mostrano lo stretto legame
tra religione e violenza.
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di Alessandro D’Avenia
Proprio
la Bibbia affronta il tema sin dall’inizio senza mezzi termini: la violenza tra
fratelli scatta proprio per un motivo religioso. Infatti, al capitolo 4 di
Genesi è narrata la vicenda di Caino e Abele, i primi due fratelli, figli di
Adamo ed Eva. I due fanno un’offerta a Dio, ma quella di Caino non è gradita.
Questi, invece di interrogarsi sul perché, decide di eliminare il fratello.
Potremmo dare la colpa a Dio, che però non aveva chiesto alcun sacrificio, è
stata una loro iniziativa, perché la religione è una iniziativa umana, un modo
in cui l’uomo risponde al suo non bastarsi. Ma nel racconto ciò che interessa a
Dio è altro: il cuore dell’uomo. Infatti, mette in guardia Caino proprio sulle
condizioni del suo cuore, che non sopporta ci sia un altro ad avere ciò che lui
vuole in esclusiva. Non è la religione a generare violenza, ma la mania di
possesso, anche su Dio. La parola religione (da re-ligare) rimanda al creare
legami, mentre Caino li spezza: «Sono forse il custode di mio fratello?»
risponde a Dio che gli chiede dove sia Abele. Ma perché proprio la religione
nella storia fa spesso emergere questa violenza?
La violenza di Caino (che rappresenta anche gruppi o popoli) non nasce dalla religione ma dalle difese che il nostro io impaurito dalla morte alza per proteggersi e rassicurarsi: avere il controllo di Dio o di ciò che riteniamo essere dio (risorse, potere, ricchezza, salute...). L’io non vuole con-dividere, vuole essere «figlio unico», cioè «assoluto», letteralmente «sciolto da tutto», del tutto autosufficiente: non ci possono essere fratelli. Il problema è tutto in una «d», basta toglierla a Dio e l’io, privo di trascendenza, diventa violento, perché il suo desiderio di infinito viene proiettato su ciò che è finito, e l’altro diventa una minaccia allo «spazio vitale», la «d» è sostituita da una «m», perché dire «mio» significa rafforzare l’«io». L’ego non vuole con-dividere, gli pare di morire. Che c’entra questo con la religione? La religiosità, come mostra la storia dell’umanità, è un bisogno naturale dell’uomo che scopre di non bastare a se stesso. La psicologia della religione, che è parte di quella del profondo, spiega che l’atteggiamento religioso è una disposizione esistenziale che, sfuggendo al puro dominio razionale, attribuiamo infatti a luoghi metaforici: inconscio, cuore...
A
questo livello profondo siamo mossi dall’istinto di conservazione, come dalla
fame, dalla sete, dalla paura del dolore. E usiamo la religione come narrazione
per sopravvivere o, meglio, l’ego, impaurito della morte, se ne serve così: in
un aereo in balia di forti perturbazioni pregano anche gli atei. L’uomo, nel
tentativo di gestire forze di cui non ha il controllo, inventa espedienti
rassicuranti, attribuisce al divino ciò che lo minaccia e cerca di tenerlo a
bada attraverso rappresentazioni con le quali instaura poi relazioni di tipo
commerciale: idoli, sacrifici, preghiere, prove... in cambio di protezione. Di
fronte all’ignoto che è ignoranza della causa o dello scopo di qualcosa, l’uomo
ha bisogno di rassicurarsi, e la religione attenua la paura dettata
dall’ignoranza (paura oggi combattuta con una fiducia nella scienza e nella
tecnica che ha infatti assunto caratteri religiosi: devozione, fedeli, nemici,
profeti, promesse...). Per farsi amico di ciò che lo minaccia e gestirne la
paura, l’uomo crea strutture materiali e psichiche fatte di narrazioni, regole,
luoghi, riti e si assoggetta ad esse. Chi minaccia queste «proiezioni» e
«protezioni» diventa: eretico, infedele, impuro...
L’ego
pone confini ed esclusività proprio a chi gli sta più vicino («fratello» nel
racconto di Caino e Abele indica i legami più stretti). Il sadismo è la
risposta estrema al senso di minaccia portato al nostro ego, e diventa
masochismo quando è rivolto a se stessi: devo distruggere ciò a cui tengo per
tenermi buono il divino. «Perché proprio a me che ti ho sempre servito» è la
frase che tradisce l’ego che crede sia amore la sua interessata sottomissione.
La religiosità autentica, che non è prodotta dell’ego, non sottomette ma crea
legami che uniscono. All’origine di ogni distruzione, sacrificio, violenza, c’è
un ego impaurito che corrompe la natura religiosa dell’uomo. Anche i
totalitarismi rivelano questo meccanismo, l’ideologia è una forma religiosa con
apparati rituali, sacrificali e di censura. La soluzione non è allora eliminare
la sete naturale di Dio, ma scoprire che ciò che unisce Caino e Abele è proprio
quella sete: l’altro non è il nemico dell’ego che vuole l’esclusiva, ma un
fratello con la stessa domanda di infinito e quindi da custodire. L’amore nasce
da qui: dal riconoscersi figli della stessa sete.
La
religiosità autentica non corazza l’ego, ma lo smonta per far emergere il Sè,
cioè l’uomo compiuto, che è l’io in relazione, aperto alla vita. L’io isolato,
amando, esce dalla sua prigione auto-inflitta e genera vita: ci vuole una
«egografia» per far nascere l’io che sa amare, che rinuncia all’esclusiva sul
mondo perché, solo amando, relativizza la paura della morte che lo porta a
volere tutto per sé. Mi ha sempre colpito che in origine i cristiani, per
l’eucarestia, non si riunivano in un luogo sacro ma nelle case, senza
differenza di classe o cultura. Un gesto quotidiano e necessario, un pasto,
rimescolava rapporti di forza e li trasformava in legami: non sorprende che i
Romani, pronti pragmaticamente a tollerare tutte le religioni, perseguitarono
(la loro violenza viene smascherata) proprio quella che minava un intero
sistema di potere e non era disposta ad adorare l’imperatore.
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