- di Giuseppe Savagnone*
Ora è
difficile spiegare agli italiani che cosa è successo e soprattutto perché. Da
giorni si assisteva alla più vasta sollevazione dell’opinione pubblica
registrata dal tempo della fine della Prima Repubblica. Sindaci, farmacisti,
rettori, medici, associazioni cattoliche avevano espresso il loro appello al
presidente del Consiglio, perché ritirasse le sue dimissioni, attraverso
documenti firmati da migliaia di persone.
Tutte chiedevano
che Draghi restasse al suo posto. Un attestato di stima senza precedenti, che
però non ha trovato riscontro da parte di tre dei partiti della sua coalizione:
5Stelle, Lega e Forza Italia. Le motivazioni sono state solo apparentemente
diverse. Conte ha parlato di continue umiliazioni subite dal suo movimento.
Salvini e Berlusconi hanno detto che non intendevano più collaborare con i
5Stelle.
In sostanza
da entrambe le parti – a pochi mesi dalla scadenza elettorale – si voleva avere
maggiore peso in un governo finora gestito in modo preponderante dall’ex
presidente della BCE. A queste richieste Draghi ha risposto di no. Questo
esecutivo si era costituito intorno alla sua persona. Erano la sua competenza e
il suo prestigio che ne costituivano la forza. Un cedimento alle richieste dei
suoi ex alleati lo avrebbe trasformato in uno di quei pasticci, frutto di un
reciproco gioco di ricatti, a cui la partitocrazia ci ha abituati. Così se ne è
andato.
È
significativa l’interpretazione che di questa crisi hanno dato, all’indomani
della seduta del Senato che l’ha decretata, i giornali di destra. «Draghi si è
bruciato. Finalmente si vota», ha titolato «La verità». E nel catenaccio: «L’ex
banchiere sfida il Parlamento e viene respinto dal centrodestra: niente
fiducia». «Dai che si vota», è stato il titolo di «Libero» E sotto: «Il premier
sposa il Pd e il centrodestra lo scarica». «Draghi si affida al Pd e si fa
esplodere», titolava «Il Giornale». Paradossalmente, in questa stessa linea si
muove, sul fronte opposto, «Il Fatto quotidiano»: «Draghi si autoaffonda».
C’è un unico
filo conduttore, dietro a questi titoli, ed è la preoccupazione di scaricare i
rispettivi partiti di riferimento dall’accusa di essere responsabili di una
crisi che gli italiani non volevano e che non si sa quali conseguenze potrebbe
avere. Che Lega, Forza Italia e 5Stelle abbiano negato al governo il loro
sostegno parlamentare, grazie a cui esso era nato ed era sopravvissuto per 516
giorni, non viene mai messo in primo piano, anzi è appena menzionato. Draghi
«si è cacciato da solo», come ha poi detto Berlusconi. Un fragile tentativo di
mascherare la paradossale conclusione di una legislatura iniziata sull’onda del
populismo e conclusa, dagli stessi partiti che l’avevano cavalcata,
contraddicendo manifestamente, per i loro interessi, la volontà popolare.
Per
rinfrescare la memoria…
Nei titoli
citati viene salutato come un ripristino della democrazia il ritorno anticipato
alle urne. Come se questo Parlamento ormai non fosse ormai adeguato alle
esigenze del Paese. E in effetti in questa percezione c’è del vero. Non solo e
non tanto perché la riforma costituzionale del 2020 ha modificato drasticamente
il numero dei parlamentari, riducendolo da 630 a 400 deputati e da 315 a 200
senatori elettivi.
A questo
motivo formale, di per sé non decisivo, se ne aggiunge uno sostanziale, che
riguarda la qualità espressa in questi anni dai nostri rappresentanti, dopo le
elezioni del marzo 2018, che videro il trionfo dei populisti. A cominciare
dalla formazione del primo governo, a maggioranza 5Stelle – Lega, la cui
composizione e il cui programma furono decisi a tavolino dai rispettivi leader,
con un «contratto» privato (nel testo si parla dell’accordo tra due «signori»,
a sottolineare il definitivo rifiuto di ogni élite).
Nell’art.92
della Costituzione si legge: «Il Presidente della Repubblica nomina il
Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri».
Nel 2018 è avvenuto il contrario. Furono Di Maio e Salvini a decidere che il
premier sarebbe stato Giuseppe Conte, uno sconosciuto avvocato, fino ad allora
estraneo alla politica militante, che era amico del leader dei 5Stelle (che
pure aveva promesso, all’inizio, un «politico di altissimo profilo» …).
E che di
fatto, nel suo primo governo, si guardò bene dall’interferire sulle decisioni
dei suoi ministri. Quanto al programma, nella nostra storia costituzionale
repubblicana esso è di solito approvato dal Consiglio dei Ministri subito dopo
la formazione del nuovo Governo, per essere poi presentato dal Presidente del
Consiglio al Parlamento, e venire così approvato dalle Camere.
Nel 2018,
invece, tutto era già stato stabilito nel «contratto». In aula non ci fu
bisogno di discutere nulla. A garantire la democrazia non era il voto del
Parlamento, bensì la risposta dei fedelissimi all’appello di Salvini nelle
piazze oppure il voto online sulla piattaforma Rousseau (Di Maio), nello stile
che già il leader del Carroccio aveva inaugurato col suo fatidico appello
preelettorale alla folla plaudente: «Giurate? Giurate?»..
«Per la
prima volta nella storia», aveva detto Di Maio durante la contrattazione, «si
porta avanti una trattativa che mette al centro i temi che rappresentano tutte
le esigenze degli italiani e questo ci rende ancora più orgogliosi». Tutta la
storia politica precedente era stata ignobilmente gestita da “politiconi” e
“professoroni” che avevano pensato solo ai loro interessi…
Di fronte
alle luminose figure di Di Maio e Salvini, sparivano uomini di Stato come De
Gasperi, Dossetti, Moro, Scalfaro e tanti altri che avevano ricostruito
l’Italia dalle macerie della guerra, gestendo un enorme consenso popolare (ben
maggiore di quello dei 5stelle), pur restando poveri – De Gasperi, quando andò
negli Stati Uniti, dovette farsi prestare un cappotto – e fedeli al loro
impegno di servire il Paese…
Sulle ceneri
del populismo
Oggi
sappiamo come è andata a finire. I «signori» Di Maio e Salvini sono parte a
pieno titolo della élite che avevano a gran voce contestato, limitandosi a
sostituirne i precedenti componenti. Ma non è questa la cosa più grave. Il
punto cruciale è che questa classe politica emergente ha fatto un clamoroso
naufragio, di cui l’incapacità di concludere la legislatura è solo l’ultimo
segnale.
Più grave è
la storia politica di un Parlamento che ha visto il succedersi di clamorosi
capovolgimenti di maggioranze e soprattutto una palese incapacità di esprimere
una politica adeguata alle esigenze del Paese, tanto da richiedere una specie
di “commissariamento” ad opera del ben più qualificato “tecnico” Draghi.
C’è da
chiedersi, alla luce di questa precedente esperienza, se l’entusiasmo di coloro
che oggi salutano il ritorno al voto popolare sia fondato. Senza metterne in
dubbio la piena opportunità istituzionale, sono le prospettive politiche ad
apparire inquietanti. Certo, la Meloni è contenta. Da tempo si agitava per
arrivare a queste consultazioni, in cui i sondaggi la vedono favorita. È noto
che la sua più grande aspirazione è di diventare la prima donna premier della
storia della Repubblica.
Per questo
obiettivo è stata molto disponibile ad ammorbidire molti punti cruciali del suo
originario programma. Ma già questa tendenza a identificare il bene del Paese
con il proprio successo personale non può non lasciare perplessi. Siamo sicuri
che anche per l’Italia il cambio dal governo Draghi al governo Meloni sarebbe
un passo avanti?
Già a
livello internazionale il prestigio della leader dei Fratelli d’Italia non è
neppure lontanamente paragonabile a quello di cui gode l’ex presidente della
BCE. Solo Putin si rallegrerà. Anche all’interno, peraltro, soprattutto per la
gestione di una crisi economica resa acuta dalla guerra in Ucraina, dalla
crescita dell’inflazione, dalle difficoltà di approvvigionamento energetico, la
competenza e l’affidabilità dei due personaggi non è lontanamente paragonabile.
Ma forse più
inquietante di queste incognite riguardanti il probabile vincitore delle
prossime elezioni è il contesto culturale in cui esse si svolgono. Cosa è
rimasto, sulle ceneri del populismo? Difficile dirlo. Lo stesso successo di
Fratelli d’Italia nei sondaggi sembra esprimere più una delusione nei confronti
degli altri partiti che una vera scelta ideologica di destra.
Quanto alla
sinistra, da tempo, ormai, il Pd, orfano del marxismo, si è sempre più
appiattito sull’ideologia individualista liberale, tradendo le sue origini, che
l’avevano visto nascere come frutto di un’alleanza tra socialisti e cattolici.
Le sue grandi battaglie di questi anni non sono state combattute per evitare
che più di cinque milioni di italiani si trovassero nella condizione di povertà
assoluta (ultimo rapporto Istat), ma per l’introduzione dell’aborto, delle
unioni omosessuali, del suicidio assistito.
La verità è
che, su entrambi i fronti sembrano scarseggiare le idee. Sono sempre state,
diceva qualcuno, “merce di contrabbando”. Ma oggi scarseggiano anche i contrabbandieri.
In questo vuoto, possiamo solo augurarci che l’imminente, rovente campagna
elettorale che ci aspetta non impedisca, a chi ancora cerca di fare questo
mestiere pericoloso, di continuare ad esercitarlo.
Scrittore ed
Editorialista.
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