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di Giuseppe Savagnone
Un
quadro allarmante
I
dati offerti dall’ultimo rapporto Invalsi sulla scuola non dovrebbero allarmare
solo gli “addetti ai lavori”, ma tutti coloro che hanno a cuore le sorti della
nostra società.
Conclusa
finalmente l’emergenza Covid, quest’anno le prove organizzate dall’Istituto
Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di
Formazione hanno coinvolto più di 12mila scuole per un totale di oltre un
1.000.000 di allievi della scuola primaria (classe II e classe V), circa
570.000 studenti della scuola secondaria di primo grado (classe III) e oltre
1.000.000 di studenti della scuola secondaria di secondo grado. Si tratta,
dunque, di un test più che significativo.
Sono
particolarmente impressionanti i risultati registrati alle superiori, dove, in
italiano, il 49% degli studenti (addirittura un punto in più rispetto al 2022)
non è riuscito a raggiungere almeno il livello base. Nel 2019, prima del Covid
e della didattica a distanza, l’insufficienza aveva riguardato il 36% dei
ragazzi. In matematica a non raggiungere il livello base sono stati il 50%
degli studenti. Nel 2019 erano stati al 39%.
Insomma,
la metà degli studenti che terminano le scuole superiori non è in grado di
comprendere ciò che legge, né di esercitare sufficientemente le capacità
logiche richieste dalla matematica.
Né,
stando al rapporto, c’è da guardare con fiducia al futuro, perché le cose non
vanno certo meglio ai primi gradi dell’istruzione. In II primaria i risultati
di italiano e di matematica sono più bassi di quelli registrati nel 2019 e nel
2021 e, sostanzialmente, in linea con quelli del 2022. In V primaria i
risultati del 2023 sono più bassi di quelli degli anni precedenti, compreso il
2022, in tutte le discipline.
Un
ulteriore motivo di allarme deriva dal fatto che il panorama è tutt’altro che
omogeneo sul territorio nazionale: in italiano i divari tra le diverse aree del
Paese, specialmente tra Nord e Sud, raggiungono i 23 punti percentuali, in
matematica addirittura 31 punti. Le scuole dell’Italia settentrionale riescono
in generale a mantenere livelli in linea con i più importanti paesi europei.
Sono quelle del Sud a ritrovarsi confinate in fondo alla classifica.
«L’Italia»,
ha commentato preoccupato il ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara,
«è divisa in due, con ragazzi del mezzogiorno fortemente pregiudicati nelle
opportunità formative e occupazionali rispetto agli studenti di aree più
avvantaggiate del Paese». Un dato che dovrebbe far riflettere chi, come lui e
il governo di cui fa parte, ha appena approvato il progetto dell’autonomia
differenziata, sostenendo che da essa trarranno beneficio anche le regioni
meridionali…
Un
problema culturale di fondo
Ma
il problema che emerge dal rapporto Invalsi è ben più radicale. A monte di
questi risultati c’è una società in cui le nuove generazioni vengono allevate
mettendo loro in mano, spesso fin dalla più tenera età, uno smartphone che le
pone in diretta comunicazione con il mondo circostante, senza limiti,
attraverso una fantasmagoria di immagini da cui le loro menti vengono plasmate
senza la fatica della comprensione intellettuale richiesta dalla scrittura.
La
comunicazione scritta, fondandosi su simboli che rimandano a referenti
esistenti nella realtà, esige, da parte di chi la usa, lo sforzo di decifrare
il senso sia delle singole parole, sia del testo nel suo insieme, per operare
questo collegamento. Quella virtuale no. Ci si può fermare al simbolo come se
fosse la realtà, perché esso ne simula perfettamente le forme visive e sonore,
anzi, nelle realizzazioni tecniche più avanzate, anche quelle tattili.
In
questo mondo dove il confine tra l’essere e l’apparire viene cancellato, la
mediazione dell’intelligenza – che ancora in un recente passato era
indispensabile per capire i segni impressi sulla pagina di un libro o di un
giornale – diventa superflua. Si viene “informati” – nel duplice senso “venire
a conoscenza” e di “ricevere una nuova forma” – senza necessariamente arrivare
al concetto di ciò che si è ricevuto.
È
in questo contesto che si è affermata ormai, a livello planetario, l’idea di
una “post-verità” che non “vera”, nel senso tradizionale di “corrispondente
alla realtà dei fatti”, ma neppure “falsa”, perché è essa stessa, in qualche
modo una “realtà”, anche se solo “virtuale”, anzi è l’unica che si impone immediatamente
e quindi, a livello sociale, è quella che conta. Come ha scritto profeticamente
Nietzsche, «il mondo vero è diventato favola». E questa favola affascina e
avvolge tutti, esonerando dalla fatica della ricerca.
Da
qui la sempre maggiore difficoltà delle persone, soprattutto dei giovani, di
accostarsi alla lettura di giornali e di libri. Le tirature dei grandi
quotidiani cartacei sono dimezzate e le loro edizioni online si fondano,
inevitabilmente, sui nuovi criteri comunicativi, dando più spazio alle immagini
e ai titoli ad effetto che allo sviluppo logico degli argomenti. Mentre la
comunicazione si estende sempre di più su Internet, la gente legge sempre di
meno.
E,
quando lo fa, ovviamente, ha più difficoltà a capire quello che legge. Lo si
vede sui social. Tutti vogliono dire la loro, perché credono di aver compreso
meglio degli altri il senso di una notizia o di un articolo. E senza dubbio ne
hanno diritto, perché il valore della democrazia sta proprio nella
partecipazione. Il guaio è che, quando si scorrono i commenti che a decine e a
centinaia si rovesciano sulla rete, si scopre che essi non esprimono pensieri,
ma stati d’animo, per lo più aggressivi, che prescindono dal reale contenuto di
ciò a cui vorrebbero riferirsi.
È
il dramma del populismo, che è nato dalla giusta esigenza di superare la logica
discriminante della casta, contestando l’arroganza dei “professoroni”, e che
però, ovunque si è affermato – in Italia come negli Stati Uniti – ha dato luogo
a un pauroso impoverimento della cultura politica sia a livello della classe
politica sia a quello della base elettorale.
La
scuola non fa che registrare questa crisi. Ma, quel ch’è grave, non riesce a
fronteggiarla. Come non ci riesce, del resto, la famiglia. Queste due tradizionali
agenzie educative sono in realtà travolte da stili diffusi di comportamento di
cui non sono più in grado di controllare le derive. Il professore che cerca di
frenare l’uso del cellulare può riuscirci, se è molto determinato, all’interno
della classe.
Ma
ormai – anche per gli adulti – lo smartphone è diventata una protesi da cui non
si riesce a fare a meno. E gli sviluppi dell’intelligenza artificiale – con
l’avvento della chatGPT – lasciano prevedere il progressivo radicalizzarsi di
questa dipendenza. Avrà ancora un senso leggere, quando al posto nostro lo
potrà fare una macchina in grado di consultare una quantità sconfinata di fonti
e di elaborarne una sintesi in tempi brevissimi?
Un
analfabetismo emotivo
Da
questo progressivo analfabetismo conoscitivo ne deriva oggi sempre più spesso,
tra i giovani, ma anche tra gli adulti – uno che riguarda la loro vita emotiva.
Osservatori autorevoli del mondo giovanile parlano, come Umberto Galimberti, di
un malessere profondo che colpisce le nuove generazioni e «penetra nei loro
sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca
la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui».
Oppure,
come Massimo Recalcati, denunciano lo scadimento dell’eros in un gioco di
pulsioni immediate quanto superficiali e alla fine deludenti, nel quadro di un
consumismo di massa che non prevede la profondità, la forza, la pazienza
dell’autentico desiderio, ma si sfoga volta per volta su ciò che si trova a
portata di mano, in una «consumazione dissipativa della vita».
Incapaci
di una riflessione che sappia affrontare la distanza tra segni e realtà,
come nella logica della scrittura e
della lettura, prigionieri dell’immediatezza degli stimoli che li sollecitano
nell’«attimo fuggente», dando loro l’illusoria percezione di una libertà solo
apparente e di una autenticità che in realtà è solo superficialità, tanti
giovani finiscono per ritrovarsi, come ha scritto su «La Repubblica» Michela
Marzano – a proposito della ragazza che
ha accusato di stupro il figlio di La Russa – , «persi, e fragili, e
disperatamente alla ricerca di un punto di appoggio, di un qualcosa cui
aggrapparsi».
Dove
però sembra sfuggire alla intelligente analista, come per la verità alla
stragrande maggioranza dei commentatori di questa squallida vicenda, che non
basta a questo punto deprecare – giustamente – questo, come tutti gli altri
casi di violenza sessuale, ma bisogna lavorare a cambiare il contesto culturale
e psicologico in cui si verificano e che
li rende, malgrado le reiterate condanne, sempre più frequenti.
Di
fronte al nuovo mondo del virtuale che ci incalza, dobbiamo ritrovare le
motivazioni e il coraggio di educare i giovani al gusto di leggere e
all’impegno di pensare, incoraggiando il ricorso alla riflessione e alla
ricerca del significato e della verità. Da questo può loro derivare anche un
diverso atteggiamento esistenziale, più favorevole a scelte veramente libere,
perché consapevoli.
La
scuola è sicuramente il luogo più adatto per questo sforzo. Ma non deve essere
lasciata sola. Mai come oggi è necessaria una alleanza educativa tra le diverse
agenzie coinvolte nella formazione delle nuove generazioni – a cominciare dalla
famiglia – per spingere in questa direzione. Non si tratta di demonizzare gli
smartphone e Internet – la loro utilità è evidente –, ma di orientarne l’uso,
integrandone l’impiego con il ricorso alla lettura di libri e giornali.
È
evidente quanto questo progetto, alla luce di quanto si è detto prima, possa
apparire arduo e perfino utopistico. Ma vale almeno la pena di tentare. Se non
vogliamo che lo smarrimento e la frammentarietà che fanno star male i giovani
di oggi colpiscano al cuore anche quelli di domani.
*
Scrittore
ed Editorialista. Responsabile del sito della Pastorale della Cultura
dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu
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