dal male di vivere,
cerca la soluzione «in alto».
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di Alessandro D’Avenia
In uno dei suoi Dialoghi con Leucò, libro in cui immagina
delle conversazioni tra uomini e dei, Cesare Pavese racconta quella tra Esiodo
e la Musa. Il poeta si lamenta dell’insoddisfazione che l’ha spinto a cercare
la dea sul monte dove risiede, per trovare «l’ispirazione» che possa rinnovare
il suo faticoso vivere: «Provo un fastidio delle cose e dei lavori come lo
sente l’ubriaco. Allora smetto e salgo qui sulla montagna».
È il passaggio dall’ego al sé che ci evita di invecchiare
male sviluppando i difetti tipici dell’io mascherato, che vuole continuare a
ignorare la morte e la propria non autosufficienza, paure ineludibili che si
affrontano solo con l’essere amati, l’amarsi e l’amare. Una condizione che
ricorda i tre stadi della vita di Kierkegaard, che definirei «strati» perché
non dettati all’età ma dalla scelta. Per il filosofo danese infatti la felicità
è nel rendere più profonda la vita, smettendo di cercare fuori ciò che è già in
noi: nel primo stadio, estetico, cerchiamo piaceri; nel secondo, etico, doveri:
lavoro, matrimonio, figli...; nel terzo, religioso, un senso alle cose, la
dimensione spirituale del vivere, che ci fa trovare Dio in noi solo dopo aver
dolorosamente scoperto e accettato la nostra non autosufficienza. Non una
metafora, non una consolazione psicologica, non un simbolo, ma il fondo e il
fondamento della vita a cui oggi non crediamo più.
Quando, nel dialogo di Pavese, la Musa apre gli occhi a
Esiodo dicendogli: «Ogni giorno io ti trovo quassù... Ma tu sai che le cose
immortali le avete a due passi», il poeta risponde: «Non è difficile saperlo.
Toccarle, è difficile». Il poeta, come noi, sente che ciò che raggiunge non
basta mai, ci deve essere qualcosa di definitivo, che non si rovina, ma non
riesce a toccarlo o a esserne toccato: «E ogni giorno che spunta — dice Esiodo
— ti mette davanti la stessa fatica e le stesse mancanze». Allora la Musa gli
confida che la risposta è proprio nel quotidiano, lì si trova l’assoluto: «Non
capisci che il sacro e il divino accompagnano anche voi, dentro il letto, sul
campo, davanti alla fiamma? Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il
più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini». L’istante è il luogo
dell’eterno. Siamo chiamati a scoprire il divino nel quotidiano, l’infinito nel
finito, e la nostra inquietudine è solo nostalgia della gioia d’essere vivi e
non solo viventi. Per «toccare» ed «essere toccati» da questa gioia occorre
creare lo spazio in cui lo spirito sboccia, contemplazione e ascesi, parole
vuote oggi, eppure necessarie a dissotterrare Dio dalla terra di cui siamo
fatti. Che cosa vogliamo per un figlio? Oggi rispondiamo «che si realizzi»,
affidando la vita al progetto «mattutino», ma un figlio è «già» reale.
Potremmo dire, includendo «il pomeriggio», più
coraggiosamente «che impari ad amarsi e ad amare», ma la consideriamo una frase
sentimentale, salvo poi volere l’educazione sentimentale a scuola (rientra
dalla finestra ciò che abbiamo cacciato dalla porta). Sono amato? So amarmi? So
amare? Da queste domande dipende il nostro incontro con la vita autentica.
Cesare Pavese si suicidò nell’anno in cui vinse il premio Strega, aveva cercato
l’amore nel consenso, e non l’aveva trovato. L’aveva cercato nel lavoro, e non
l’aveva trovato. L’aveva cercato nel partito, e non l’aveva trovato. L’aveva
cercato in alcune donne sbagliate per lui, e non l’aveva trovato. Nel suo
diario che aveva intitolato Il mestiere di vivere annotava: «Il mio cuore è
anelante d’attesa, tanto anelante che ne è stanco, stanco». Era così stanco che
si procurò il sonno definitivo con i sonniferi che usava, dopo aver scritto
l’ultimo messaggio proprio sulla prima pagina di una copia dei Dialoghi con
Leucò. A 41 anni si procurò con la forza l’appuntamento con il divino: anche se
aveva intuito, proprio in quel libro, che quell’incontro poteva essere a
portata di mano. Come il suo Esiodo non seppe trovare ciò che la mente e la
penna sapevano: l’eterno è dove sei e in chi sei. Forse per questo quella
stessa penna scrisse nell’ultimo pensiero del suo diario: «o Tu, abbi pietà».
Il mestiere di vivere non è forse tutto qui?
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