La
filosofia della storia
riparte dalla persona
Quando
il pensiero ristagna non bisogna rassegnarsi alla mancanza di senso, al dominio
della tecnica, alla decostruzione dell’umano, alle profezie sulla fine: occorre
recuperare saperi profondi come quelli della teologia politica.
L’eventuale
collasso dell’universo è un evento fisico, la fine del tempo storico invece è
un evento che riguarda l’uomo e il mondo umano
- - di VITTORIO POSSENTI
Una
filosofia personalista della storia è una merce molto rara, di cui purtroppo
non disponiamo anche per il sonno in cui è entrata la filosofia della storia.
Scienza storica e filosofia della storia hanno compiti diversi: la seconda può
sollevare il tema tanto del fine (o significato) della storia, quanto quello
della sua fine. Il fine e la fine della storia – questioni spesso emarginate
nel pensiero europeo moderno, volto verso un progresso continuo e secolarizzato
-, sono riemerse con le due grandi guerre del ‘900, la bomba atomica, il
disastro ecologico. La possibilità di una fine catastrofica della storia umana
è ricomparsa, senza che sia rinato un interesse per la filosofia della storia,
soffocata dalla ristrettezza del pensiero contemporaneo e dalla perdurante
ostilità dello storicismo che la riduce a sociologia delle civiltà. La
filosofia della storia deve invece porre come suo oggetto non il significato e
lo svolgersi di una certa civiltà, ma il significato della storia universale.
La disciplina di cui trattiamo ha per oggetto la storia umana, non la vicenda
naturale del mondo e dell’universo: l’eventuale collasso dell’universo è un
evento fisico, la fine del tempo storico è un evento che riguarda l’uomo e il
mondo umano.
Se
sono gli esseri umani (o persone) a creare e a muovere la storia; incorrere in
errore o riduzione su che cosa sia la persona umana compromette l’intero
disegno della disciplina. Vale tuttora il giudizio di R. Guardini, un autore
che raramente emette sentenze impietose come questa: «Nessun essere, cosciente
della sua natura umana, dirà che egli si riconosce nell’immagine presentata
dalla moderna antropologia, che essa sia biologica, o psicologica, o
sociologica o di qualunque altro carattere […]. Si parla dell’uomo ma non si
vede realmente l’uomo. L’uomo quale è concepito nei tempi moderni non esiste. I
rinnovati tentativi di rinchiuderlo in categorie alle quali egli non
appartiene: meccaniche, biologiche, psicologiche, sociologiche, sono tutte
variazioni della volontà fondamentale di fare di lui un essere che sia “natura”
e diciamo pure natura spirituale. E non si vede ciò che egli è anzitutto e in
modo assoluto; persona finita, che, come tale, esiste, anche quando non lo
voglia, anche quando rinneghi la propria natura. Chiamato da Dio, posto in
relazione con le cose e con le altre persone». Settanta anni sono trascorsi
dalla diagnosi di Guardini con il suo chiaro richiamo alla Trascendenza, e
confermata a contrario già un decennio dopo con l’avvio dell’avventura
postmoderna di J. Derrida, M. Foucault, G. Deleuze e dei loro seguaci italiani.
Con l’onda postmoderna iniziò l’epoca della decostruzione, di cui si diceva (e
si dice) che metteva in movimento il pensiero contro l’esaltazione moderna del
soggetto (occidentale) e contro il fallologocentrismo. Derrida proseguiva
l’opera genealogica e decostruttiva iniziata da Nietzsche e Heidegger, che
avevano demolito “i vecchi idoli”. Foucault ed altri infliggevano il colpo di
grazia, smascherando ulteriormente quell’io moderno, che si pensava autonomo,
consapevole di sé e libero di scegliere. Il fatto è che il soggetto moderno,
figlio a seconda dei casi del razionalismo, del materialismo, del naturalismo,
aveva ben poco in comune con la nozione di persona. Ciò conferma la valutazione
di Guardini secondo cui i moderni non hanno conosciuto l’essere umano.
Per
una persuasiva filosofia della storia occorre sorvolare sulle cogitazioni
fantasiose e scarsamente attendibili sulla fine della storia, la post histoire,
l’ultimo uomo, di moda alcuni decenni fa. Forse l’unica asserzione da
condividere in merito alla fine della storia è che «la fine della storia è
finita». Si scivola in una notevole ingenuità ritenere possibile ricavare dalle
speculazioni di A. Kojève sullo snobismo, sull’ultimo uomo, la vita animale e
umana un significato durevole per la filosofia della storia.
Taluni
ricorrono ad espressioni – tipico il termine “macchina antropologica” – che non
agevolano la comprensione della persona e dell’umanesimo. Nell’essere umano non
si tratta di cercare il luogo di articolazione tra l’umano e l’animale, quasi
fosse una zona di indifferenza o, peggio, un punto di contatto instabile tra
l’umano e l’animale. Ciò significa che il corpo umano non è un corpo meramente
animale cui si aggiunge alla meno peggio un’anima spirituale, ma è un corpo
umano animato ed elevato da un suo proprio logos, immanente all’individuo sin
dal primo momento. Pertanto, l’appunto severo che Heidegger eleva alla
metafisica, ossia di pensare l’uomo «a partire dalla sua animalitas e non in
direzione della sua humanitas», non è valido per la filosofia della persona cui
guardiamo, che rende giustizia all’animale senza abbassare l’uomo. Le
considerazioni avanzate da mezzo secolo sulla “macchina antropologica” che
sarebbe propria della filosofia occidentale nella sua totalità, trascurano che
la persona non è in alcun modo una macchina in cui debbano articolarsi
meccanicamente l’animalità e l’umanità. La persona non è solo Dasein e il
Dasein non è la persona.
Noi
manteniamo l’eccezione umana in quanto fondata sulla necessità ontologica che
ogni individuo umano è persona, non riducibile alla sola natura fisica, alla
sola physis come luogo della creazione e della distruzione, del generare e del
morire. Solo in questo modo è possibile avanzare verso una concezione
personalista della storia sinora mancante anche in occidente, che pur avrebbe
qualche carta da giocare.
Il
progetto di occidentalizzazione del mondo ha comportato l’universalizzazione
dell’homo oeconomicus et technicus.
Nell’era
del Capitalocene e del Tecnocene predomina il “progetto maschile” di attacco
alla natura e la cibernanthropia (mescolanza di uomo e macchina). Dinanzi a
tale situazione, non è sufficiente un nuovo illuminismo che, al pari di quello
passato, confidi nella ragione e nella sua capacità di vincere le false
certezze e le superstizioni; neanche un “nuovo illuminismo autocritico”, come
da taluni versanti si auspica, potrebbe essere all’altezza della sfida. Dove
cercare le sorgenti per oltrepassare il dominio della ragione tecnica e
strumentale che insidia più o meno fortemente lo schema illuministico?
L’eventuale nuovo illuminismo avrebbe bisogno di un innalzamento di
prim’ordine: aiutare l’essere umano a diffidare di sé stesso, delle proprie
allucinazioni, dei desideri smodati, della volontà di potenza che abita in noi,
e che si esprime nel senso di onnipotenza del complesso scienza- tecnica.
Dobbiamo imparare ad autoregolarci per trattenere l’onda di piena che esso
stesso genera.
Prometeo
donò agli esseri umani la tecnica, ma da inventore sommo e insieme scaltro
truffatore, lasciò in essa la sua impronta ambigua. Nella strutturale
ambivalenza della tecnica incidono un ruolo costituente e uno destituente in
rapporto all’uomo: costituente per farlo essere meglio persona e destituente
nel senso di renderlo estraneo a sé stesso e agli altri, nell’epoca della
digitalizzazione, della società automatica e dell’algoritmo.
www.avvenire.it
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