«La nostra vita è esistere
non funzionare come una macchina»
LO PSICOANALISTA RICHIAMA AI CONCETTI DI ORGANISMO E LIMITE
-di STEFANO FILIPPI
Miguel Benasayag, argentino di nascita e francese di
adozione, è psicanalista e neurofisiologo, lavora in particolare sui problemi
dell’infanzia e dell’adolescenza e da anni studia i cambiamenti della
rivoluzione digitale e il loro impatto sull’uomo. Il rischio che, con lo
sviluppo dell’Intelligenza artificiale, l’essere umano venga ridotto a una
somma di funzioni è alto, dice. Ma «la vita dell’uomo è esistere, non
funzionare come una macchina». Che cosa resta dell’uomo dopo avere delegato
certe funzioni alle macchine? «Rimane tutto». Perché l’uomo è «irriducibile
agli elementi e ai processi» di cui è fatto. E il transumanesimo che vagheggia
un uomo privo di limiti? «Teorie deliranti».
L’impatto dell’Intelligenza artificiale è stato paragonato a
quello della Rivoluzione industriale. Allora l’automazione tolse all’uomo
mansioni manuali, ora l’IA gli sottrae parte dell’attività intellettuale. Cos’è
allora l’uomo? Non c’è il rischio di definirlo come ciò che resta dopo essersi
messo nelle mani delle macchine?
Questa è la tentazione. Ma noi dobbiamo dire chi è l’uomo in
positivo, non dopo che la macchina l’ha spogliato. Oggi l’essere umano è
definito come una somma di parti. È un punto di vista debole, originato da una
concezione filosofica “modulare” che non considera la differenza fondamentale
tra un aggregato e un organismo. Un aggregato è una somma di funzioni,
l’organismo viceversa è un’entità unitaria e non si definisce semplicemente per
il suo modo di funzionare. Ogni parte di un organismo funziona in base a un
doppio principio: secondo la propria natura, ma anche secondo la natura
dell’intero organismo. Le macchine possono fare un sacco di cose, possono
affascinare o fare paura. Ma il problema di fondo è ricomprendere la differenza
tra organismo e artefatto, la singolarità particolare del vivente.
L’unitarietà dell’uomo, il suo vero “io”.
L’uomo è un essere unitario, irriducibile agli elementi e ai
processi da cui è composto, che però non è concepibile in modo autonomo. Un
organismo partecipa alla vita in quanto ha relazioni e appartiene a una specie
che dura nel tempo.
Le piace la parola “intelligenza” per quella che ormai
chiamiamo “intelligenza artificiale”?
Non tanto. La macchina non è intelligente in sé: può
prevedere, calcolare, fare un sacco di operazioni, ma l’intelligenza per il
vivente – non solo per l’essere umano – è sempre una questione di integrazione
tra il cervello e la realtà, non solo la capacità di fare calcoli buoni. La
razionalità dell’intelligenza artificiale è molto povera. Per esempio, non può
accettare la negatività inerente alla vita, o il fatto che i corpi sono
desideranti, sono sottomessi alle pulsioni, non agiscono in modo sempre positivo.
Già trent’anni fa, quando cominciai con questi studi, scrissi che parlavamo
troppo di “intelligenza” relativa alle macchine, e questo avrebbe avuto
conseguenze negative.
Come la chiamerebbe?
Sono artefatti interessanti. Macchine. Viceversa, a forza di
parlare di intelligenza e vita artificiale, oggi abbiamo una concezione
artificiale della vita biologica. Il discorso è stato capovolto. Nel mio campo
di ricerca, la maggioranza dice che tra l’intelligenza e la vita artificiale e
quella biologica e culturale c’è un’identità di natura mentre la differenza è
solo quantitativa. Io dico l’opposto, cioè che c’è una differenza qualitativa,
ma questo è molto difficile da affermare nel campo scientifico, dove si ragiona
solo in termini di misurabilità, e quelli come me sono considerati come
idealisti, “vitalisti”, che vogliono inserire un elemento non scientifico nella
definizione della vita.
Nei suoi studi lei ha sempre fatto un elogio del limite.
L’uomo può sbagliare e ha il senso del suo limite, la macchina no.
È così. Per me il limite non ha un’accezione negativa: è
quello che definisce il mio modo di essere nel mondo. Siamo limitati perché
abbiamo punti di vista, affetti, responsabilità, che sono la condizione della
vita. Al contrario, è antiscientifico programmare una macchina con qualche
limite: la macchina deve sempre funzionare perfettamente.
Una vita senza limite è il mito del mondo contemporaneo.
Sembra incredibile, ma tutte queste deliranti teorie
transumanistiche, che parlano di una vita senza limite, hanno un ascolto
vastissimo. L’idea che i limiti sono arbitrari è una pazzia assoluta.
Come si spiega il successo di queste teorie?
La vita quotidiana ne è intrisa. La rimozione del limite è
alla base, per esempio, del neoliberalismo che vuole deregolare e
deterritorializzare tutto.
Deterritorializzare?
Per esempio, a me piace mangiare i frutti di stagione del mio
territorio. Ma c’è chi vuole quei frutti tutto l’anno ed è disposto a farli
arrivare dall’estero, oppure impiegare enormi quantità di acqua per coltivarli
in località inadatte ma più vicine. Tuttavia, se io dico che questo ha poco
senso, che la vita è fatta di cicli, di ritmi e anche di riti, non ho spazio
nella postmodernità. Sono considerato un oscurantista perché voglio porre dei
limiti. La deterritorializzazione parte dall’idea che l’essere umano non deve
accettare nessun limite. E questo è suicidario.
L’uomo di oggi rifiuta i limiti anche perché non riconosce
più di essere stato creato?
L’uomo si ritiene fatto come una macchina. Perché subire il
limite dell’organicità? Questa domanda, trent’anni fa, la facevano solamente
gli psicotici e i servizi di psichiatria: perché devo accettare il limite,
perché devo accettare di morire? Oggi il sentire comune è questo: i limiti sono
confini arbitrari. E abbiamo per le mani una potenza enorme, fantastica, ma
siccome non sappiamo addomesticarla, per il momento essa provoca cambiamenti
che non padroneggiamo.
Le macchine vanno fermate?
Impossibile. Non si può guardare il futuro con un
retrovisore. In realtà siamo già ibridati, anche se non ce ne rendiamo conto.
Un’ibridazione non anatomica ma fisiologica, di funzionamento. Ho lavorato anni
per capire l’influenza degli apparecchi digitali sul cervello ed è stato
facilissimo vedere come è cambiata la struttura cerebrale di chi delega alcune
funzioni al navigatore satellitare Gps.
Se alcune facoltà si perdono, ce ne sono altre che vengono
migliorate?
Non è possibile. Il sistema nervoso centrale delega alcune
funzioni e ricicla la regione cerebrale liberata. Sono processi lentissimi,
lunghi anche centinaia di anni, che però nell’immediato provocano
un’atrofizzazione.
Vuol dire che l’Intelligenza artificiale può provocare
un’ottusità naturale?
Un indebolimento, certo. Lo vediamo anche nei bambini che
passano molto tempo con i videogiochi o davanti a uno schermo. Non per niente i
geni della Silicon Valley mandano i figli a scuola senza computer e fanno
studiare loro latino e greco. La neurofisiologia dice che prima dei tre anni
non dobbiamo mettere i bambini davanti agli schermi. Ma le famiglie non ne sono
al corrente.
Allora le macchine sono nostre nemiche?
No. Ma bisogna conoscerle e ristabilire un’alterità. Perdere
questa distinzione è pericolosissimo. La vita dell’uomo è esistere, non
funzionare come una macchina. Che cosa resta dell’uomo dopo avere delegato
certe funzioni alle macchine? Rimane tutto. Semplicemente dobbiamo imparare a
esistere, coabitando con questa nuova potenza che, non avendone noi il pieno
controllo, può essere pericolosa.
Qual è dunque il nostro compito?
La cosa fondamentale è capire che dobbiamo sapere
identificare che cosa noi siamo e riconquistare il terreno lasciato alla
macchina. L’invenzione dell’ascensore non ci ha tolto la possibilità e il gusto
di camminare.
Tuttavia, oggi spesso si viene misurati in base alla
performance. La macchina corre e l’uomo deve stare al passo.
L’estetica attuale è di diventare una macchina sempre più
performante. Dunque, la felicità sarebbe da un lato non fare niente mentre la
macchina fa tutto, e dall’altro funzionare come una macchina perdendo anche le
angosce legate all’esistere e alla ricerca di senso. È una resistenza attiva
che dobbiamo avere tutti, non contro la macchina ma contro la stupidità.
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