Non si può avere tutto
dalla vita: è come quando si cucina, nessuno lo fa mettendo tutti gli
ingredienti insieme.
Bisogna selezionarli per dare un sapore
preciso al piatto».
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di Vito Mancuso
Possiamo
fare tutto, dire tutto, sperimentare tutto: vestirci di lustrini per andare a
fare la spesa e praticare l’amore “liquido”, magari rivendicando bellamente la
nostra “fluidità”; andare in Australia in poche ore e discettare di materie che
non ci appartengono neppure un po’, eventualmente senza dover rendere conto a
nessuno delle scempiaggini che abbiamo lasciato ai posteri sui social. Ma siamo
davvero liberi?
In
pochi possono rivendicarlo davvero: non concede sconti alla realtà Vito
Mancuso, teologo ed editorialista della Stampa in tour in Puglia in questi
giorni con l’attore Mario Perrotta e la giornalista di Repubblica Cultura Sara
Chiappori con lo spettacolo “Libertà rampanti - Indagine a tre voci sul
concetto di libertà” (ieri al Castello Svevo di Bari, oggi al Castello di
Manfredonia, domani al Parco archeologico di Canne della Battaglia, dopodomani
al Parco archeologico di Egnazia).
Non
è un paradosso, uno spettacolo sulla libertà, in un’epoca in cui il ventaglio
delle possibilità di fare e dire quel che ci pare si estende quotidianamente?
«Bella
domanda, ma al di là di quest’apparenza immediata - ciascuno si muove, si
veste, parla, si atteggia, si determina come ritiene - se scendiamo nella
profondità di noi stessi sappiamo tutti benissimo che si tratta appunto di
un’illusione. La libertà non è fare quel che mi pare, perché così facendo io
cado prigioniero del mio desiderio e di quello che gli altri impongono al mio
desiderio mediante musiche, prodotti e via dicendo. Per questo c’è bisogno di
riflettere su cosa sia davvero quest’esperienza, cominciando a capire che il
primo momento decisivo della libertà si chiama liberazione, ovvero capire di
non essere per nulla liberi: per carattere, per ambiente in cui nasciamo, per
sollecitazioni della società, per il fatto stesso di dover morire… per tutta
una serie di motivi, il primo passo verso la libertà è capire che la libertà
non c’è. Non è a portata di mano, devi appunto scalare, faticare, arrampicarti…
essere rampante, come il Barone del libro di Calvino: finché pensi che libertà
sia andare in giro mezzo nudo e dire quello che ti pare, pratichi solo
un’anarchia selvaggia e vuota».
Libertà
non come desiderio, ma come cessazione dello stesso.
«In
ordine al desiderio ci sono almeno tre scuole di pensiero: la prima afferma che
libertà è non desiderare, appunto - corrente ascetica rappresentata dal
buddismo, prima ancora in Occidente dallo stoicismo, ma pure da molte forme del
Cristianesimo; la seconda, quella che imperversa ai nostri giorni, che teorizza
esattamente il contrario - bisogna seguire ogni desiderio, altrimenti non si è
liberi. Io appartengo alla terza, quella che ritiene il desiderio struttura
imprescindibile della vita umana: noi siamo desiderio e volontà desiderante, e
questo desiderio non può essere soppresso perché verrebbe meno il motore
pulsante della vita, ma neppure essere assecondato in ogni sua forma
espressiva, perché cadremmo suoi schiavi. Quindi bisogna orientarlo,
trasformarlo in aspirazione: I desideri, che sono un fatto naturale, devono
essere vagliati da quell’energia intellettuale speciale che è la coscienza morale.
Vanno valutati, soppesati: ad alcuni va detto sì, ad altri no. Non si può avere tutto dalla vita: è come quando si
cucina, nessuno lo fa mettendo tutti gli ingredienti insieme. Bisogna
selezionarli per dare un sapore preciso al piatto».
Ancora
una volta, dunque, in medio stat virtus.
«Sì,
penso di sì. Ancora una volta credo che quel principio della classicità sia una
luce da seguire».
Come
è cambiato il concetto di libertà dopo la pandemia, che ha messo a dura prova
la nostra resistenza psicologica, ma per certi versi ha peggiorato anche le
nostre abitudini nonostante i proclami “Andrà tutto bene” e “Ne usciremo
migliori”?
«Non
si può rispondere a questa domanda in generale. Ci sono state persone che hanno
approfittato di quel momento per ricalibrarsi, per riorientare la propria
esistenza comprendendo le cose importanti della vita, che poi sono davvero
poche: non farsi rubare il tempo e non distrarsi, per esempio. Poi c’è altra
gente che invece ha già dimenticato tutto ed è diventata peggio di prima: il
fenomeno umano è come sempre contraddittorio, basta camminare per strada per
accorgersi di come esistano persone che denotano educazione, stile e pensiero e
selvaggi, barbari che dimostrano il contrario: è stato sempre così e sempre
così sarà».
Libertà
come scelta del bene, dunque?
«La
libertà è una scala, un processo a livelli. Il primo è appunto la liberazione,
come già detto: dall’ignoranza, dalle catene che ci opprimono fin dalla
nascita. Il secondo e il terzo sono invece libero arbitrio, la cui esistenza è
pure negata da alcuni, e dedizione… Forse la maggior parte di noi non ci
arrivano, ma quelli che optano per il bene comune, sacrificando se stessi,
toccano davvero la libertà, anche quando la scelta è onerosa: pensiamo a quando
il giudice Rosario Livatino rifiuta la scorta dicendo “Tanto mi ucciderebbero
comunque”. Non è mero istinto di sopravvivenza, è dedicare la vita a qualcosa
di più grande e farlo con convinzione: la vera libertà».
Intervista
di Leda Cesari per Il Quotidiano di Puglia
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