(anche) questione di stile
- di SALVATORE MAZZA
Nel
1963, a otto anni, entrai come 'Lupetto' in un gruppo scout, il Genova 4°,
nella città dove allora abitava la mia famiglia. Era ancora il tempo dall’Asci,
l’associazione maschile, che solo nel decennio successivo si sarebbe unita con
quella femminile, l’Agi, per dar vita all’Agesci. Una delle cose che mi
colpirono di più fu il fatto che tra le voci dei diversi punteggi che venivano
attributi alle varie sestiglie che componevano il Branco, ce n’era una che
riguardava lo 'stile'. Io pensavo che fosse legata al come ci si presentava, al
come ci si comportava, e per esempio tenevo moltissimo a che la mia uniforme
fosse sempre impeccabile (sicuramente lo era quando arrivavo alle riunioni, poi
ci mettevo un minuto a ridurla a uno straccio). Dieci anni più tardi, divenuto
a mia volta capo e con già due 'campi scuola' alle spalle, ho capito che quando
si parlava di stile la 'facciata' contava veramente poco, o nulla. C’entra
molto invece con il modo in cui si sta insieme, si gioca insieme, si lavora
insieme.
Se
ci pensiamo bene, ci rendiamo conto che tutte le cose della vita hanno un loro
stile, o dovrebbero averlo. Che non è solo un fatto di educazione o di
apparenza, ma di sostanza. Soprattutto quando entra in ballo la relazione,
quando la nostra vita incrocia la vita di qualcun altro. C’è uno stile nel
lavoro, nel fare la spesa, nell’andare a scuola, nello sport... In tutto,
insomma. E, certo, esiste anche uno stile di essere cristiani, che non è quello
di battersi il petto in chiesa per farsi vedere. Papa Francesco lo ripete in
ogni occasione. Non si può essere cristiani 'all’acqua di rose', ed esserlo sul
serio comporta tante cose, tra le quali certamente la 'facciata' non è
compresa. Dai vescovi ai preti, ai laici, nessuno recita una parte in commedia.
Tutti,
invece, sono chiamati a dare sostanza a una Parola che non è astratta, ma
concreta.
Così,
anche la carità ha un suo stile che, come ha scritto nella Deus Caritas est Benedetto XVI,
non è fatto di efficienza, ma di coerenza con la fede, di testimonianza.
Ricollegandosi a questa idea, Francesco domenica scorsa ha detto che «il
credente somiglia molto al Samaritano: come lui è in viaggio, è un viandante.
Sa di non essere una persona 'arrivata', ma vuole imparare ogni giorno,
mettendosi al seguito del Signore Gesù». Il cristiano deve aprire «gli occhi
sulla realtà, non è egoisticamente chiuso nel giro dei propri pensieri. Il
Vangelo ci educa a vedere... superando giorno dopo giorno preconcetti e
dogmatismi. Tanti credenti si rifugiano nei dogmatismi per difendersi dalla
realtà». E poi il Vangelo ci insegna anche «a seguire Gesù, perché seguire Gesù
ci insegna ad avere compassione: ad accorgerci degli altri, soprattutto di chi
soffre, di chi ha più bisogno. Tante volte, quando mi trovo con qualche
cristiano o cristiana che viene a parlare di cose spirituali, io domando se fa
l’elemosina. 'Sì', mi dice. 'E, dimmi, tu tocchi la mano della persona alla
quale dai la moneta?'. 'No, no, la butto lì'. 'E tu guardi gli occhi di quella
persona?'. 'No, non mi viene in mente'. Se tu dai l’elemosina senza toccare la
realtà, senza guardare gli occhi della persona bisognosa, quella elemosina è
per te, non per lei. Pensa a questo: io tocco le miserie, anche quelle miserie
che aiuto?
Io
guardo gli occhi delle persone che soffrono, delle persone che aiuto?'. Vi
lascio questo pensiero: vedere e avere compassione». È questo lo stile della
carità.
Nessun commento:
Posta un commento