Vi era un tempo in cui la ricerca della propria identità era considerata parte costitutiva ed integrante di ogni crescita umana. In particolare, era l’adolescenza a segnare il momento di crisi o di passaggio all’età adulta per ogni giovane che inevitabilmente si trovava a dover fare i conti con i modelli genitoriali, le tradizioni e i valori della propria comunità di appartenenza.
Era dunque scontato pensare che ogni percorso di conoscenza di sé dovesse
passare da una prioritaria assunzione critica della propria storia e da una
rivisitazione dei valori sociali di riferimento. La “legge del padre”, i
modelli sociali, la cultura dominante, rappresentavano allora il punto di
partenza e al tempo stesso il limite-contenimento del processo di costruzione
del proprio Sé.
Per quanto ancora oggi la ricerca della propria identità sia riconosciuta
come un’aspirazione di ogni essere umano, tuttavia, ciò che oggi sembra sia
venuto meno è lo spazio contenitivo in cui, fino ad un passato recente, si
svolgeva questa indagine. Sembra che quel carico di inquietudine esistenziale
che da sempre l’ha accompagnata, oggi difficilmente trovi il proprio contenimento
all’interno di uno spazio rassicurante e ben definito dall’appartenenza ad una
propria comunità. Ciò che è venuto meno non è dunque l’anelito personale alla
ricerca di sé, ma l’idea che possa esistere una comunità capace di fornire un
modello di riferimento. Ad emergere oggi, infatti, è una concezione
individualistica che nella comunità non vede altro che una mera somma di
individui i quali, non a caso, appaiono sempre più sradicali, privi di
appartenenze e di valori condivisi.
Resa dunque ancora più complessa e problematica, la ricerca di se stessi ha
così lasciato il posto ad un’ossessiva, ma ben più rassicurante, cura della
propria immagine; le relazioni sociali sono state d’altra parte rimpiazzate
dalle più comode connessioni e da un compulsivo collezionismo di contatti. Il
nuovo identikit è dunque quello di un individuo che, di fatto, di comunità e di
ricerca di bene comune sa ben poco.
Le leggi di un mercato globalizzato hanno spazzato via, infatti, quelli che
un tempo erano valori consolidati e obiettivi esistenziali: la famiglia, la
certezza del lavoro, il salario dignitoso, per lasciare spazio ai nuovi
“valori” della flessibilità e competitività, dello sradicamento e precarietà.
Tutti falsi miti di una società individualistica e totalizzante che è capace di
subordinare tutto a quella prioritaria ricerca di profitto che sta determinando
il passaggio dall’ homo politicus, comunitario e socievole per definizione,
all’homo migrans, destinato a circolare come merce, sradicato, senza modelli di
riferimento e fuori dal contenimento protettivo di una propria comunità.
Non c’è dunque da stupirsi se smarrimento, inquietudine e senso di
inadeguatezza siano i sentimenti dominanti nelle nuove generazioni, troppo
spesso giudicate irresponsabili e disimpegnate, ma raramente ascoltate e
comprese nella loro oggettiva, oltre che soggettiva, difficoltà di vivere il
proprio travaglio esistenziale senza veri punti di riferimento e avendo dinanzi
un futuro che ogni giorno appare sempre più incerto. Non possiamo infatti non
considerare che il difficile percorso di autoconsapevolezza oggi è stata reso
ancor più complesso da un vero e proprio progetto culturale che mira
scientemente a dissolvere ogni forma di identità, percepita come presunta
minaccia alla libertà individuale di autodefinirsi e fonte di pericolosi
contrapposizioni e conflitti. Se dunque, appena ieri, sarebbe stato impossibile
prescindere dal riconoscimento delle appartenenze alla propria famiglia, alla
propria Nazione, a un determinato credo religioso, oggi ci si sta spingendo
persino verso la rimozione della stessa possibilità di definirsi a partire dal
proprio sesso di nascita.
L’ideologia gender, infatti, sta provando a dissolvere la coscienza di
genere, trasformando il dato biologico del sesso di nascita in mero fatto
culturale che, in nome di una presunta libertà assoluta, deve anch’esso potersi
considerare frutto di una scelta esclusivamente individuale. Il genere sessuale
non sarebbe più dunque da considerare un dato biologico, cromosomico, perché il
nuovo must impone che maschi o femmine non si nasce, ma si diventa. Dal gender
si passa così dal cisgender o al transgender, a seconda che ci si riconosca o
meno nell’identità di genere attribuita alla nascita, o al queer di chi
addirittura rifiuta di dare un nome alla propria identità di genere o al
proprio orientamento sessuale. Tutto appare lecito in uno spazio sempre più dominato
da un artificio, che ogni giorno di più si manifesta come soppressione e
superamento di tutto ciò che è natura.
A ben vedere, ciò che viene messo in discussione è la stessa possibilità di
pensare l’esistenza di modelli in una società in cui l’unico paradigma è quello
libertario, che non ammette definizione di identità a partire da appartenenze
date. L’identità fluida diviene allora l’unica forma di identità possibile in
una società che non a caso sceglie di definirsi liquida e che alla comunità di
appartenenza preferisce quel melting pot che promuove la commistione di
individui di origini, religioni e culture diverse, con la pretesa di voler
costruire un’identità universalmente condivisa.
Alla base di questa ideologia vi è la convinzione che non ha senso parlare
di anagrafe, di biologia, di cittadinanza, poiché ogni essere umano deve essere
lasciato libero di andare a vivere dove ritiene, senza limitazioni e senza
essere considerato un clandestino, perché l’unica definizione possibile è
quella di essere cittadini del mondo e abitanti della Terra. Non sappiamo se
tale progetto diverrà realtà o sia destinato a rimanere mera utopia. Intanto
quel che è certo è che questo uomo migrante è tutto fuorché felice di essere
costretto a lasciare i confini della propria terra, di dover rinunziare ai
propri affetti per vagare in un mondo che è ben distante dall’utopia di pace
promessa a chi crede nel one world no borders.
Di fatto ciò cui stiamo assistendo è il profilarsi di un homo vacuus, un
uomo vuoto, svuotato di ogni identità ma al tempo stesso potenzialmente capace
di assumerle tutte. C’è da chiedersi il perché di questo attacco frontale
all’identità. Tra le possibili cause certamente quella del grande equivoco di
un’egemonia culturale che ha confuso identità e identitarismo, nazione e
nazionalismo, sesso e sessismo. In pratica è come se si fosse deciso di
demolire qualcosa di significativo, solo in quanto avrebbe in nuce le
potenzialità della sua stessa degenerazione.
C’è inoltre da considerare che la ratio apparente di tale demolizione
risiede in un’idea astratta di uguaglianza che sarebbe preclusa e minacciata
proprio dalla definizione di identità e di appartenenze precostituite.
Paradossalmente, infatti, sarebbe proprio l’esigenza di garantire tolleranza e rispetto
a giustificare l’affermazione di uguaglianza intesa come indifferenziazione.
In altre parole, il ragionamento sarebbe questo: se vogliamo essere uguali,
dobbiamo rimuovere tutte le differenze che fanno sì che si sia diversi ossia,
appunto, le diverse identità. Ma è proprio così? Davvero occorre sopprimere le
identità per garantire uguaglianza? Se ci pensiamo bene, realizzare uguaglianza
non vuol dire sopprime le differenze, ma far sì che, nonostante le differenze,
si abbia tutti pari dignità. Così, ad esempio, non occorre demolire la
differenza fra maschio e femmina, negarne le differenze biologiche, perché
questi possano ritenersi uguali, ma occorre piuttosto lavorare per una società
che sappia dare eguale riconoscimento ed eguale dignità all’uomo e alla donna,
pur rispettandone le diverse identità.
* Laureata in Giurisprudenza presso l’Università
degli Studi di Palermo, ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in
Filosofia politica, presso l’Università degli studi di Pisa. Ha conseguito
inoltre il titolo di Mediatrice familiare e comunitaria, presso l’Università
Cattolica di Milano.
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