l’ennesima giravolta non aiuta le famiglie
-di
Gianfranco Lauretano
A
scuola per l'ennesima volta cambia la valutazione. Si comincerebbe dalla
primaria. Sì può fare con un emendamento a un ddl ?
l’ennesima giravolta non aiuta le famiglie
-di
Gianfranco Lauretano
A
scuola per l'ennesima volta cambia la valutazione. Si comincerebbe dalla
primaria. Sì può fare con un emendamento a un ddl ?
l'Europa è senz'anima
dialogano in un saggio
che va alla ricerca di una vera unione.
- - di Michele Brambilla
Pera è consapevole del fatto che la società europea è oggi del tutto secolarizzata, e dice che al posto del cristianesimo c'è il nulla. «La religione laica un modo di dire che oggi nasconde il deserto dello spirito europeo sta sconfiggendo, mettendo da parte, privatizzando e secolarizzando il cristianesimo». E questa religione laica, aggiunge Pera, è tutt'altro che liberale: «Il laicismo imperante non è forse un rettile insidioso? Non ti dice che Dio non esiste: ti dice che, se proprio ne hai bisogno per consolarti, puoi appellarti a lui. () Sembra tollerante, questo modo di pensare, ed invece è una dittatura. Perché, alla fine, la ragion pubblica laica impone i suoi contenuti su vita, morte, matrimonio, sessualità, procreazione, democrazia, libertà, diritti, e tu puoi solo ubbidire».
Roma, 28 febbraio 2024
Questionario UNESCO-CCIC
1. Quali sono le attuali linee d'azione prioritarie della
vostra organizzazione?
UMEC-WUCT è un'organizzazione per le università, le scuole primarie e secondarie. Opera con insegnanti e scuole che si impegnano a testimoniare i valori del Vangelo nel quotidiano scolastico e sociale.
UMEC-WUCT interagisce con le istituzioni locali, nazionali ed internazionali in cui
lavorano i nostri membri e con società in cui vivono.
Le linee prioritarie sono: la formazione continua degli
insegnanti, il dialogo e la solidarietà umana e professionale.
Inoltre: c'è attenzione alle persone svantaggiate, a
tutte le situazioni di povertà, al dialogo intersociale e interreligioso, alle
sfide delle nuove tecnologie ( AI, ecc. ), al rispetto della persona umana, ai
problemi relativi all'ambiente e all'ecologia integrale.
2. Quale tema principale proponete per un progetto
collettivo per i prossimi due anni e sul quale sareste pronti ad impegnarvi?
3- Come viene affrontata la questione della pace nei
progetti che realizzate? Quali sono gli ambiti di intervento della vostra
organizzazione che contribuiscono in un modo o nell'altro alla promozione della
Pace?
L’educazione alla pace è un aspetto essenziale della
formazione scolastica (e universitaria), tenendo conto del contesto in cui
vivono i nostri membri.
• Iniziative per la risoluzione e la prevenzione dei
conflitti
Esistono progetti specifici realizzati in diversi
contesti e diversi paesi.
• Mediazione e intervento a livello comunitario
A livello internazionale, cerchiamo di promuovere una
mediazione umana e professionale, adeguata ai problemi che si presentano.
I nostri incontri, le nostre iniziative e il nostro blog
sostengono e mettono in risalto le nostre idee di educazione alla pace.
• Scambi culturali tra comunità per sostenere meglio
il tema della Pace.
I membri dell'UMEC-WUCT operano in situazioni molto
diverse (culturali, umane, religiose, ecc. ), in tutti i continenti. Cerchiamo
quindi sempre di promuovere il dialogo, l’interazione, il sostegno reciproco e
la solidarietà ovunque si presentino problemi.
• Dialogo interreligioso e intracomunitario
Vedi la risposta precedente.
• Genere e Pace
Lavoriamo per il rispetto e la valorizzazione di ogni
persona (dimensione umana e spirituale)
4. Partecipate al gruppo delle ONG per la pace, presso
l'UNESCO, guidato da Pax Christi e New Humanity, con ONG di altre religioni?
Si,
da sempre.
Siamo
disposti a partecipare con l’UNESCO ad iniziative riguardanti l’educazione,
entro i limiti delle nostre possibilità.
A
due settimane dall’avvio delle Rilevazioni nazionali 2024 abbiamo
intervistato Alessia Mattei, Responsabile dell’Area Prove
INVALSI, per comprendere meglio l’evoluzione nel tempo degli aspetti
organizzativi delle Prove standardizzate, ottimizzati anche grazie al costante
dialogo con le scuole.
Uno
dei cambiamenti che possiamo citare è sicuramente quello relativo all’aspetto
logistico e organizzativo, che ha raggiunto in tempi rapidi livelli superiori
alle nostre aspettative.
Le
scuole sono ormai assolutamente in linea con le peculiarità della
somministrazione in formato CBT e l’ottimizzazione
dell’organizzazione delle classi e dei gruppi classe da tempo ha permesso di
superare le comprensibili difficoltà logistiche iniziali.
Questo
è accaduto anche grazie all’accoglienza da parte dell’INVALSI delle esigenze
manifestate dalle scuole: ad esempio sono state modulate delle finestre di
somministrazione appropriate e sono stati forniti tutti gli strumenti utili per
una migliore organizzazione sia nelle classi campione sia in quelle non
campione.
In
sostanza, con le scuole abbiamo instaurato un rapporto molto costruttivo,
costante e quotidiano.
I
diversi interlocutori che incontriamo – i dirigenti scolastici, il corpo
docente nel suo complesso e chi si occupa poi concretamente delle
somministrazioni – si dimostrano molto attenti alle rilevazioni e ai dati che
queste permettono di offrire loro.
Si
possono incontrare ancora situazioni in cui permane qualche perplessità verso
le Prove nazionali, ma sono assolutamente gestibili in forza di un dialogo
tra scuola e INVALSI che negli anni è diventato più costante e aperto.
E
questo dialogo ha consentito di comprendere appieno i vantaggi legati a un
sistema di rilevazione standardizzato che ha una dimensione nazionale.
Il
primo vantaggio, dal punto di vista scientifico, è senza dubbio legato al fatto
che il nostro Istituto dispone di dati molto solidi; ciò è dovuto soprattutto
all’utilizzo di ampie banche di domande. La somministrazione delle prove
Computer based, basate appunto su banche di domande, consente infatti l’assegnazione
allo studente, a ogni studente, di un livello.
L’altro
vantaggio, tutt’altro che secondario e che gli insegnanti apprezzano molto, è
l’assenza delle operazioni di codifica e di correzione delle domande aperte,
che è tutta centralizzata e in carico all’INVALSI. È indubbio che questo non
solo alleggerisce il carico di lavoro per i docenti, ma garantisce anche
sull’oggettività della correzione.
Possiamo
quindi senz’altro dire che il processo di somministrazione ha raggiunto un
ottimo livello, sia dal punto di vista metodologico che da un punto di vista
logico e tecnico-organizzativo. Di questo abbiamo un riscontro diretto
proveniente dalle scuole stesse anche attraverso i canali di assistenza alle
scuole.
Il
rapporto dei docenti con la valutazione, e in particolare con la valutazione
standardizzata, è certamente cambiato in questi anni. Quali sono i maggiori
segnali di questo cambiamento?
In
questi ultimi mesi ho avuto modo di riscontrare in prima persona l’esigenza e
la disponibilità dei docenti a diventare parte attiva di una rilevazione
standardizzata su larga scala, approfondendo il significato delle Prove e gli
aspetti più prettamente metodologici relativi alla loro costruzione.
Lo
abbiamo visto e apprezzato in particolar modo nei percorsi di
formazione che offriamo agli insegnanti. Il numero di coloro che
partecipano a questi percorsi che li rendono sempre più protagonisti del
processo valutativo con prove standardizzate è in costante aumento.
Ciò
indica una crescita culturale in merito alla valutazione e all’importanza che
le viene riconosciuta.
Sempre
più i docenti vogliono sapere quali sono i vantaggi e anche gli svantaggi della
valutazione standardizzata, quali sono le competenze che si possono misurare
con questo tipo di prova e quali no. Vogliono quindi comprendere un processo
conoscendone le finalità e gli obiettivi.
Questo
è senza dubbio molto apprezzabile perché costituisce un punto di partenza
fondamentale per avere un’opinione più coerente rispetto a tutta
l’operazione valutativa, per entrare nella logica delle Prove ragionando
sia sugli elementi positivi sia su quelli negativi.
Sì,
anche sugli aspetti negativi, non sembri strano. Come già detto, le rilevazioni
standardizzate infatti hanno innegabili punti di forza, ma come tutti i tipi di
valutazione non coprono tutte le possibilità.
Vedere
entrambe le facce della medaglia aiuta a comprendere più a fondo quali sono gli
aspetti positivi di una rilevazione come quella delle Prove INVALSI e
l’utilizzo che si può fare degli esiti restituiti alle singole scuole.
Quando
questa conoscenza manca può accadere che vi siano delle perplessità sulla
valutazione standardizzata su larga scala. Queste resistenze possono essere
legate a un principio generale, cioè non ritenere la valutazione esterna una
risorsa utile per il sistema scolastico, per il decisore politico, ecc.
La
mia esperienza mi permette però di asserire che l’insegnante quotidianamente
impegnato a scuola, nel momento in cui si esplicitano i vantaggi e gli
svantaggi di questa operazione, molto difficilmente ne nega tutti i possibili
ritorni positivi.
Sappiamo
di essere prossimi a una nuova transizione delle Prove INVALSI, la cui
somministrazione passerà dal formato cartaceo al CBT anche nella classe quinta
della scuola primaria. Come ci si sta preparando a questo passaggio?
In
vista di questa ulteriore evoluzione il nostro Istituto ha avviato una linea di
ricerca dedicata alla sperimentazione delle Prove in formato CBT nella
classe quinta primaria.
È
ovvio che, trattandosi di bambini, sorgono tutta una serie di problematiche
metodologiche e tecniche che vanno affrontate.
Il
passaggio alle prove computerizzate potrebbe garantire anche in questo caso
un alleggerimento del lavoro degli insegnanti, come è stato per gli
altri gradi scolastici, e la possibilità di avere anche per la primaria una
banca di domande in forza delle quali il tipo di esito ottenuto potrebbe
essere molto più articolato.
Il
passaggio al CBT per questo grado scolastico è ora in fase sperimentale; al
momento abbiamo attivato un processo di costruzione delle prove e di adattamento
della piattaforma a questa diversa tipologia di utenza.
Come
sempre, vedremo che cosa ci diranno i dati e, a partire da quelli, decideremo
come proseguire in questo progetto dialogando con tutti gli interlocutori
coinvolti in questa operazione.
e di iniziazione
alla democrazia
(a cui abbiamo abdicato)
-di Sara De Carli e Daniele Novara
Assistiamo
a una crescente intolleranza verso i punti di vista diversi, anche da parte
delle istituzioni.
La
cultura della democrazia vive di ascolto delle posizioni differenti, ma anche
la scuola - dice il pedagogista Daniele Novara - «da vent’anni non è più
impegnata sul tema dell’educazione alla discussione e al confronto».
Ascoltami
vs ti ascolto.
Sta
nella distanza tra queste due posture il fare o non fare una iniziazione alla
democrazia per i nostri ragazzi.
«Se
vuoi sostenere la democrazia, devi sostenere i processi di apprendimento per
cui ci si ascolta reciprocamente nelle opinioni diverse.
Le
istituzioni – penso anche alla scuola – da anni invece dicono solo “ascoltami”
e poi lamentano un “non mi ascolta” per giustificare azioni “correttive”.
Ma
l’istituzione democratica si fonda esattamente sull’azione contraria, sul “ti
ascolto”»: Daniele Novara, pedagogista che oltre trent’anni mette al centro del
suo lavoro l’educazione e la gestione dei conflitti, commenta così le
manganellate dei poliziotti sugli studenti di Pisa.
Che
cosa si può dire?
«Con
i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento»: sul fatto in sé le parole del
Presidente Sergio Mattarella sono definitive, non hanno bisogno di chiose o
sinossi.
I
manganelli sui ragazzi sono sempre un fallimento e «l’autorevolezza delle Forze
dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare
sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente
opinioni»: non c’è da aggiungere altro.
La
preoccupazione per una virata di autoritarismo c’è.
Che
dire però del “prima”?
Del
fatto che i ragazzi non avevano comunicato i loro percorsi, che la
manifestazione non era autorizzata…
Che
rispondere insomma, da educatori, all’obiezione che c’è modo e modo di
manifestare e che non può valere tutto?
I
poliziotti hanno detto che i ragazzi “non ci ascoltavano” e “non facevano
quello che gli dicevamo”.
Ascoltami!
È
questo il punto che ci porta a fare una riflessione più ampia: non è solo un
clima sociale ma anche le istituzioni stanno andando nella direzione di una
gestione del dissenso che non è più fondata sul confronto tra posizioni
differenti, ma che cerca un nemico. Assistiamo a una crescente intolleranza
verso i punti di vista diversi.
Anche
le istituzioni dicono “ascoltami” e lamentano il “non mi ascolta”, tutto qui.
Mentre
invece la cultura della democrazia dinanzi a un problema è esprimere le proprie
opinioni, confrontarsi sulle opinioni differenti e quindi decidere.
L’istituzione
democratica al cittadino dice l’opposto, dice “dimmi, io ti ascolto”.
E
favorisce fra i ragazzi, proprio nella loro formazione come cittadini,
l’apprendimento delle modalità per esprimere punti di vista diversi e per
confrontarsi sui punti di vista diversi.
Chiama
in causa la scuola?
C’è
oggettivamente anche un tema di una scuola che fa lezione di educazione civica,
cittadinanza, rispetto dei diritti umani… che restano teoria davanti alle
manganellate della polizia.
Non
è tanto questo, questo può dirlo superficialmente chi non conosce la scuola
oppure chi vuole difenderla a priori.
La
verità è che da vent’anni la scuola non è più impegnata sul tema
dell’educazione alla discussione e al confronto, sul versante del creare una
cittadinanza nella logica democratica.
Il
dibattito maieutico, per esempio, è una tecnica che le scuole usavano
tantissimo fino 10-15 anni fa: adesso non ne parla più nessuno.
La
scuola ha abbandonato completamente le forme pedagogiche di introduzione alla
democrazia e alla libertà di espressione, con la discussione libera in classe o
con quel confronto sui problemi che si faceva leggendo il giornale in classe:
queste cose non le fa più nessuno.
Che
fine hanno fatto i libri preziosi di Clotilde Pontecorvo sulla discussione in
classe?
L’aporia
È
un dispositivo del tutto abbandonato, che ha portato i ragazzi a non saper più
discutere. C’è un’aporia sostanziale, la scuola agli alunni chiede ormai solo
l’ascolto del docente, soprattutto alla secondaria di secondo grado.
Il
problema è questo: quale meccanismo di iniziazione alla democrazia attiviamo
nella classe, se è vero che la scuola è il primo luogo di apprendimento della
democrazia e la democrazia è proprio la gestione del conflitto senza violenza,
attraverso una ritualizzazione in cui l’opinione divergente non viene vissuta
come una minaccia da portare a un duello ma come elemento di ricchezza, da
considerare per analizzare i vari punti di vista e poi arrivare a una
decisione.
È
una cultura di gestione dei ragazzi che si sta creando, di cui fa parte anche
l’orribile norma per cui il 5 in condotta dal prossimo anno porterà alla
bocciatura: è quanto di più antipedagogico esista.
Perché?
Perché
nella storia della pedagogia gli alunni difficili sono quelli che hanno
permesso alla pedagogia di progredire, ti costringono a trovare metodi e
dispositivi, a fare il meglio possibile per recuperarli.
Se
lo condanni con bocciatura, come se la scuola fosse istituto di correzione…
Questa
scelta significa guardare la scuola come luogo di espiazione della pena e non
più come una comunità di apprendimento.
- - di Alessandro D’Avenia
«Ho finito di leggere Ciò
che inferno non è, ma nella mia vita ultimamente ho difficoltà a vedere,
nell’inferno, ciò che inferno non è e questo è pericoloso per me, che sono
mamma di tre figli. Non ho vissuto una vita ovattata, il contesto in cui sono
cresciuta è equivalente al degrado del quartiere descritto nel libro, ma il
sorriso e la speranza, che non mi sono mai mancati, ora invece, nelle brutture
odierne, vacillano, facendomi pensare che forse non è stata la migliore delle
idee mettere a questo mondo marcio i miei ancora ignari figli. Come ritrovare
il coraggio e la “leggerezza attenta” di cercare il bello anche dove non sembra
esserci?».
Questo messaggio ricevuto
di recente mi ha costretto a chiedermi se esiste un metodo per trovare gioia
dove non sembra che ci sia, se ci sia ancora la possibilità di scorgere un
cigno in mezzo alla polvere e all’immondizia della città, come racconta Charles
Baudelaire in una delle sue poesie più belle. Siamo sicuri che questo mondo sia
così marcio o più marcio di quello di prima? E se invece di aspettare
l’apparizione del cigno fossimo noi a poterlo far apparire? Esiste un metodo
per sperare anche nella disperazione amplificata da una comunicazione che,
drogata dai click, predilige la sovraesposizione del marcio e crea un effetto
depressivo? Provo a rispondere con due storie vere in cui mi sono imbattuto di
recente.
La prima è quella di
Cicely Saunders, una ragazza londinese avviata agli studi di economia a Oxford,
che, durante la Seconda Guerra mondiale, incapace di stare a guardare, si
arruola come infermiera per curare i feriti che giungono dal fronte. Trova l’inferno:
centinaia di coetanei che muoiono tra atroci sofferenze. Invece di scoraggiarsi
di fronte all’impossibilità di salvarli, comincia a studiare la situazione e
scopre che per lenire la sofferenza dei moribondi non bastano le cure fisiche,
bisogna curare la loro disperazione. Farà di questo la ragione della sua
esistenza: trovata la sua vera vocazione, comincerà a studiare medicina a 33
anni e aprirà nel 1967 il primo Hospice moderno, dove non si va a morire ma a
vivere bene sino all’ultimo istante. Le cure palliative create dalla dottoressa
Saunders sono oggi un punto di riferimento a livello mondiale per la cura dei
malati terminali.
Ho conosciuto la storia
grazie al recente romanzo di Emmanuel Exitu, intitolato Di cosa è fatta la
speranza. È proprio in mezzo all’inferno che Saunders inventa il nuovo: «La
speranza è il modo peggiore di affrontare la vita. Naturalmente se si escludono
tutti gli altri, che sono molto peggio». La frase che apre il libro è
paradossale quanto vera. La speranza non è una tecnica di suggestione per
vedere le cose come non sono, anzi è la capacità di stare talmente dentro e di
fronte al presente da innamorarsene. In questo senso la speranza «è il modo
peggiore di affrontare la vita» perché è impegnativa, ma «tutti gli altri sono
molto peggio» perché escludono la creatività e la libertà, l’azione da
protagonisti. Cicely Saunders fu visionaria perché sperava, essere visionario
non significa avere visioni ma prestare attenzione fino a scorgere il possibile
dove tutti vedono l’impossibile.
Nel capitolo che dà il
titolo al libro, l’autore elenca gli ingredienti della speranza, e sono tutte
quelle cose e persone che i malati terminali hanno care e che il personale
dell’hospice procura loro: da un whisky con ghiaccio tritato a un cucciolo d’elefante,
perché «la speranza è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia
accadere». Quindi il mio primo consiglio è essere una di quelle persone che le
fanno accadere, essere visionari nel qui e ora. Altrimenti ci si consegna alla
disperazione che è proprio ciò che impedisce di vedere. Se Saunders avesse
pensato: prima, a casa, «ho i miei studi che m’importa di chi muore in guerra»,
e dopo, in corsia, «tanto è tutto inutile» non avrebbe inventato le pratiche
che oggi rendono umana anche la morte inevitabile (la morfina veniva data solo
su richiesta; i parenti non erano coinvolti e aiutati ad affrontare il
lutto...).
La seconda storia vera è
narrata dal protagonista, Michel Simonet: spazzino per vocazione. Ogni mattina,
all’alba, da trent’anni, mette una rosa fresca sul suo carretto come un
vessillo: è felice di rendere bella la sua città, portare a casa ciò che serve
alla famiglia e far vivere meglio i suoi concittadini. Trova il bello anche in
mezzo alla sporcizia, fosse anche solo la strada pulita dopo il suo passaggio.
Il suo diario di strada fa vedere come ciò che conta nella vita non è
innanzitutto il lavoro che si fa, ma perché e per chi lo si fa. Così la
sporcizia diventa occasione di quotidiane scoperte e relazioni. Per Simonet la
strada è il luogo in cui far accadere la speranza: fatto con e per amore il suo
lavoro diventa ricco di possibilità inattese (anche diventare scrittore) e non
prigione da cui fuggire.
Allora la seconda cosa
che suggerirei è continuare a mettere al mondo e sempre di più i tre figli,
proprio in un mondo marcio (quando il mondo non lo è stato? Però oggi il marcio
ci viene sbattuto in faccia con più frequenza da quella che è una vera e propria
infodemia). E poiché i figli si mettono al mondo in due, sono quei due che
continueranno a metterli al mondo. Noi siamo le relazioni in cui siamo
cresciuti. Dall’amore dei genitori e di chi lo educa dipende la fiducia con cui
un bambino guarda la realtà, dalla cura che gli viene data dipende il suo
sistema immunitario non solo fisico, ma anche psichico, che è la speranza, cioè
saper stare nel presente senza soccombere (abbiamo bisogno di ricevere più
amore di quanto male ci arriva) e senza fuggire (la tecnologia oggi offre un
comodo altrove in cui rifugiarsi).
Alzogliocchiversoilcielo-Corriere della Sera
IL DIO IN CUI CREDO
Il percorso che Gesù fa
compiere ai suoi discepoli e, in particolare, agli Apostoli, inizia con una
proposta personale di conversione radicale, totalizzante e sincera, nella quale
non c’è spazio per una concezione dell’esistenza diversa da quella che Dio le
ha assegnato.
Cristo non propone loro
una conversione di parole, ma un risolutivo cambiamento della loro visione e
del loro stile di vita, per rifondarli solo sui suoi insegnamenti e sul suo
esempio, affinché conformassero e finalizzassero la loro esistenza alla volontà
del Padre.
Essi fanno un cammino di
conversione sostenuto dai potenti segni compiuti da Gesù; cammino che si rivela
impegnativo, totalizzante e duro; che li distacca dalle sicurezze sulle quali
essi fondavano il loro vivere quotidiano e li rende assai distanti dallo stile
di vita comune dei loro conterranei.
Questo libro, seguendo la
via tracciata da Gesù ed imitandone il metodo, propone un ciclo organico di
riflessioni che scava nel nostro modo di credere e di essere e ne approfondisce
principi e contenuti per spianare la via, e per condurre ad una conversione sempre
più profonda e matura.
Pippo Viola, L’IDENTITA’ PERSONALE E IL SENSO DELL’ESISTENZA,
ed. Amen,
pagg. 215, febbraio 2024, € 15
riparte dalla persona
L’eventuale
collasso dell’universo è un evento fisico, la fine del tempo storico invece è
un evento che riguarda l’uomo e il mondo umano
- - di VITTORIO POSSENTI
Taluni ricorrono ad espressioni – tipico il termine “macchina antropologica” – che non agevolano la comprensione della persona e dell’umanesimo. Nell’essere umano non si tratta di cercare il luogo di articolazione tra l’umano e l’animale, quasi fosse una zona di indifferenza o, peggio, un punto di contatto instabile tra l’umano e l’animale. Ciò significa che il corpo umano non è un corpo meramente animale cui si aggiunge alla meno peggio un’anima spirituale, ma è un corpo umano animato ed elevato da un suo proprio logos, immanente all’individuo sin dal primo momento. Pertanto, l’appunto severo che Heidegger eleva alla metafisica, ossia di pensare l’uomo «a partire dalla sua animalitas e non in direzione della sua humanitas», non è valido per la filosofia della persona cui guardiamo, che rende giustizia all’animale senza abbassare l’uomo. Le considerazioni avanzate da mezzo secolo sulla “macchina antropologica” che sarebbe propria della filosofia occidentale nella sua totalità, trascurano che la persona non è in alcun modo una macchina in cui debbano articolarsi meccanicamente l’animalità e l’umanità. La persona non è solo Dasein e il Dasein non è la persona.
Il lavoro educativo è in crisi. Dinanzi alla fragilità diffusa e al timore per il futuro, l'educare deve ripartire da azioni che nascono dalla capacità di vedere e farsi carico di ciò che si è veduto, senza limitarsi allo sgomento.
Sul valore del lavoro educativo si è costruita la storia dell’umanità. Educare significa lasciarsi interpellare dalla relazione e assumerne la responsabilità che contribuisce a costruire il futuro.
Il “ruolo” degli educatori in ogni servizio educativo nasce
da qui ed è cresciuto modificandosi in relazione ai cambiamenti sociali,
politici, culturali.
E oggi proprio dalle grandi trasformazioni in corso dobbiamo
partire.
Il tempo che stiamo vivendo è fatto di grandi trasformazioni
sociali, relazionali e culturali, dal lockdown alle guerre, lo scenario ha
comportato nuove fragilità e insicurezze che hanno profondamente cambiato il
volto delle nostre comunità.
Ci troviamo in una crescente difficoltà economico-sociale e
in presenza di diverse criticità culturali e sociali che si intrecciano nello
spazio e nel tempo: le differenze territoriali, le differenze di genere, i
cambiamenti relazionali, la dissoluzione del tessuto solidaristico e la
chiusura familiare, l’inverno demografico, la trasformazione del ruolo
genitoriale, l’aumento delle violenze profonde.
A questo si aggiunge la dispersione scolastica (l’Italia è
uno dei paesi europei con il più alto tasso di abbandoni in Europa) e la
mancanza di servizi educativi per la prima infanzia.
Tutti questi elementi di fragilità sono poi in relazione con
i tre macrocambiamenti del nostro tempo avvenuti nell’arco di una generazione:
la crescente presenza migratoria, l’ingresso del web nella nostra vita e ora il
ruolo dell’intelligenza artificiale.
Ragazzi isolati che non sanno prendersi cura di sé, come se
la vita si esaurisse nell’attimo presente e non offrisse nessuna reale
prospettiva di senso.
Una diffusa insicurezza, il timore di non corrispondere alle
aspettative, l’incapacità di gestire le emozioni, il disorientamento.
Ma le ricerche ci dicono anche che questi percorsi di
fragilità hanno fatto riscoprire a molti ragazzi il valore della relazione “in
presenza” con i compagni e le compagne di scuola.
E mostrano il valore e
il senso del lavoro educativo, la “bellezza” di aiutare a costruire
benessere esistenziale.
La prevenzione
In questo quadro, la prospettiva prioritaria da potenziare è
la prevenzione.
Per aiutare i figli della crisi a trovare ancora possibilità
di progettare futuro si impongono interventi per azioni che nascono dallo
sguardo; il che significa innanzitutto non limitarsi all’inquietudine o allo
sgomento di fronte ai comportamenti più allarmanti che la cronaca ci riporta
ogni giorno, ma cercare di conoscere i vissuti da cui hanno origine.
La capacità di vedere e farsi carico del veduto è il primo
passo della cura educativa che vuole alleviare il malessere nelle situazioni
difficili. Mentre lo sguardo indifferente, che esprime incuranza, “passa
oltre”.
Prima del samaritano erano passati un sacerdote e un levita
che avevano proseguito la loro strada, senza curarsi di quella persona ridotta
in fin di vita, cioè senza assumere la responsabilità di ciò che avevano
veduto.
Lo sguardo genera il sentimento. Su questo versante le
competenze emotive sono indispensabili per cogliere, valutare e gestire le
emozioni proprie e riconoscere le emozioni di chi ci circonda e per compiere
scelte di senso.
Le emozioni sono sempre collegate alla ragione.
Ma non dimentichiamo che anche se l’intelligenza cognitiva è
molto importante, l’intelligenza emotiva e l’accompagnamento
all’alfabetizzazione dei sentimenti sono indispensabili.
La grande sfida educativa oggi è proprio questa: tenere
insieme le competenze emotive con quelle cognitive.
E la competenza emotiva deve essere prioritaria competenza
professionale.
Animare l’azione educativa significa darle anima e aver cura
della vita emotiva è una risorsa pedagogica
spesso sottovalutata dal primato della ragione che ha dominato in gran
parte il percorso del sapere: la visione cartesiana del “cogito ergo sum”.
C’è un sapere dei sentimenti che non può più essere ignorato
o sottovalutato, proprio quando le competenze emotive sono indispensabili in
questo momento difficile.
L’innovazione avrà quindi come obiettivo accoglienza e inclusione che richiede la costruzione
della comunità educante che è la risposta principale di solidarietà e
condivisione di prospettive educative.
Occorre cioè saper tessere reti tra scuole, Pubbliche
amministrazioni, Regioni e Comuni, Asl e integrazioni con il Terzo settore, il
privato sociale (e non), il volontariato, parrocchie, oratori, centri sportivi
e culturali, scoutistici, musicali, artistici, e altre realtà aventi finalità
educative per ragazzi.
La corresponsabilità
Un sistema integrato dei servizi educativi basato cioè su
coprogettazione e corresponsabilità dell’azione educativa.
Per superare questa stagione di isolamento e insicurezza, il
tema della cura esistenziale diventa sempre più un perno educativo che riguarda
tutti gli ambiti, formali e informali, dai nidi d’infanzia fino all’accesso al
mondo del lavoro.
Più opportunità offriamo ai ragazzi, maggiore è la
possibilità di sottrarli all’emarginazione, al disagio e alla violenza.
Bisogna iniziare subito ad agire, insieme.
*Università Cattolica Sacro Cuore