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martedì 2 aprile 2024

SPERANZA E ALTRUISMO

 LA SPERANZA 

CI RENDE ALTRUISTI




- -di Vito Mancuso 

È possibile oggi sperare? La situazione è tale che la scritta posta da Dante sulla porta dell’inferno, «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate», verrebbe collocata da molti all’interno dei reparti di ostetricia quale benvenuto ai nuovi arrivati.

 Siamo così in preda all’ansia che avvertiamo il mondo come una nave alla deriva carica di disperazione destinata presto a sprofondare nei gorghi del nulla. Dominati da questi neri sentimenti, è logico che il nostro cuore si restringa e che noi ci rapportiamo agli altri solo in funzione del nostro interesse, lo sguardo avido, freddo, calcolatore: ritorniamo allo stato di raccoglitori-cacciatori, ma senza nessuna meraviglia originaria. Io credo, però, che il compito del pensiero responsabile sia di opporsi a questa disperazione e per quanto mi riguarda nei reparti di ostetricia quale frase di benvenuto per i nuovi arrivati appenderei quest’altra frase di Dante: «Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto». Occorre tornare a coltivare speranza e ad avere fiducia nella navigazione nella vita.

 È un atteggiamento razionale? No, non lo è. Come tutte le cose esistenzialmente importanti della vita, anche questa scelta a favore della speranza non è “razionale”. Lo stesso vale per l’amore, l’amicizia, la passione, l’entusiasmo, il desiderio, l’ispirazione: nessuno di questi ambiti vive di sola ragione. Irrazionale, però, non vuol dire necessariamente falso, perché la verità non coincide sempre con ciò che è razionale, così da poter sempre essere afferrata e definita dalla ragione. È piuttosto l’esattezza a coincidere con il razionale, ma la verità è più dell’esattezza: è anche forza, energia, impeto, passione. È questa condizione onniavvolgente della mente e del cuore a meritare il nome di verità, la quale, quindi, ha strettamente a che fare con la speranza. Ha scritto Adorno nei Minima moralia: «Senza speranza l’idea della verità sarebbe difficilmente concepibile».

 Di solito si ritiene che la speranza sia un atteggiamento esclusivamente cristiano, ma non è vero. Gli antichi romani veneravano la dea Spes, le dedicavano templi e ne celebravano la festa il 1° agosto. Per questo Kant collocò la speranza tra le questioni decisive della vita: «Ogni interesse della mia ragione si concentra nelle tre domande che seguono: 1. Che cosa posso sapere? 2. Che cosa debbo fare? 3. Che cosa mi è lecito sperare?». L’uso della prima persona singolare da parte del filosofo segnala che qui non sono in gioco disquisizioni accademiche, ma l’esistenza concreta. Nella nostra epoca il filosofo marxista dissidente Ernst Bloch ha scritto Il principio speranza, di Adorno ho già detto e di molti altri non cristiani potrei dire. Quanto al cristianesimo, esso considera la speranza una virtù teologale, altrettanto fondamentale quanto la fede e la carità.

 Ma è soprattutto una celebre pagina di Eschilo a sottolineare l’importanza della speranza per tutti gli esseri umani: Prometeo è incatenato per ordine di Zeus, un’aquila gli mangia il fegato che di notte gli ricresce per poi essere nuovamente divorato, e una corifea gli chiede il motivo di questa terribile condizione. Prometeo le risponde: «Gli uomini avevano sempre, fissa, davanti agli occhi, la morte: io ho fatto cessare quello sguardo». Domanda: «E quale rimedio hai trovato per questo male?». Risposta: «Ho fatto abitare dentro di loro le cieche speranze». E conclude: «E poi procurai a loro il fuoco». Prima del fuoco Prometeo dà agli uomini le speranze, che sono dette “cieche” non perché fatue, ma perché la speranza per definizione non vede e non sa come andrà a finire e per questo, appunto, spera. Ma per quanto cieca, essa è forte e conferisce forza, come si capisce dal fatto che lo stesso utilizzo del fuoco ne richiede la presenza. Non a caso Aristotele definiva la speranza «il sogno di un uomo sveglio».

 In cosa avere speranza? Io sono convinto che la stella seguendo la quale possiamo ritrovare speranza sia l’amore. È l’amore la sorgente della speranza nella vita. Ma che cos’è l’amore? Da sentimento privato occorre, molto più profondamente, considerarlo logica cosmica. Novant’anni fa il gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin, esiliato in Cina dalla Chiesa a causa delle sue idee sul peccato originale, a un amico che gli aveva chiesto di esprimere in sintesi il suo credo, rispose così: «Se a seguito di un qualche capovolgimento interiore, io dovessi perdere la mia fede in Cristo, la mia fede in un Dio personale, la mia fede nello Spirito, a me sembra che io continuerei invincibilmente a credere nel Mondo. Il Mondo (il valore, l’infallibilità e la bontà del Mondo), ecco in ultima analisi la prima, l’ultima e la sola cosa in cui io credo. È di questa fede che io vivo. Ed è a questa fede che io, lo sento, nell’ora della morte, oltrepassando tutti i dubbi, mi abbandonerò».

 La domanda sull’essenza dell’amore trova qui la sua risposta: l’amore è la logica relazionale che ha reso e che rende possibile il mondo, dapprima il formarsi degli elementi e del pianeta, poi il sorgere della vita, dell’intelligenza, della libertà, infine di quella libertà che si dedica gratuitamente a un’altra libertà e così raggiunge la pienezza dell’amore. L’amore esprime la logica della relazione che fa sì che le cose esistano, dato che non esiste nulla che non sia ontologicamente un sistema e in quanto tale risultanza di relazione e di armonia.

 L’esito più alto del processo cosmico in cui siamo inseriti si chiama mente, pura energia di consapevolezza, e si chiama anche cuore, pura energia operativa che riproduce la medesima dinamica di armonia all’origine dell’esistenza. Mente + cuore: questo è il risultato più alto del processo cosmico. Questo possiamo essere noi: una mente che sa e un cuore che ama. Questo va insegnato ai bambini e ripetuto ai giovani, e mai dimenticato fino all’ultimo giorno dell’esistenza. La sorgente della speranza è la consapevolezza della (possibile) ricchezza della nostra umanità.

 Questa forza cosmica ci riguarda in quanto oggetto, perché ne siamo il risultato, e ci riguarda in quanto soggetto, perché possiamo a nostra volta esercitarla. Essa è la dimensione generatrice dell’essere, che gli antichi greci chiamavano Logos e l’ebraismo Hochmà, seguendo la quale ognuno di noi da caos può diventare mondo. Lo può diventare anche nel senso dell’aggettivo, mondo cioè nel senso di pulito. Inserito in questo processo, ognuno di noi può essere mondo: lo può essere nel senso del sostantivo che rimanda a organizzazione e nel senso dell’aggettivo che rimanda a pulizia. Il senso dell’esistere viene così compendiato dal termine greco per mondo, “cosmo”, da cui cosmesi: il senso della vita è fare esperienza di bellezza, fisica e morale. Si può ragionevolmente sperare in tutto ciò? Si può. Anzi, oggi si deve, e si deve insegnare a farlo, se non vogliamo naufragare nel nichilismo.


 I problemi di oggi sono tali da sfiduciare chiunque eserciti il raziocinio: la guerra mondiale sempre più incombente il cambiamento climatico sempre più devastante, le migrazioni sempre più massicce, la tecnologia sempre più padrona delle anime, e si potrebbe continuare. Ma, annotava Hannah Arendt, «negli uomini esiste un’inclinazione, forse un bisogno, a pensare al di là dei limiti della conoscenza». È a causa di ciò che si origina la speranza, da sempre connessa all’essenza del pensiero umano. Per Isidoro di Siviglia, un dotto del VII secolo esperto di etimologie, il termine latino “spes” viene da “pes”, piede; fondata o no, l’etimologia è suggestiva: la speranza è ciò che fa camminare nella vita. Senza speranza non si cammina. La speranza, infatti, è performativa: occorre sperare per realizzare. Lo vide già Eraclito: «Se uno non spera, non potrà trovare l’insperabile». Speranza e fuoco, fiducia e tecnica, sapienza e scienza, devono tornare a essere strettamente connesse nella società e ancor prima nella singola esistenza. Quanto a tecnica, non siamo mai stati così forti. Se ritroveremo una speranza alla sua altezza, forse riusciremo a rivedere la nostra stella e a «non fallire a glorioso porto».

La Stampa

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