LA PERFEZIONE
E'
NEMICA DEL BENE
L’esperienza in un quartiere “difficile” aiuta
a comprendere come dovremmo immergerci nella realtà, senza alcun timore.
Così un prete di periferia ci insegna che la
perfezione è nemica del bene: Don Giorgio mi ha fatto capire che lavorare
con i poveri è una grande sfida e che bisogna convivere con molti limiti. Così
deve essere anche per i docenti, che non devono mai arrendersi
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di MARCO ERBA
Da diversi anni, grazie anche a Papa Francesco, si è tornati
a parlare di periferie come luoghi da cui ripartire in quanto predilette dal
Vangelo. Più che situazioni di predilezione, lo confesso, mentre guidavo verso
la casa di don Giorgio notai molte difficoltà, che mi inquietarono parecchio.
Don Giorgio è un prete di periferia per vocazione. Ha sempre svolto il suo
ministero nei quartieri più difficili di una grande città. Lo avevo conosciuto
quasi per caso, lui mi aveva invitato a cena e quella sera stavo andando per la
prima volta nel suo quartiere. Tra i palazzoni c’era un gruppo nutrito di
ragazzi ubriachi appollaiato sulle panchine vicino a un’area cani, che
infastidiva pesantemente i passanti. Più avanti, i venditori di mimose (era l’8
marzo) commerciavano fianco a fianco con gli spacciatori, senza che nessuno
intervenisse.
Erano situazioni inconsuete per me, che da sempre vivo in un
Comune benestante e che non ho mai lavorato in scuole di estrema frontiera. P
archeggiai l’auto, suonai il citofono. Don Giorgio mi aprì, sorridente. Don
Giorgio è una persona estremamente accogliente. Ha la passione della cucina:
quella sera servì per cena a me e a una comune amica, anche lei ospite da lui,
piatti prelibati: risotto giallo con ossobuco e una strepitosa torta fatta in
casa. Parlammo a lungo di molte cose. Gli chiesi della periferia, di com’era
essere prete lì. Mi raccontò del suo ministero sempre sul campo, della sua casa
sempre aperta, degli orari che spesso saltavano, perché i bisogni impellenti di
chi è davvero in difficoltà non si possono programmare in un’agenda. Parlammo
dei poveri: mi colpì molto il suo punto di vista. Io, da esterno a quel mondo,
da un lato ne ero impaurito, dall’altro tendevo a idealizzarlo.
Don Giorgio fu
estremamente concreto: disse che lavorare coi poveri era una grande sfida, che
la povertà culturale e quella sociale andavano spesso di pari passo, che
bisognava convivere con molti limiti, che non si doveva pensare a chissà quali
cambiamenti repentini e miracolosi, né ci si doveva sentire eroi per essere
impegnati lì. Però disse anche, senza nessuna retorica, che quei quartieri
potevano essere un terreno fertile, che si creavano relazioni dirette e
autentiche, senza alcuna finzione, che chi era in difficoltà era capace
talvolta di profondissima riconoscenza e che potevano sbocciare cammini di
autentico riscatto.
Oltre alle parole di don Giorgio, mi colpirono tantissimo i
suoi coinquilini. Il primo in cui mi imbattei fu un gioviale gatto bianco e
arancione che aveva l’encefalite: camminava tutto storto, sbagliava mira quando
doveva saltare sul divano e sbatteva contro i cuscini. “L’ho trovato così, non
posso mandarlo via” commentò don Giorgio. Il secondo coinquilino era un
cagnolone nero a pelo lungo, che mi fece mille feste non appena entrai in casa.
Mi chinai e lo accarezzai: mi lasciò fare, compiaciuto: “Meno male che gli sei
simpatico: altri non vengono accolti così bene, anzi” commentò don Giorgio.
Rabbrividii: meno male, già. Scoprii che il cagnolone era un randagio di cui
nessuno si curava, raccattato durante un viaggio all’estero da don Giorgio, al
quale il cane si era avvicinato. Erano diventati subito amici: don Giorgio lo
aveva fatto salire in macchina e lo aveva portato in Italia. Pensavo che le
sorprese fossero finite: mi sbagliavo. Mentre ci sedevamo a tavola, la porta di
casa si aprì ed entro un giovane coi capelli corti, la carnagione scura e una
voce profonda e melodiosa. Parlava perfettamente l’Italiano, ma capii subito
che era di origini straniere: quando ci stringemmo la mano e ci presentammo, il
suo nome me lo confermò. La sua storia era incredibile. Era cresciuto in una
zona di guerra. Entrambi i suoi genitori non c’erano più. Aveva vissuto senza
punti fermi, aveva commesso errori, compiuto azioni dannose per sé e per gli
altri.
Poi i cammini di don Giorgio e di quel giovane si erano
incrociati. Don Giorgio l’aveva accolto in casa, si era preso cura di lui, era
diventato un punto di riferimento fondamentale. Gli aveva dato fiducia: aveva
colto la scintilla di bellezza che c’era in lui e le aveva dato spazio. Gli
aveva donato un’altra occasione, credendo in ciò che quel giovane avrebbe
potuto fare, senza restare inchiodato al suo passato. Q uel giovane aveva
ritrovato la strada, prima smarrita a causa del dolore. Il dolore era rimasto,
ma non gli aveva impedito di andare avanti. La fiducia incondizionata di don
Giorgio, una fiducia a perdere, aveva permesso a quel giovane di compiere passi
avanti, uno dopo l’altro, prendendo un ritmo sempre più spedito. Lo si vedeva
dal suo sguardo, segnato dalle ferite, ma anche pieno di una luce potente, di
una indistruttibile forza.
« Aspetta», mi disse il giovane, « voglio farti vedere una
cosa». Tornò con un volume rilegato. Era la sua tesi di laurea in Scienze
dell’educazione, nella quale parlava anche di un pezzo della sua storia.
Scoprii che quel giovane faceva l’educatore in periferia. Incontrava molti
ragazzi difficili e riusciva a intercettarli: li capiva, era sulla loro stessa
lunghezza d’onda: il suo vissuto complicato gli permetteva di entrare in
sintonia con loro e di accompagnarli. Il suo dolore era diventato un ponte verso
di loro, uno strumento di condivisione. Le sue ferite erano fiorite per altri.
Don Giorgio gli aveva dato fiducia e gli aveva permesso di salvarsi: ora quel
giovane dava fiducia ad altri e permetteva loro di salvarsi. T ornando a casa
alla fine di quella incredibile serata pensai che, davvero, la periferia poteva
essere un luogo prediletto. Prediletto con tutti i suoi limiti, proprio per i
suoi limiti, che mostrano la tenacia della vita e come il futuro, comunque,
possa riuscire a farsi strada. La grande tentazione di chi educa è l’ideale di
perfezione che troppo spesso abbiamo in testa. Vorremmo studenti impegnati e
diligenti, classi silenziose e partecipi, scuole pulite e ordinate, adulti
dialoganti e disponibili. Ma le cose non vanno mai così, e allora ci
lamentiamo.
La lamentela prolungata però spinge ad alimentare
quell’ideale di perfezione irraggiungibile di cui diventiamo dipendenti, ci
toglie forza, ci fa credere che tanto tutto sia inutile. Finiamo così con il
non vedere la ricchezza che c’è per rimpiangere una perfezione che non esiste.
Per questo la periferia è un luogo prediletto: perché ci costringe, volenti o
nolenti, a immergerci nella realtà così com’è, a contaminarci positivamente con
essa, a sporcarci le mani per scovare le perle nel fango. La periferia ci mette
duramente alla prova, ma riaccende la voglia di futuro, togliendo dal nostro
orizzonte i mondi perfetti che sono solo miraggi fuorvianti nella nostra testa.
L a periferia è salutare e riguarda tutti. Quel giorno mi resi conto di molte
periferie che sono dentro e fuori di me, nei miei atteggiamenti e nelle persone
o situazioni che incontro. Le vidi distintamente: nella nuova luce di don
Giorgio e della sua strana famiglia, almeno per quella sera, mi parvero
opportunità straordinarie, sfide avvincenti. Perché la salvezza è proprio lì:
in un quartiere difficile, in una casa dove un prete dal cuore grande, un
ragazzo che ha trasformato il dolore in dono, un gatto con l’encefalite e un
cane randagio vivono insieme, in un equilibrio strano, ma armonioso.
La
salvezza non sta nei nostri ideali astratti, ma abita nelle nostre splendide
imperfezioni.
*Insegnante e scrittore
www.avvenire.it
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