- - di Laura Bellomi
Se
ci pensate, comunichiamo in continuazione: con le parole, certamente, ma anche
con il silenzio, con il corpo, con i gesti e con i rituali (quanto dicono le
cerimonie!). A volte però dimentichiamo che, prima ancora di dire, comunicare
è ascoltare. Volevo dirti che…ti ascolto. Solo
quando ascoltiamo con le orecchie del cuore siamo in grado di
comunicare, viceversa è un parlarsi addosso.
Comunicare
richiede un’attenzione premurosa e il saper cogliere le parole anche dove non
ci sono.
Cambiano
le persone, il contesto e gli strumenti (vedi Quarta rivoluzione ed educazione), ma l’abc non
cambia: attenzione, cura, attesa, accoglienza sono sempre e comunque i
presupposti di una buona comunicazione. Ogni relazione ha poi un suo
modo unico per parlarsi e tocca a noi trovare le “parole”.
Se a volte sembra di non capire o di non essere capiti, la questione non sono quindi le chat, il web, i social o il metaverso, quanto l’essere sintonizzati su noi stessi e sugli altri. E il decidere che sì, ne vale la pena (talora anche i messaggi whatsapp/facebook possono essere autoreferenti/autocelebrativi o insulsi o ripetitivi o inopportuni!)
È una
fatica buona quella che ci fa comunicare anche quando sarebbe più comodo
isolarsi stando nel proprio recinto. Comunicare è un atto di responsabilità,
oltre che di umanità. Il resto si spiega con una parola: indifferenza.
Abbiamo tutti bisogno di ascolto e di essere ascoltati. Di chiamare e di sentirsi chiamati.
Allora forse oggi è il giorno giusto per un azzardo. Prendiamo il telefono e chiamiamo quel collega, quell’amico, quel parente che non sentiamo da tempo. Così, senza messaggino di preavviso, senza appuntamento. Spiazzante? Provate e mi direte.
Per me, un gesto che
parla.
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