LINGUAGGI DELLA FEDE
E
CULTURA CONTEMPORANEA
Riprendiamo la riflessione di Armando Matteo, «Una fede “adulta”. Linguaggi della fede e cultura contemporanea», che fa parte del dossier della rivista Orientamenti pastorali 6/2023 (cf. qui su Settimana News). Armando Matteo è segretario per la sezione dottrinale della Congregazione per la dottrina della fede e professore straordinario di teologia fondamentale presso l’Università Urbaniana.
Il
crescente ateismo giovanile ha da tempo assunto caratteri generazionali. Non si
tratta più di qualche caso isolato di giovane che, celebrata la cresima, si
allontana dal mondo ecclesiale per ragioni di aperto o sotterraneo dissenso
rispetto a questo o quell’altro punto della dottrina o della morale cattolica;
né le ragioni della disaffezione giovanile all’universo della fede vanno
ricercate nella volontà tipica di chi si trova alle prese con il proprio
cammino di crescita di differenziarsi dall’universo mentale e quindi religioso
dei propri genitori e degli altri adulti della società.
Il punto di rottura è
legato piuttosto alla difficoltà della stragrande maggioranza dei giovani ad
avvistare un qualche possibile significato tra quanto rubricato, lungo gli anni
dell’infanzia e dell’adolescenza, sotto la voce «cristiano» e la propria
ricerca di una risposta il più autenticamente vera alla drammatica e prepotente
questione circa il tipo di persona che, crescendo, si desidera divenire.
Insomma, il difficile
rapporto dei giovani con la fede si concentra intorno al fatto per il quale
tutto ciò che in Chiesa si compie per la loro maturazione spirituale non li
abilita affatto a individuare una risposta convincente alla seguente
domanda: ma cosa significa essere cristiani, quando si cresce, quando
cioè non si è più bambini? È con questo interrogativo che la comunità
credente è oggi chiamata a confrontarsi.
Cuore adulto
A guardare le cose
più da vicino, ciò che in realtà l’ateismo giovanile odierno testimonia è
precisamente la divaricazione sempre più netta tra l’esperienza di vita che il
cristianesimo prospetta e l’esperienza di vita con la quale i nostri giovani
sono confrontati, a partire dai circoli delle piccole tribù familiari
d’appartenenza. In ragione di ciò, con la cresima si tocca ordinariamente un
punto di non ritorno. Il sostanziale fallimento della celebrazione di tale
sacramento registra il fatto che al presente credere alle parole di Gesù e
lasciarsi ispirare da esse non fa più parte dell’ordinario modo di concepire e
condurre la vita, quando si cresce, quando si smette di essere bambini.
Certifica, in sintesi,
che la fede cristiana non trova più alcuna collocazione centrale o quanto meno
rilevante nell’immaginario dell’essere adulto contemporaneo. In fondo, è come
se i giovani e le giovani ci mostrassero che la loro fatica di comporre il
cristianesimo assimilato in parrocchia con le istruzioni di vita ricevute in
famiglia e nel più ampio raggio della società che frequentano (penso qui in
particolare all’esperienza scolastica) – la loro incredulità, in una parola –
ha a che fare propriamente con la testimonianza ricevuta circa le cose che
stanno veramente a cuore ai loro adulti di riferimento e quindi al mondo
dell’adulto in quanto tale. Al quale è naturale che essi aspirino a far parte.
Ebbene, in questo cuore
adulto, oggi, c’è posto per tutto: dalla squadra di calcio non a caso detta del
«cuore» all’auto dei sogni, dalla ricerca di sempre maggiore disponibilità di
denaro all’ossessiva ricerca di restare «sempre giovane», dalla possibilità di
un esercizio della sessualità e della propria capacità di attrazione erotica
senza più alcun limite biologico sino alla smisurata apertura a tutte le novità
che l’apparato tecnologico mette a disposizione dei consumatori odierni, dalla
volontà di non far mancare nulla ai figli al desiderio di tenerli con sé per
sempre. Ecco, in quel cuore, c’è posto per tutto tranne che per l’esperienza
religiosa. Dio, Chiesa, vangelo, peccato, salvezza, preghiera personale, morte,
giudizio, paradiso, inferno, intercessione non fanno più semplicemente parte
del lessico familiare che i giovani frequentano, in quanto non fanno più
semplicemente parte di ciò che sta a cuore degli stessi adulti. Ed è così che
l’attuale cammino offerto dalle parrocchie ai giovani perde di incidenza, non
essendo più a sua disposizione un retroterra di condivisione che ne favorirebbe
una piena integrazione. Se Dio, preghiera, vangelo, carità non sono
importanti per i padri e per le madri dei giovani, è difficile pensare che essi
siano decisivi per questi ultimi in vista della ricerca attorno a cosa
orientare la propria futura esistenza adulta.
D’altro canto, se
l’esperienza cristiana è sostanzialmente estranea al mondo degli adulti, al
quale i giovani naturalmente aspirano ad accedere, per questi ultimi liberarsi
di quell’esperienza diventa un’urgenza del tutto comprensibile. Possono in tal
modo sancire – con la dismissione della fede cioè – l’uscita da quella fase
della vita cui quest’ultima è ormai quasi esclusivamente assegnata: l’età
dei bambini.
Questo è, ad avviso di
chi scrive, il vero snodo della questione del rapporto giovani e fede. Tale
snodo ora conduce – dovrebbe condurre la comunità credente – a porsi più di un
interrogativo circa la cura che essa presta esattamente alla fede degli
adulti, abbandonando per sempre non solo l’idea di un cittadino occidentale
adulto naturalmente cristiano, ma anche l’idea che il cittadino
occidentale adulto sia credente sebbene non praticante. Il
mancato raggiungimento di una fede «adulta», da parte delle nuove generazioni,
trova la sua ragion d’essere allora in un mancato e ancora largamente mancante
investimento pastorale per la fede possibile degli adulti sotto le condizioni
culturali e sociali odierne. È questo il punto a cui i credenti odierni
dovrebbero prestare grande attenzione: solo riuscendo a dare ragione della fede
cristiana agli adulti e alle adulte di oggi, sarà possibile farsi carico del
sempre più vasto ateismo giovanile. È la fede degli adulti che genera la fede
«adulta» dei giovani. Proviamo ad approfondire i punti qui accennati.
La prima generazione
incredula avanza
Sono trascorsi molti anni
da quando chi scrive ebbe sentore che il rapporto delle nuove leve con la fede
cattolica stesse sul punto di una svolta particolarmente significativa. Tali
iniziali sensazioni assunsero poi la forma di una lampante evidenza: quella dei
giovani – ovvero la generazione nata dopo il 1980, i cosiddetti millennials
– era «la prima generazione incredula»; venne così alla luce, nel
2010, il libro omonimo.
Il punto critico di
rottura nei confronti del cattolicesimo delle precedenti generazioni era
rappresentato proprio dal fatto che la disaffezione alle pratiche di fede si
presentava come distintivo di un’intera generazione e non più di singoli o di
una parte minoritaria di essa. Inoltre, c’era ancora da prendere atto che,
dietro quel progressivo allontanarsi dalla regolare frequentazione della messa
domenicale, lo scemarsi dell’interesse per una formazione religiosa che andasse
oltre il necessario per ottenere il permesso per celebrare la cresima e
l’abbandono della pratica di lettura della Bibbia e della preghiera personale,
emergeva il vero nodo dell’intero ateismo giovanile.
Si trattava della fatica
della generazione nata dopo il 1980 a considerare come rilevante per il
personale cammino di accesso all’età adulta quanto – a proposito di vangelo e
di Chiesa – fosse stato appreso durante gli anni di frequentazione delle
parrocchie, degli oratori, delle ore di religione a scuola e delle tante
associazioni e movimenti che compongono il mondo cattolico. Insomma, era in
gioco la fatica di un’intera generazione a trovare risposta convincente alla
domanda: cosa significa essere cristiani quando non si è più
bambini? Ed era per questa ragione – si argomentava – che i giovani
avevano iniziato a non manifestare più alcun interesse per le cose che la
Chiesa compie e dice, quando parla di fede, e che non avevano più alcuna remora
a chiamarsi fuori dalla tribù cattolica.
Come accennato, sono
ormai passati più di dieci anni da quando tutto questo ha cominciato a prendere
forma nella testa di chi scrive. Nel frattempo, ciò che è mutato non è il
paesaggio della religiosità giovanile, quanto piuttosto la conferma empirica
che quel paesaggio è davvero mutato. Numerose, infatti, sono state negli ultimi
anni le indagini sociologiche a livello nazionale e internazionale che offrono
un sostegno a ciò che l’espressione «prima generazione incredula» intendeva e
ancora oggi intende porre all’attenzione della gente di Chiesa. Non sapendo
come comporre ciò che si è appresso circa il cristianesimo durante l’infanzia e
l’adolescenza con la propria urgenza di crescita adulta, i giovani stanno
imparando a vivere senza il Dio presentato dal vangelo e senza l’esperienza di
Chiesa che ne discende.
Piccole atee crescono
Ma non c’è solo questo
aspetto generale della recente disaffezione del mondo giovanile alla fede
cattolica. Vale la pena considerarne almeno altri due. Il primo – davvero
sorprendente, rispetto agli immaginari tradizionali del paesaggio cattolico di
ogni latitudine del nostro pianeta – è quello rappresentato dall’avanzata
dell’ateismo giovanile femminile. Si potrebbe davvero affermare che
la specificità della prima generazione incredula è data proprio dal fatto che
piccole atee crescono.
Le ragazze e le giovani
nate dopo il 1980, in termini generali, non mostrano quasi più alcuna
sostanziale differenza in ordine al loro rapporto con l’universo della Chiesa
cattolica rispetto ai loro coetanei di sesso maschile. A parte una qualche
propensione in più per la preghiera personale, tutti gli altri parametri che
sociologicamente vengono utilizzati per sondare un’esperienza di fede trovano
l’intera generazione dei millennials assestata verso una
decisa disaffezione rispetto alle generazioni precedenti. Ciò si impone in modo
del tutto particolare proprio lungo l’asse rappresentato dalle ragazze e dalle
giovani. Si deve anzi aggiungere che è proprio una tale differenza
«intragenere» a marcare l’attuale paesaggio cattolico. Per questo le nuove
generazioni di donne vanno in Chiesa, affermano di credere e di pregare, si
riconoscono nei valori del cattolicesimo più o meno nella stessa misura dei
loro coetanei maschi.
Chiunque abbia anche la
minima confidenza con gli ambienti ecclesiali sa bene quanto in essi sia
pregnante e massiccia la presenza di donne che partecipano ai riti, che
pregano, che si impegnano nel catechismo e nelle diverse attività di
volontariato, senza dimenticare l’infaticabile e preziosissima opera svolta
dalle suore. Proprio queste ultime sono ora la parte di Chiesa che sta pagando
il prezzo più alto dell’avvento della prima generazione incredula, essendo
sempre di meno e sempre più anziane.
La disponibilità delle
giovani donne a intraprendere la strada di una vita consacrata è, detto fuori
dai denti, ai minimi storici. Non solo. Quasi tutte le parrocchie cattoliche
oggi faticano non poco a trovare giovani donne disposte a impegnarsi nel catechismo,
nelle attività di volontariato, nei diversi servizi che il mantenimento di una
parrocchia o di un oratorio comportano. Anche in questo caso la longevità delle
attuali catechiste e delle signore «impegnate», come si suole dire nella lingua
dei preti, permette di non cogliere in tutta la serietà la questione che
l’allontanamento delle giovani comporta sul livello così elementare, ma non per
questo meno decisivo, della disponibilità a farsi carico – e gratuitamente –
delle attività della Chiesa, non legate al ministero del prete.
Il dato è dunque
particolarmente significativo e in una certa misura può essere registrato anche
nelle realtà ecclesiali di più recente fondazione. Pensiamo qui all’Africa,
all’America Latina e all’India. Se è certamente vero che in questi luoghi la
presenza maggiore nella Chiesa è assicurata proprio dalla componente femminile
della popolazione, è altrettanto vero che, non appena queste donne inizino un
percorso lavorativo, diminuisce radicalmente la loro disponibilità – e forse anche
l’interesse – per la partecipazione alla vita della comunità. Non bisogna poi
dimenticare che è proprio l’ambito lavorativo quello che vede, nei contesti di
antica presenza cattolica, la popolazione femminile giovane più preparata e
disponibile al cambiamento e all’innovazione rispetto a quella maschile.
Il fatto che siano
soprattutto le giovani donne ad aver impresso un carattere generazionale
all’odierno ateismo giovanile riporta la nostra riflessione alla questione
generale già indicata circa l’ateismo giovanile. E la questione è presto
nominata: in quale misura e sotto quali condizioni è compatibile la
fede nel Dio di Gesù con le nuove costellazioni dell’umano che governano la
vita quotidiana contemporanea e che trovano proprio nell’attuale condizione
della donna il loro più chiaro riscontro?
Lo smartphone val bene
una messa
Il secondo dato che
contraddistingue l’odierna relazione delle nuove generazioni con la fede prende
forma dal rilievo per il quale, più recenti sono le indagini che a ogni livello
nazionale e internazionale verificano il rapporto delle nuove generazioni con
l’esperienza della fede, più aumenta la quota di giovani che si dichiarano del
tutto fuori dal mondo della religione senza «se» e senza «ma». Attraversando le
indagini effettuate sulla religiosità giovanile negli ultimi dieci anni in
linea diacronica, si può agevolmente vedere come quella che possiamo definire
la quota di giovani che con convinzione affermano di non avere alcun interesse
per la religione non solo sia in costante crescita, ma che questa crescita
abbia carattere esponenziale.
Una possibile
interpretazione di questo dato è quella per la quale la fetta «più giovane» dei
giovani – quella che qualcuno ha già ribattezzato generazione z o generazione
della rete, riferendosi ai nati dopo il 1995 – acceleri tutti i segnali di
disaffezione alla fede già ben presenti e marcati nell’attuale quota dei millennials avviati
ora all’ingresso nell’età adulta, in breve nei giovani «meno giovani». Insomma,
soprattutto gli attuali adolescenti e ovviamente le attuali adolescenti
esprimono ancora meno interesse per la religione di coloro che li hanno appena
preceduti!
Questa rilevazione in
progress conferma che la fede sta diventando sempre più qualcosa dei
bambini e delle bambine. Più radicalmente, diventa un affare «da bambini»,
legato cioè proprio a quel modo di immaginare e vivere infantilmente il mondo
che poi entra in crisi con l’ingresso dei piccoli nella fase adolescenziale.
Lentamente, ma profondamente, la fede subisce così una profonda riscrittura.
In un tale mondo
«bambino» si crede a Gesù e alla «Madonnina» allo stesso modo in cui si presta
fiducia alla presenza e attività sommamente importanti di Babbo Natale e della
Befana; in un tale mondo si prega con la stessa disponibilità con cui si gioca,
e si partecipa alla messa allo stesso modo in cui si vede la televisione
insieme con i nonni o la babysitter di turno. Lo stesso catechismo, fatto di
disegni, musiche, balli e giochi non si discosta più di tanto dalle mille
attività che caratterizzano l’attuale scuola di base.
Ma c’è di più, in verità.
Si aggiunga infatti che l’età media dei catechisti spesso ricorda più quella
della nonna o del nonno che quella della mamma o almeno quella del papà; si
aggiunga che oggi l’unica maniera riconosciuta universalmente valida dalle
famiglie per richiedere e ottenere dai piccoli un qualsiasi impegno è quella
che passa attraverso la promessa di una lauta ricompensa; si aggiunga ancora la
naturale proiezione in avanti che caratterizza l’essere umano almeno in questo
stadio della sua esistenza, e si avrà che, più cresce nel bimbo il desiderio di
diventare grande, maggiore sarà la consapevolezza in lui di dover abbandonare
tutto ciò che richiama il mondo dei piccoli.
Ed ecco infine il punto
di condensazione del ragionamento: poiché la prima forma di «adultità» è oggi
rappresentata dal possesso personale di un cellulare, quest’ultimo viene quasi
sempre promesso come regalo per la messa di prima comunione. E allora, per
quanto noioso possa a un certo punto diventare il catechismo, per quanto l’aria
che si respira anche di domenica durante la celebrazione della messa quasi per
nulla richiami ciò che potrebbe essere un giorno festivo, per quanto costi un
po’ alzarsi la mattina di domenica per andare in parrocchia, tutto ciò non pesa
quasi nulla se paragonato alla conquista di quel pezzo di mondo adulto che
lo smartphone promesso per la messa di prima comunione
rappresenta. Ed è così che il mondo della fede si configura come del
tutto facente parte di ciò che i bambini fanno quando sono bambini e finché
sono bambini.
Certo, il tono di queste
ultime righe è volutamente ed esageratamente tragicomico; eppure la questione
che intende rilevare è particolarmente decisiva: la fede è una faccenda
ritenuta valida solamente per i bambini e finché si è bambini; la fede non
abita più gli spazi del mondo adulto e per questo coloro che si avventurano già
ora nel terreno dell’adolescenza (alla lettera «tempo per diventare adulti»)
esprimono un crescente disinteresse per la religione, per le questioni che essa
mette in campo e per la sua proposta di vita.
La domanda che sorge
immediata è quella relativa alle cause di un così radicale mutamento che gli
adolescenti e i giovani annunciano sul terreno dell’esperienza religiosa.
Insomma, come è accaduto che la fede sia diventata una cosa specifica solo per
bambini e finché si è bambini, con l’eccezione forse di quell’altra fascia
d’età – quella dei nonni e delle nonne – nella quale in certa misura si
sperimenta pure una qualche forma di rimbambimento?
Eclissi del cristianesimo
domestico
La risposta alle domande
sin qui poste è netta: la cinghia di trasmissione della fede si è rotta. Sì, la
cinghia della trasmissione generazionale della fede si è
progressivamente sfilacciata e quindi definitivamente spezzata. Piaccia o meno,
gli adulti appartenenti alle due generazioni che in modo e peso diverso
dominano oggi il mondo – quelli della generazione dei boomers (1946-1964)
e quelli appartenenti alla generazione x (1964-1970) – non
hanno favorito una qualche forma di testimonianza circa l’importanza di
credere, pregare, leggere qualche testo sacro, il Vangelo per esempio, nei
confronti della loro prole. E questo non perché vi sia stato qualcosa come una
decisione collettiva del ceto adulto contro il mondo della religione; negli
adulti stessi, piuttosto, è la stessa la fede – l’esperienza concreta dell’aver
fede – che è scivolata lentamente via, marginalizzata, rimossa, cancellata.
Le indagini parlano
chiaro. Nelle famiglie, e in ciò che spesso sopravvive o si reinventa delle
famiglie, non vi è più spazio per la preghiera, per la lettura della Bibbia e
infine per discussioni che possano in qualche modo pur lontanamente sfiorare le
grandi domande dell’esistenza umana, dal significato delle diverse età della
vita alla ricerca di ciò che potrebbe permettere la coltivazione efficace della
propria interiorità, dal senso dell’ineluttabile necessità di dover morire a quello
della radicale precarietà della nostra specie.
Sono anni ormai che i
ragazzi e i giovani che vengono al mondo non vedono più negli occhi di mamma e
di papà alcuna traccia della presenza di Dio, non ne vedono più i capi raccolti
in un momento di devota concentrazione, non ne vedono più le mani sfogliare le
pagine della Bibbia, non ne vedono più i piedi indirizzarsi verso la chiesa,
alla domenica, a Natale o a Pasqua almeno, non ne sentono più le labbra
innalzare grida di dolore o inni di riconoscenza verso un Padre che dai cieli
provvederebbe ai figli in terra, e infine non ne sentono più quelle stesse
labbra invocare una qualche divina benedizione in occasione di ricorrenze,
genetliaci, anniversari. È proprio quella degli adulti, in verità, una vita che
ha definitivamente imparato a vivere senza Dio e senza Chiesa, con l’effetto di
codice che è la vita adulta in se stessa a essere sempre più immaginata e
definita a partire da queste due assenze.
Certo, la fede è e rimane
per tutti, giovani compresi, una decisione personale, ma è e rimane una
decisione che respira e si ispira all’aria nella quale si vive. Gli umani non
imparano la vita da soli, non godono di un apparato istintuale completo, non
sono automaticamente abilitati al mestiere di vivere. Gli umani imparano
guardando e guardando imparano: così nasce la possibilità per ogni cucciolo
d’uomo di dare un valore alle cose del mondo e al mondo delle cose nella sua
interezza. E se è vero che gli occhi di mamma e di papà, le mani e i piedi di
mamma e di papà, le parole e i «ritornelli» di mamma e di papà sono la
prima mappa valoriale del mondo, nella stessa misura quegli occhi, quelle mani,
quei piedi, quelle parole, quei «ritornelli» sono la prima mappa teologica dell’universo.
Sono, in una parola, la prima e fondativa cattedra di ciò che ciascuno,
crescendo, deciderà di assumere come metro di misura della propria appartenenza
alla specie umana.
L’ateismo giovanile
odierno si nutre sostanzialmente della morte del cristianesimo domestico e
familiare, dell’eclissi di Dio negli occhi paterni e materni, del venire meno
della loro devozione intima, del loro ritiro dalla partecipazione alla vita
ecclesiale, di quelle scialbe discussioni – che popolano le serate e i giorni
di festa delle piccole tribù familiari – intorno a ciò che veramente conta in
un’esistenza umana degna di essere vissuta.
Inutile girarci intorno:
tra le cose che veramente contano nell’esistenza degli adulti, non c’è spazio
per Dio, per la Chiesa, per il vangelo, per la preghiera, per la devozione. Ciò
che davvero conta per loro è ormai quasi solo la propria posizione
socioeconomica, la propria rincorsa a essere sempre in forma a dispetto della
carta di identità e infine la propria tifoseria sportiva. Chi non vede,
infatti, che in molte famiglie sia proprio l’orario in cui gioca la propria
squadra o quello in cui si disputa una gara di questo o di quel torneo
automobilistico o motociclistico a dettare l’agenda del fu «giorno del
Signore»?
La cinghia di
trasmissione della fede si è spezzata così senza drammi e senza quasi più alcun
rimpianto. Nella misura in cui Dio è gradualmente scomparso dall’orizzonte
della coscienza degli adulti, nati tra la metà degli anni quaranta e la fine
degli anni settanta del secolo scorso, nella stessa misura emerge una figura di
adulto sempre più contraddistinto da un orizzonte di vita in cui Dio non ha più
semplicemente posto. Ed è la figura dell’adulto a cui giocoforza i giovani nel
loro essere in crescita fanno riferimento. Insomma, per i nostri giovani è
praticamente impossibile discernere cosa significhi credere quando non
sono più bambini, proprio perché i termini «adulto» e «credente», «adulto» e
«cristiano», nelle famiglie non si incontrano e incrociano più. I giovani non
sanno semplicemente più cosa sia una fede «adulta»!
Conclusione
Ed è per questa ragione
che, non appena quegli stessi giovani pongono i primi passi fuori
dall’adolescenza e dalla prima giovinezza – insomma intorno all’età in cui si
frequentano le scuole secondarie –, basta loro un nonnulla per abbandonare la
pratica (infantile) della fede: una lezione di filosofia kantiana o
postkantiana, una discussione intorno all’evoluzione, durante un’ora di
biologia, un evento luttuoso, una delusione d’amore, l’ascolto di qualche
divulgatore scientifico e così via… Esperienze come queste non possono non
confermare in loro quanto sino a quel momento avevano già maturato dentro, e
cioè che la fede non è una cosa da adulti. Che la fede non serve, quando
diventi grande. Che non c’è alcuna fede «adulta».
Queste considerazioni ci
riportano di nuovo al tema decisivo della nostra riflessione: è tempo
di farsi carico della fede degli adulti, provando a riscrivere una grammatica
della fede in grado di suscitare proprio negli adulti un rinnovato desiderio di
Dio e di Chiesa. È sempre a loro che i giovani guarderanno per
capire se la fede fa parte o meno dell’abitazione umana del mondo! Per sapere
come quale forma abbia una fede «adulta».
Fonte: SettimanaNews
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