UN FELICE PARADOSSO
-di Alessandro D’Avenia
La scorsa settimana Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò ci
ricordava che la dimensione religiosa è necessaria a umanizzarsi, dove c’è
trascendenza si diventa uomini (sono le prime sepolture a dirci che qualcosa di
mai visto è apparso sulla Terra). Sapere che esistano cose immortali non è
difficile, si lamenta il personaggio pavesiano del dialogo Le Muse, ma
«toccarle è difficile», cioè trovare l’infinito nel finito, l’assoluto nel
relativo, il sempre nel qui e ora. La Musa risponde che il segreto è vivere per
esse, avere cuore puro, cioè trasparente, fecondo, gioioso, innamorato,
danzante. Il cuore dell’uomo desidera «toccare» ed «essere toccato» dall’eterno
per non soccombere allo scorrere del tempo che conduce tutti alla morte.
Dal relativizzare il tempo dipende la fisica della felicità,
non a caso diciamo felici i momenti in cui sembra che l’eterno entri
nell’istante, quando la vita è talmente viva che dobbiamo ricorrere a
un’espressione poetica: il tempo si è fermato. Accade quando ci innamoriamo,
creiamo il nuovo, assistiamo al meraviglioso... Beatitudini che vorremmo
perenni e paragoniamo al «toccare il cielo con un dito» o al «cielo in una
stanza». E se la settimana scorsa Pavese suggeriva di salire simbolicamente in
montagna per avvicinarsi a un cielo divenuto distante, mi chiedo oggi: c’è modo
di far venire il cielo a noi, che sia lui a toccare noi quando siamo a valle?
Per rispondere mi servirò di un testo che ritengo essere un’iniziazione alla
vita felice, a prescindere dall’essere o meno credenti.
Alla fine del vangelo di Giovanni, c’è un personaggio,
Tommaso, che, assente al momento in cui il risorto sorprende i suoi amici
riuniti a compiangerlo, afferma che non crederà mai alla resurrezione di
Cristo, a meno di non «toccarne» le ferite. In Tommaso ci siamo tutti noi,
vogliamo fare esperienza del metodo per vincere la morte già in vita, solo
questo darebbe senso a tutto, persino al morire. E così, narra Giovanni, una
settimana dopo, Cristo si mostra a Tommaso, invitandolo a fare ciò che desiderava:
«Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel
mio costato; e non mostrarti più incredulo ma fiducioso!» (Gv, 20).
Non è un rimprovero da catechismo per bambini ma un invito a
toccare l’eterno e la gioia per cui il cuore è fatto, attraverso un paradosso:
la porta di scambio tra l’infinito e il finito sono «le ferite». È proprio dove
moriamo che il divino si fa toccare. La via di accesso al cielo non è la
potenza, e per questo, in una cultura in cui è vero ciò che è potente ed è più
vero ciò che è più potente (dall’archibugio alla bomba atomica), è diventato
assai difficile toccare Dio, perché le ferite, i limiti, di ogni specie
(esteriori e interiori), sono il contrario della potenza, sono divenuti privi
di senso, e se gliene diamo uno è purtroppo quello di colpa.
In Giovanni invece c’è una prospettiva spiazzante per la vita
quotidiana. Vuoi credere al fatto che le cose morte possano rinascere? Metti il
dito nella tua piaga, non cercare la felicità nella potenza, nell’apparenza,
nella forza, perché queste cose si procurano a fatica, non sono mai garantite
del tutto e svaniscono, mentre i limiti li hai già, a portata di mano, gratis e
sino alla fine. Il cielo è lì. Metti il dito nella piaga degli altri, non per
farli soffrire, ma per curarli, non cercare la loro influenza, luce, forza, per
poter esistere, ma la loro fatica: chiedi come stanno, che cosa li fa soffrire.
Il cielo è lì. Le ferite di Cristo sono nelle mani, nei piedi, nel costato,
ferite dello stare (chi sei?), del fare (che fai?) e delle relazioni (che o chi
ami?). Ma sarà vero che il cielo è nella «ferita» e non nella «potenza», che
l’infinito e il finito si toccano in una cicatrice?
Lo sperimento quando mi chino sulle fragilità dei miei
studenti, non solo nei momenti di particolare fatica, ma in generale perché
l’adolescenza è una «ferita» che brucia alla ricerca del senso delle cose, di
un posto nel mondo, della propria identità. In ambito educativo i veri
innovatori, da Socrate a Montessori, sono stati infatti quelli che si sono
chinati sulle ferite, e lo stesso è accaduto in ambito medico, economico,
politico... Lo sperimento anche quando tocco una mia ferita e invece di vergognarmi
o disprezzarmi perché non sono «abbastanza», provo ad amare ciò che mi rende
unico, per renderlo occasione creativa (un pensiero nuovo, una nuova pagina) o
di relazione (chiedo aiuto o riconosco amico chi ha la stessa fragilità). Chi
sono gli artisti se non persone che si sono tuffate nelle proprie e altrui
ferite per capirle e magari curarle? Come Etty Hillesum.
La settimana scorsa, nella Giornata della Memoria, ho riletto
alcune righe del Diario di questa ragazza ebrea morta ad Auschwitz, righe in cui
mostra ciò che cerco di dire: «E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad
aiutare Dio». Non incolpa Dio, attribuendogli il male o il silenzio che per
molti è prova della sua inesistenza, indifferenza o crudeltà, ma parte proprio
dall’impotenza di Dio per trovarlo, è lì dove lei è. Il Dio che tace, una
parola l’ha detta: te. Infatti, Hillesum, riferendosi al ruolo di educatrice per
i figli dei deportati, prosegue: «Parole come Dio e Morte e Dolore ed Eternità
si devono dimenticare di nuovo. Si deve diventare così semplici e senza parole
come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere. E
io, sono io già abbastanza avanti da poter dire sinceramente: spero di andare
al campo di lavoro, per poter essere di appoggio alle ragazze di sedici anni
che ci vanno? Per rassicurare i genitori rimasti indietro: non siate inquieti,
io vigilerò sui vostri figli».
Lei diventa la parola di Dio. Eterno e finito si toccano e le
parole si rinnovano dove l’amore è portato nel mondo attraverso la nostra
carne: è l’amore a relativizzare il tempo, a fermarlo, proprio dove «siamo». Il
divino è nell’impotenza che interpella e risveglia la nostra libertà e
creatività, possiamo essere noi il cielo per molte dita. Cristo infatti dice
che se diamo (o no) un bicchiere d’acqua a chi ne ha bisogno lo diamo (o no) a
lui stesso: dissetare Dio, negli altri, è essere uomini. E nel farlo diventiamo
noi eterni, cioè capaci di stare nelle situazioni senza soccombere, anzi
riempiendole di senso e di miracolo. Di fronte a uno studente in crisi che cosa
invento? Di fronte a una mia crisi che cosa invento? Cioè come posso ricevere e
tradurre in azione l’amore che può entrare nel mondo proprio da questa frattura
nella superficie uniforme dell’indifferenza? Ogni ferita è una potenziale porta
di scambio con il cielo, perché l’amore è l’unica forza capace di relativizzare
la morte.
Lo dice l’ultimo pensiero scritto da Hillesum: «Quando soffro per gli
uomini indifesi, non soffro forse per il lato indifeso di me stessa? Ho
spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Erano
così affamati... Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». E se il tempo
si è fermato, leggendo le sue parole, è perché lei «ha creduto» in una vita
nuova, proprio lì dov’era, come Tommaso: «Perché non mi hai fatto poeta, mio
Dio? Ma sì, mi hai fatto poeta, aspetterò pazientemente che maturino le parole
della mia doverosa testimonianza: cioè che vivere nel Tuo mondo è una cosa
bella e buona, malgrado tutto quel che ci facciamo reciprocamente noi uomini».
Alzogliocchiversoilcielo
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