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di Giorgio
Vittadini
Tra i tanti profondi cambiamenti di questa epoca c’è senz’altro un diverso
rapporto tra lavori manuali e lavori intellettuali. Nella società industriale
del Novecento la distinzione tra i due era netta. Studio, remunerazione, potere
erano associati ai secondi; fatica, subordinazione, basso salario riguardavano
i primi, che ancora oggi sono considerati lavori “di serie B”, o comunque, un
ripiego quando non si riesce a trovare un lavoro intellettuale di qualità.
In realtà, oggi tante mansioni considerate intellettuali sono sostituite
dalla tecnologia o automatizzate, riducendo l’apporto cognitivo del lavoratore
che pure ha studiato anni. E d’altra parte emerge con sempre maggior chiarezza
che creatività, capacità decisionale e relazione, oltre che fantasia e
conoscenza, sono necessarie a una serie crescente di lavori manuali. Pensiamo a
un artigiano, a un disegnatore, a un cuoco, a un sarto, ma anche a tutte quelle
mansioni che richiedono un rapporto e un feed-back costante con un cliente, un
partner o un fornitore.
Un fenomeno che caratterizza il nostro Paese è lo “skill mismatch”, il
divario esistente tra le competenze richieste dalle imprese e quelle di cui
sono in possesso i lavoratori. Si tratta di posti di lavoro che non si riescono
a riempire o che si coprono con persone inadeguate e quindi in breve tempo
portano a probabili licenziamenti o comunque a bassa produttività. Il fenomeno
è di tipo mondiale (1miliardo e 300 milioni di casi), ma in Italia è
particolarmente rilevante, giungendo al 38,2 per cento, con 10 milioni di
lavoratori che non corrispondono ai profili professionali ricercati dalle
imprese. Il fatto è che tutte le professioni stanno evolvendo sulla base
dell’aggiunta di “nuove” skill e maggiore rilevanza delle skill di base.
In Italia il tasso di occupazione dei giovani 15-39 anni è decisamente
sotto la media Ue (nel 2019 in Italia 54,3 per cento e Ue 70,3 per cento); il
tasso di occupazione femminile è nettamente più basso della media Ue per tutte
le fasce di età (nel 2019 in Italia 52,2 per cento, 14 punti in meno della
media Ue); il tasso di occupazione fra 15 e 74 anni oscilla intorno al 58 per
cento e pone il nostro Paese al penultimo posto nell’Unione europea a 27, ben
lontano dai Paesi Bassi (77,8 per cento).
Nel convegno “Pensare con le mani” svoltosi alla sala Zuccari del Senato il
21 giugno promosso da Elis, il centro di formazione professionale fondato da
san Paolo VI e san Juan de Balaguer è stato presentato il manifesto del “lavorobuono”. Tale documento sviluppa una roadmap virtuosa di policy sulla promozione
del lavoro manuale. I temi trattati: come cambia il lavoro manuale, qual è il
lavoro che mi corrisponde, rapporto tra lavoro umano e lavoro artificiale, la
svolta del lavoro sostenibile, il lavoro per l’uomo.
Si potrebbe pensare che sia almeno facile risolvere i problemi per i lavori
manuali meno complessi: ma allora come giustificare che nel nostro Paese i
Neet, quota di popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni non occupata né
inserita in un percorso di istruzione o di formazione, sono in Italia oltre 2
milioni (22,1 per cento del totale dei giovani di quell’età) a fronte di una
media del 15,3 per cento dell’Unione europea (solo Bulgaria e Lettonia sono
peggio di noi)?
Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto, i lavori più umili devono essere
pagati in modo decente come non avviene nel nostro Paese: come fa a lamentarsi
un ristoratore di non trovare un lavapiatti se lo paga 800 euro per 40
(pesanti) ore settimanali con un contratto totalmente precario?
Inoltre, anche le professioni manuali cambiano: tra i 40 lavori a più alto
indice di cambiamento ci sono il disegnatore elettrico, il capocuoco,
l’elettricista navale, persino il cassiere che deve sapere usare gli strumenti
di comunicazione online, i nuovi strumenti digitali per l’ufficio, intendersi
di customer service, lavorare in team, adattarsi al cambiamento continuo.
Ma le ragioni del crollo dei lavori manuali non sono solo legate a bassi
salari e a difficoltà di formazione: vi sono anche questioni di tipo culturale.
Il boom industriale in Italia è stato reso possibile dal fatto che il
nostro Paese disponeva di istituti tecnici e professionali tra i migliori al
mondo. Insegnarono a tanti giovani un “mestiere”, fatto di conoscenze e abilità
manuali e permise loro di diventare anche piccoli e grandi imprenditori. Molto
dipendeva da una tradizione cristiana per cui la dignità del lavoro non dipende
dal tipo di mansione, ma dalla coscienza di partecipare all’azione di Dio
“eterno lavoratore”.
Continuare a pensare che lavoro dignitoso sia solo quello intellettuale, e
trattare gli istituti tecnici e professionali come una scelta di “serie B”,
significa anche non avere rispetto della diversità dei ragazzi, del fatto che
tanti crescono e imparano meglio attraverso attività pratiche. E così si
contribuisce al degrado e alla marginalizzazione degli istituti tecnici e
professionali e al mostruoso conseguente aumento di abbandoni scolastici (13,1
per cento degli studenti, vale a dire 543.000 all’anno!).
Ma c’è un ultimo aspetto che riguarda il tipo di formazione professionale
che deve colmare questi enormi gap. Di fronte alla Chernobyl dell’umano che
vive nel cuore di molti giovani, come ebbe a dire Luigi Giussani, non bastano
investimenti e progetti europei. Ci vogliono realtà come Elis che hanno il
coraggio di tener presente la ferita dei ragazzi facendo la fatica di
ascoltarli a uno a uno, guardando in faccia lo scetticismo e il cinismo che li
dominano, ridando voglia di studiare a chi pensava di essere perduto.
Per tanti di fronte alla proposta dell’avventura di un mestiere (fare il
parrucchiere, l’idraulico, l’elettricista, il perito nautico) a un certo punto
è riscattata, come una scintilla, il desiderio di essere se stessi, la
riscoperta del desiderio di costruire, generare, darsi un futuro. Deve avvenire
molto di più: è l’auspicio che lancia questo importante manifesto.
Il Sussidiario
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