- di Alessandro D’Avenia
La scuola è finita. L’ultimo banco è vuoto. E noi, orfani di
questa postazione che desta sospetti ma che permette di guardare il mondo alla
distanza giusta per metterlo a fuoco e di fare altro quando la noia ci opprime,
adesso vogliamo portarci a casa questo metro quadro di legno scadente, perché è
da qui che si vede chi mente e chi dice la verità, chi è vivo e chi è morto. È
venuto quindi il momento di prendere il banco e farne una condizione del cuore
e della mente, per poi rimetterlo al suo posto ai primi di settembre.
L’ultimo banco in fondo è un ottimo rifugio per chi si sente
nudo di fronte alla vita: non fugge ma partecipa, partecipa ma non è
sottomesso, non è sottomesso ma non si sente superiore, apprende e comprende.
L’ultimo banco è un fragile baluardo per rimanere liberi, non un sotterfugio ma
un rifugio dove tenersi buono il dolore e trasformarlo in pensiero, e mai
barattarlo con la menzogna pur di non sentirne il morso. Non è il banco degli
amici del potere, né di quelli del complotto: non si ha un’opinione su tutto né
tanto meno ragione su tutti.
Da lì si esce quando qualcosa, fuori, ci chiama e possiamo farla
solo noi: un’interrogazione, un bisogno, una domanda... Per questo, sin dai
tempi delle elementari, ho sempre scelto l’ultimo banco come posizione da cui
guardare cose e persone, per rimanere libero di parlare quasi indisturbato e di
cercare la verità.
Ma che cosa è la verità? La domanda fu posta da un politico a un
uomo al banco degli imputati, per lui veramente l’ultimo. E quell’uomo rispose
con il silenzio. Perché? Pilato si indispettì, stupito del silenzio di quel
maestro ebreo che invece di spiegare le cose taceva pur essendo a rischio di
condanna a morte. Non capì che il silenzio è la risposta al potere che «fa» la
verità a suo uso e consumo, credendo che il consenso, la maggioranza, la forza
rendano un’opinione «la verità». Pilato fece come tutti quelli che hanno paura
di perdere il potere: se ne lavò le mani, e mandò a morte un innocente.
Così fa per mantenersi il potere, di qualunque tipo sia
(politico, economico, culturale), anche quello che appare più gentile, tecnico
e colto: il potere non cerca il bene o la verità, ma di durare. Il potere tiene
banco, non ci fa sedere altri. Dall’ultimo banco invece non si ha alcun potere
se non quello di guardare, ascoltare, domandare, studiare, leggere, scrivere,
resistere, tacere...
Dall’ultimo banco si vedono i tramonti e sono sempre diversi, ma
si vedono anche le albe e sono ancora più sorprendenti perché, essendo
sottovalutate dai pigri, esclusive pur essendo gratis. All’ultimo banco si
dipingono tutti i quadri del mondo perché l’arte è il modo che abbiamo di dar
gloria alle cose senza consumarle, come fece Vermeer: «Finché quella donna del
Rijksmuseum/ nel silenzio dipinto e in raccoglimento/ giorno dopo giorno versa/
il latte dalla brocca nella scodella,/ il Mondo non merita la fine del mondo»
(Wisława Szymborska, Vermeer).
All’ultimo banco si leggono libri di nascosto, quando la vita
con le sue rappresentazioni di cartapesta ci annoia. All’ultimo banco si sta in
compagnia di altri che ci finiscono per ragioni diverse: è interessante
ascoltare la loro storia e scoprire che è un capitolo non ancora letto della
propria. All’ultimo banco ti nascondi quando ti prende un dolore insopportabile
che non vuoi far vedere. All’ultimo banco si può anche riposare appoggiando
bene il volto di tre quarti su una mano e chiudendo gli occhi senza che si
veda. All’ultimo banco si può spaziare con lo sguardo fuori dalla finestra
perché il cielo c’è sempre, checché ne dica chi ci informa continuamente sul
mondo, e soprattutto perché la vita è molto più grande di quel che «si dice».
All’ultimo banco ogni tanto si trova qualcosa, dimenticato anche
da chi fa le pulizie, magari un oggetto che ha dentro la vita che gli abbiamo
prestato: ritrovarlo è avere quella vita indietro. A volte si tratta di un
foglio accartocciato con un esercizio non riuscito o una brutta copia, ma
quella apparente sconfitta mostra che è solo quando non riusciamo che la mente
diventa più attenta e il cuore più paziente. Dall’ultimo banco si può suggerire
una risposta a chi non la ricorda, qui infatti si sa che vivere non è essere
perfetti e sempre pronti.
All’ultimo banco ci sono sempre musica e amici, e si scrivono
bellissime lettere d’amore. All’ultimo banco non si è mai soli, ma si coltiva
la solitudine. Dall’ultimo banco si scelgono i maestri, sono quelli che hanno
nelle parole la vita e nella vita le parole. Per tutti gli altri basta aver
compassione e sordità selettiva. Dall’ultimo banco poi si vedono tutti i propri
compagni di viaggio (banchi sono anche quelli dei rematori sulle navi) e
sperare di arrivare tutti insieme in porto: le loro schiene piegate, anche se a
volte non li capisci o sopporti, portano il peso della vita come te. All’ultimo
banco poi si ride senza motivo, quelle risate con le lacrime capaci di lavare
occhi che hanno preso la vita troppo sul serio. Sono altri i banchi che
contano: di chiesa, di Camera e Senato, di credito e d’azzardo... Questo è solo
un vecchio ultimo banco, un banco di prova per scoprire dove la vita aumenta e
dove invece ci viene tolta.
Io questo banco devo portarmelo via per dedicarmi a preparare un
matrimonio estivo e un libro che uscirà al termine dell’estate. Se non lo
vedete più qui in fondo alla pagina del lunedì non vi preoccupate, lo riporto a
settembre. Spero che anche voi ormai ne abbiate fatto un modo di guardare il
mondo, una condizione permanente di curiosità e di grazia. Buon lavoro a tutti
e buone vacanze per quando arriveranno. E grazie per il tempo che avete
dedicato alle parole nate su questo banco che ha un unico scopo: da qui non si
finisce mai di stupirsi e innamorarsi della vita. (E grazie ad Alice e Carlo,
compagni fedeli di questo banco).
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