i ragazzi da terra
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di Eraldo Affinati
Intervenire
sui ragazzi che sbagliano per recuperarli e farli rialzare da terra è stata una
delle azioni che mi hanno dato più gioia. Era come se, vedendo Claudio, a cui
il giudice minorile aveva assegnato i lavori socialmente utili, studiare i
verbi accanto a Mohamed, mi convincessi della possibilità di rifondare l’essere
umano: sarà pur stata un’illusione, ma se nella vita di un educatore, in mezzo
ai tanti inevitabili insuccessi, non ci fosse anche qualche vittoria, sarebbe
impossibile andare avanti.
Quando l’adolescente esce dai binari il fallimento è già presente, indubitabile e palese: si va dal dirigente scolastico, si convocano i genitori, si prendono i provvedimenti. Il solito teatrino che ribadisce la regola ma non risolve granché: l’ultima volta mi è capitato di sorprendere un paio di ragazzette che si erano accapigliate sulla scalinata della scuola le quali, mentre le autorità, docenti, madri e padri, sentenziavano su di loro annunciando misure punitive, si strizzavano gli occhi di nascosto in segno d’intesa. Le terribili reprobe stavano recitando davanti agli adulti, intimamente divertite per il baccano che avevano suscitato.
È
giusto domandarsi se il voto di condotta deve continuare a far media con le
restanti materie oppure no, tema spinosissimo e particolarmente divisivo perché
contrappone idee pedagogiche alternative, quella precettistica e quella
libertaria, ma forse, specialmente noi italiani, non dovremmo dimenticare ciò
che ci insegnò don Giovanni Bosco col suo “metodo preventivo”. Se provassimo a
ricavare dalla radicale passione educativa del santo salesiano un semplice
prontuario d’uso immediato, filtrato nella sensibilità contemporanea, credo ci
potremmo trovare tutti d’accordo. Bisogna innanzitutto creare un rapporto di
reciproca fiducia fra giovani e adulti.
Puntare sulla qualità della relazione umana. Lavorare a ingranaggi scoperti.
Non mettersi nella posizione del giudice, bensì di una guida. Essere amici e
maestri dei quindicenni che ci sono stati affidati: da una parte stare accanto
ad essi condividendo entusiasmi e sconforti, dall’altra mettersi di fronte a
loro affinché non superino gli steccati e possano accettare le regole della
convivenza civile.
Come possiamo far comprendere al giovane ribelle che il desiderio va governato,
pena lo smarrimento e il delirio? Spesso non basta indicargli la legge da
rispettare: anzi, nel momento in cui si arriva a sottolinearlo con la matita
blu, il limite è già stato oltrepassato. Siamo nei pressi della stazione
finale: lo sguardo per me indelebile di alcuni minorenni reclusi quando, quasi
per sfidarli, gli chiesi: “cosa farete una volta fuori di qui?” e loro
ghignando risposero: “quello che abbiamo sempre fatto.” In molti casi, lo
sappiamo, non si torna più indietro. Conta piuttosto ciò che succede prima: non
solo a scuola, anche in famiglia, nella comunità degli amici e soprattutto sui
social. Ecco perché la pur importante discussione in corso sulla riduzione, per
iniziativa ministeriale, del voto di condotta ai ragazzi di Rovigo che avevano
“impallinato” la loro professoressa, rischia di non cogliere il nucleo
essenziale.
Se poi arrivassimo ad enfatizzarla, rischieremmo di ottenere l’effetto opposto
a quello voluto, come dimostrò una volta per tutte Jean Vigo nel lontano e simbolico
1933 con il suo capolavoro cinematografico: Zéro de conduite, la cui
visione, oggi gratuitamente disponibile in Rete, consigliamo, insieme ai
Quattrocento colpi, di ventisei anni dopo, il primo leggendario lungometraggio
di François Truffaut, agli esperti che si apprestano a modificare i criteri di
valutazione del voto in condotta.
Dovremmo intanto cominciare a smontare le vite parallele che stanno attecchendo
come una vegetazione incontrollata nella psiche dei nostri figli, anche di
quelli che in apparenza non hanno problemi e vanno bene a scuola, ma
sperimentano un rapporto sfalsato con la realtà. E questo non si può fare con
un semplice provvedimento amministrativo.
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