SE HAI
QUALCOSA
DA DIRE
* Cura, tempo, vicinanza, per una comunicazione che crea legami *
- di Mattia Civico
“Comunicare” è una di quelle parole-contenitore, in cui viaggiano molti significati e molte esperienze. Certamente è un’attività, o forse più propriamente un “legame”, che inizia prima della nostra nascita e prosegue anche oltre l’estremo confine: comunica il bimbo che scalcia nella pancia della mamma e comunica anche la memoria di chi non c’è più. In mezzo la vita, ricca di incontri, parole, silenzi, esperienze.
Innanzitutto, un legame, quindi: comunicare è un’attività che
collega persone, esperienze, informazioni, costruisce comunità, come suggerisce
la radice stessa della parola. Il contrario della comunicazione è l’isolamento
e la solitudine.
La comunicazione ha quindi a che fare con la vita intera ed è
parte di ogni espressione umana. È una attività profondamente relazionale, che
richiede tempo e dedizione, cura e vicinanza. Ha bisogno quindi di un tempo
disteso, e paziente. Richiede lentezza e competenza. È ancora così? Riusciamo a
fare in modo che sia ancora così?
È innegabile che il contesto sia profondamente mutato perché è
avvenuta negli ultimi due decenni una vera rivoluzione: la comunicazione si è
trasferita apparentemente in gran parte su canali e piattaforme che sono alla
portata di tutti e che permettono di raggiungere in breve tempo un uditorio
potenzialmente molto vasto; il piano del virtuale ha sostituito lentamente il
piano relazionale; cresce il totem della legittimità di avere opinioni su ogni
aspetto delle vita e anche oltre, a prescindere spesso dalla competenza e dalla
presenza concreta nella relazione.
La comunicazione si è fatta via via sempre più veloce e sempre
più orientata a creare vincoli al posto di legami: l’obiettivo sembra spesso
persuadere più che accompagnare. Come educatori ne dobbiamo tenere conto,
perché in questo contesto si possono affermare vissuti, emozioni, informazioni
che non sempre aderiscono alla realtà o che non tengono nel dovuto conto il
peso dell’esperienza e della relazione. Si rischia di agire una comunicazione
anaffettiva, che non costruisce legami e quindi rende più fragile l’individuo e
la comunità.
Questo scenario pone l’educazione di fronte a una sfida
bellissima e avvincente. Possiamo scegliere quale piano abitare, dove collocare
le nostre relazioni e quindi su quale terreno coltivare i percorsi di crescita.
Quella che apparentemente è una povertà e una fragilità del
nostro tempo, può diventare la nostra forza, se saremo in grado di rispondere
con fedeltà alle domande che incontriamo. Alla fame di relazioni, alla
solitudine della connessione virtuale, alla contraddizione dei rapporti
immateriali, possiamo rispondere con la concretezza dei nostri corpi, degli
organi di senso concretamente messi nella relazione vitale, generativa e
affettiva. Si è aperta una prateria davanti a noi e possiamo fare quello che
sappiamo fare meglio: stare accanto, ascoltare, giocare, accompagnare alla
lettura critica della complessità in cui viviamo, collegando parole a valori,
esperienze e persone.
Abbandoniamo gli altri piani e gli altri strumenti? Ma certo che
no! Scegliamo di stare nei diversi ambienti della comunicazione con
consapevolezza, facendo attenzione a come e cosa comunichiamo.
Ricordo il monito del saggio: “Parla solo se hai qualcosa da
dire!” Il messaggio era chiaro: comunicazione e competenza sono
strettamente legate ed è bene esporsi a partire dai contenuti, che devono avere
una qualche solidità. Il resto è “aria fritta”. Oggi potremmo dirci “visto che
hai qualcosa da dire, parla!”. La sfida non è tacere, ma dare sempre più voce a
valori e legami, esperienze e contesti di comunità, in cui possiamo
riconoscerci reciprocamente e agire l’educazione, che vive e prende forma solo
nella concretezza della relazione.
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