - la cui
memoria ci ferisce tuttora con forza e sofferenza - ci ammoniscono.
Onorare le vittime e promuovere la pace, il progresso, la
collaborazione, l’integrazione, aiuta a impedire il ripetersi di tragici
errori, causati da disumane ideologie e da esasperati nazionalismi; e a non
rimanere prigionieri di inimicizie, di rancori, di dannose pretese di rivalsa.
Se non possiamo cambiare il passato, possiamo contribuire a
costruire un presente e un futuro migliori.
All’Europa, e al suo modello di democrazia e di sviluppo
avanzati, guardano nel mondo milioni di persone.
L’unità dei suoi popoli è la sua forza e la sua ricchezza.
Il buon senso e l’insegnamento della storia chiedono di non
disperderla ma, al contrario, di potenziarla, nell’interesse delle nazioni
europee e del futuro dei nostri giovani.
www.quirinale.it
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