Nel mondo postmediale l’algoritmo vela la comunicazione
I media perdono ogni specificità: da un lato crescono velocità e
precisione, dall’altro la connessione ai dispositivi sociali avviene tramite
processi invisibili
Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo di Ruggero Eugeni I
media dopo la comunicazione. Algoritmi e condizione postmediale che appare
nell’ultimo numero della “Rivista del clero italiano”. Eugeni è professore
ordinario di Semiotica dei media presso l’Università Cattolica di Milano, dove
dirige l’Alta Scuola in Media, comunicazione e spettacolo. Tra i vari
contributi della rivista, diretta da Giuliano Zanchi, l’intervento sul futuro
degli atenei cattolici tenuto dal cardinale José Tolentino de Mendonça,
prefetto del dicastero per la Cultura e l’educazione, a un recente convegno in
Cattolica.
- di Ruggero Eugeni
Alla metà degli anni Ottanta il filosofo francese Félix Guattari
osservava che i media stavano cambiando profondamente volto: fenomeni quali
l’avvento delle radio libere o quello delle reti telematiche (Guattari segue il
caso di Radio Alice a Bologna ed è uno dei primi iscritti al Minitel francese)
segnalano la fine dei mass media e lasciano presagire un nuovo tipo di società
più reticolare, pluricentrica e orizzontale. Lo studioso parla a questo
proposito di una «era postmediale». La morte, avvenuta nel 1992, impedisce a
Guattari di vedere lo sviluppo del Web, che diviene per un certo periodo il
simbolo più evidente di un utilizzo dei media decisamente alternativo a quello
tipico novecentesco.
Non casualmente qualche anno prima, nel 1984, la Apple aveva
lanciato il primo computer domestico Macintosh con un commercial raffigurante
un futuro distopico alla Orwell in cui un Grande Fratello utilizza televisione,
radio e cinema per guidare masse ipnotizzate, ma la cui immagine sullo schermo
viene distrutta da una giovane rivoluzionaria che simboleggia l’inarrestabile
avvento dei nuovi media digitali. E nel 2008 lo studioso americano Henry
Jenkins potrà esaltare varie forme di collaborazione di utenti che unendosi
“dal basso” grazie alla Rete si oppongono con successo al potere delle
multinazionali della comunicazione: un caso per tutti, i giovanissimi fan di
Harry Potter che hanno la meglio sul tentativo della Warner Bros di bloccare le
produzioni amatoriali in base a una antiquata concezione della difesa del
copyright. Il ruolo dirompente e rivoluzionario delle nuove tecnologie della
comunicazione viene peraltro celebrato nelle primavere arabe tra il 2019 e il
2011, all’interno delle quali gli scambi via social media rivestono un ruolo
fondamentale.
Per Guattari e per vari altri studiosi, l’etichetta “postmedia”
rimanda insomma al superamento dei mezzi di comunicazione di massa. Ma Guattari
non è il solo a utilizzare questa etichetta. Nel 1999 la studiosa e critica
d’arte Rosalind Krauss parla in un influente libretto di post-medium era. La
postmedialità possiede però per l’autrice un senso molto differente: Krauss
pensa al superamento dell’estetica modernista, che fonda il riconoscimen- to di
artisticità di un’opera sulla esibizione dei caratteri materiali del proprio
medium: per esempio un quadro astratto esibisce la natura piatta delle forme
pittoriche e non cerca di simulare una profondità tridimensionale come fanno le
ben più banali immagini figurative. Per Krauss l’utilizzo dei media (per
esempio, del video) nel campo artistico costringe a ripensare questo principio
e a superare il principio della “specificità mediale” delle arti (...). Altri
studiosi, quali Lev Manovich e Peter Weibel, osserveranno di lì a poco che
questa nuova fluidità di confini tra media e arte è il segnale di una seconda
fluidità di confini tra gli stessi media; e che questa è a sua volta legata
all’avvento del digitale con la conseguente “convergenza” di media differenti
all’interno del computer come “metamedium”. Il superamento della specificità
mediale modernista sarebbe insomma legato al superamento dei media analogici e
all’avvento dei media digitali.
Non è difficile osservare che tutte queste definizioni di
postmedialità si muovono all’interno di quella che ho definito la terza fase di
sviluppo, quella dei media elettronico-digitali: il superamento dei media cui
alludono è la fine dei media otto-novecenteschi, pensati nei termini di un
modello di distribuzione verticistico dei segnali legato a ragioni politiche
(Guattari), e di una distinzione rigida delle differenti tecnologie coinvolte
(Krauss, Manovich, Weibel). Tuttavia, come ho accennato, questa terza fase, pur
introducendo trasformazioni profonde negli assetti mediali, non mette in crisi
il principio di fondo dei media del passato: la logica è sempre quella di una
infrastruttura di circolazione dell’informazione che consenta il dispiegarsi di
progetti di comunicazione. Che si tratti di un film, di una conversazione in un
social, di una installazione artistica, il flusso dei segnali è funzionale alla
manifestazione e alla condivisione di differenti interiorità (oppure alla sua
percepita difficoltà o impossibilità). A partire da qui, si comprende come la
svolta algoritmica introduce una logica differente e quindi costringe a
riformulare la definizione di postmedialità in un senso molto più radicale.
All’interno della condizione che si è creata negli ultimi
quindici anni circa, infatti, l’informazione si affranca dalla comunicazione
per sviluppare processi del tutto autonomi di elaborazione automatizzata dei
dati (ripulitura, confronto, estrazione, integrazione e fusione, etc.). Certo,
a monte di tali processi ci sono dispositivi di rilevazione visuale e sonora
simili a quelli dei media: telecamere, microfoni, etc. Tuttavia, essi ricadono
ora nella più ampia categoria di sensori; e i sensori possono non essere
dispositivi di ripresa tradizionali: per esempio alcuni modelli di telefonini,
varie consolle di videogioco, le automobili a guida autonoma utilizzano oggi
ampiamente il Lidar, un radar a raggi laser che costruisce una rappresentazione
digitale tridimensionale del mondo di tipo non fotografico. E certo, a valle
dei processi di elaborazione dei dati ci sono ancora delle immagini: per
esempio il mio volto che appare sul mio telefonino e consente eventualmente lo
sblocco del dispositivo. Ma anzitutto questa apparizione visuale non è
necessaria: se la sliding door in aeroporto riconosce che l’immagine del mio
volto è la stessa di quella sul mio passaporto si apre, ma senza che nessuna
immagine fisica del mio volto venga manifestata; e poi, una enorme serie di
processi resta non visibile e non udibile: per esempio non mi accorgo (se non
perché devo dare il mio consenso per il suo utilizzo) che il telefonino ha
prelevato l’impronta facciale del mio volto e l’ha trasmessa a una piattaforma
social.
Questo affrancamento dei processi di elaborazione delle
informazioni dai processi di comunicazione presenta mi sembra due conseguenze
fondamentali (...). In primo luogo, i media continuano a operare come entità
socialmente individuabili (il cinema, la radio, la televisione, i nuovi media,
etc.), ma in realtà essi fanno ormai parte di una nuova galassia molto più ampia
costituita dalla produzione, estrazione, accaparramento, elaborazione,
commercio etc. di dati. Questa economia non è del tutto nuova, perché ogni
società ha sempre rappresentato se stessa in termini informazionali (di tipo
censuario, economico, statistico, etc.). Ciò che oggi cambia e che costituisce
una serie di fenomeni inediti è la quantità e quindi il livello di dettaglio
dei dati, la velocità con cui essi vengono aggiornati, e l’accuratezza con la
quale gli algoritmi utilizzano tali dati per produrre previsioni e ipotesi
attendibili sugli andamenti futuri.
I media insomma perdono la propria specificità e si connettono
profondamente da un punto di vista tecnologico e pratico con tutti gli altri
ambiti e dispositivi della vita sociale, civile e politica: oggi dobbiamo
considerare dispositivi mediali i nostri elettrodomestici “intelligenti”, le
automobili e gli altri veicoli a guida autonoma, le telecamere e gli altri
apparecchi di sorveglianza, e così via in una lista tendenzialmente infinita.
Tutti questi dispositivi seguono infatti la stessa logica: estrazione di dati
dal mondo, loro elaborazione e eventualmente loro parziale visualizzazione. In
secondo luogo, e di conseguenza, i media non servono più alla comunicazione.
Questo non vuole dire che essi non permettano ancora di comunicare; ma il loro
obiettivo ultimo è ora differente: il fatto che la elaborazione
dell’informazione si sia affrancato della comunicazione ha trasferito il
baricentro dei processi mediali dalla trasmissione visibile e udibile di suoni,
parole e immagini alla elaborazione non direttamente percepibile dei dati.
L’informazione non è più l’infrastruttura che permette di
comunicare: esattamente all’opposto, è la comunicazione a essere divenuta
l’infrastruttura che consente la estrazione di dati e quindi di elementi
informazionali. I social media sono un esempio evidente di questo
capovolgimento, con la costruzione di reti di relazioni il cui unico fine è la
implementazione dei “doppi digitali” degli utenti. Ora, una simile prospettiva
potrebbe apparire pessimistica, se non terrorizzante. Ma a ben vedere questa
non è l’unica conclusione possibile. La dismissione del legame di dipendenza
tra informazione e comunicazione su cui si sono basati i media libera certo le
valenze della prima assegnandole un maggiore potere; ma al tempo stesso costringe
anche a ripensare la seconda; a interrogarci su cosa intendiamo per
“comunicazione” e quanto il modello che abbiamo fin qui seguito non richieda un
ripensamento. La datificazione dei processi comunicativi ci spinge insomma a
riflettere in termini nuovi su cosa sia la comunicazione, su quali sono i suoi
strumenti, per quali ragioni ci sentiamo chiamati a condividere la nostra
esperienza, e quali mezzi sono i più indicati per farlo.
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