Quando
l'abbraccio dell'amicizia è capace di riempire la vita
«L’abbraccio
è una delle espressioni umane più vere di reciprocità. La mutua e ospitale
apertura a quell’epifania di futuro che è costituita da un volto.
Gli amici lo
sanno bene»
- di José Tolentino de Mendonça *
L’amicizia
è uno dei valori più importanti, ma anche un aspetto della vita così naturale,
e a volte dato per scontato, che raramente ci fermiamo a riflettervi. Lo fa, in
modo tanto diretto quanto poetico, il cardinale José Tolentino de Mendonça,
prefetto del dicastero per la Cultura e l’educazione, nel suo nuovo libro
Amicizia. Un incontro che riempie la vita, in uscita oggi per Piemme (pagine
174, euro 18,90), del quale proponiamo il capitolo iniziale.
Il
filosofo di stirpe rabbinica Martin Buber, che come pochi ha saputo pensare
l’enigma e il significato della nostra umanità, così scrisse: «Il mondo non è
comprensibile, ma è abbracciabile». Con questa frase non si riferiva soltanto
al mondo che è fuori di noi, ma anche al mondo specificamente umano, all’universo
interno, a quella porzione di esperienza e di mistero che nel tempo emerge, con
ogni persona, in modo unico. E allo stesso modo pensò le relazioni e gli
affetti che siamo capaci di intessere. A cominciare dall’amicizia. I limiti
della comprensione hanno a che vedere con il fatto che l’altro rimane altro e,
anche quando ci è più che mai prossimo, non cessa mai di essere irriducibile a
noi. Nell’amicizia questo non è un problema, anzi è un arricchimento. Insegnava
Buber: «Il mondo non è comprensibile». Viene sempre un momento in cui dobbiamo
dirci: “la cosa più importante non è capire”, “la cosa più importante è
abbracciare”, e abbracciare anche ciò che non comprendiamo. Perché la grandezza
dell’abbraccio sta nel suo arrivare, spesso, dove la comprensione non arriva. E
questo perché l’abbraccio, fermandosi al di qua della pelle, accetta la
separazione ontologica che è significata dalla pelle dell’altro. Il capire
postula un’interpretazione esaustiva, sogna una mappa stabile, alimenta la
volontà di decriptare il segreto. L’abbraccio riconosce che esiste una pelle,
da una parte e dall’altra, e che anche nell’intimità questa pellicola si
mantiene. Già Aristotele spiegava, per esempio, che quando noi tocchiamo non
annulliamo quella sorta di intervallo che persiste tra noi e la realtà, un
distanziamento minimo mai sospeso, che ci mette in guardia dal mito della
coincidenza totale e dall’illusione della fusione assoluta. Farci vicini agli
altri non è consumarli, quasi potessimo ridurli a oggetto. Anche quando ci
stringono al petto dei nostri amici, gli abbracci dell’amicizia ci fanno sempre
respirare ampiezza e vastità. È vero che nell’abbraccio tocchiamo dimensioni
importanti dell’essere.
Per
la prima mostra surrealista che fu inaugurata in Europa dopo la Seconda guerra
mondiale, la copertina del catalogo fu affidata a Marcel Duchamp. Questi creò
un’immagine con una didascalia provocatrice: «Prière de toucher». Normalmente
le opere d’arte sono accompagnate dall’avviso di non toccare. Qui, al
contrario, si dice per favore toccate. In quel 1947, quando ci si dibatteva
ancora tra le ceneri del grande conflitto, occorreva un messaggio riparatore,
capace di far dimenticare la segregazione, il filo spinato. Ma è un messaggio
necessario sempre. Tutto sta a vedere in qual modo noi tocchiamo. Nella copia
delle Elegie duinesi che regalò alla poeta russa Marina Cvetaeva, Rainer Maria
Rilke domandava: «Noi ci tocchiamo. / Con che cosa? / Con dei battiti d’ali. /
Con le lontananze stesse ci tocchiamo». Il bello dell’abbraccio è che non vuol
essere una rete per catturare l’altro. L’abbraccio è umile. Intuisce che
possiamo solo avvicinarci, senza tentare di impossessarci dell’altro e nemmeno
di accedere alla sua pienezza. L’abbraccio è accettare di toccare senza
toccare. Per questo l’abbraccio è il momento dell’incontro in cui il contatto
si realizza, ma è anche il momento successivo, quando la separazione viene
assunta come forma profonda di comunione. Un maestro discreto della nostra
contemporaneità, il pensatore Jean-Louis Chrétien, entra nel tema con queste
parole: «L’abbraccio che non si richiude sull’altro, ma si apre a lui secondo
un’infinità che l’altro può scoprire, questo abbraccio è un incontro. E, lungi
dal concretizzare inadeguatamente ciò che l’incontro aveva promesso, mantiene
la sua promessa in questo modo: promettendo sempre di più, in una
sovrabbondanza che nessuna progressione è in grado calcolare e ancor meno di
quantificare».
L’abbraccio
è una delle espressioni umane più vere di reciprocità. La mutua e ospitale
apertura a quell’epifania di futuro che è costituita da un volto. Gli amici lo
sanno bene. Qualcuno dice che il nostro corpo ha la forma di un abbraccio. È
forse per questo che l’atto di abbracciare è così semplice, anche quando
dobbiamo percorrere un lungo cammino. L’abbraccio ha una forza espressiva
incredibile. Comunica la disponibilità a entrare in relazione con gli altri,
superando il dualismo, facendo cadere armature e resistenze, manifestando un
cedimento, anche solo per qualche istante, nella difesa dello spazio
individuale. Esiste una tipologia vastissima di abbracci, e ognuna di esse
insegna qualcosa di quello che un abbraccio può essere: accoglienza e commiato,
congratulazioni e lutto, riconciliazione e gesto di cullare, affetto tra amici
o passione amorosa. Vi ci riconosciamo tutti: in abbrac-ci quotidiani e
straordinari, abbracci drammatici o trasparenti, abbracci inondati di lacrime o
di puro giubilo, abbracci di persone vicine o distanti, abbracci fraterni o
innamorati; in abbracci ripetuti oppure – anche questo è possibile – in
quell’unico e idealizzato abbraccio che mai è arrivato a realizzarsi ma al
quale interiormente ritorniamo innumerevoli volte. In principio fu l’abbraccio,
se pensiamo al grembo che nella prima infanzia ci nutrì. Questa è stata per noi
la prima e riconfortante forma di comunicazione. Ma il bisogno di un abbraccio
accompagna la nostra esistenza fino alla fine.
L’abbraccio
è una lunga conversazione che si fa senza parole. Tutto quello che deve essere
detto viene sillabato nel silenzio, e accade allora una cosa che è talmente
preziosa e, in fin dei conti, talmente rara: senza difese, un cuore si pone in
ascolto di un altro cuore. «Nel tuo abbraccio io abbraccio ciò che esiste, / la
sabbia, il tempo, l’albero della pioggia, / e tutto vive perché io viva»,
assicurano i versi di Neruda. Nel loro abbraccio aperto gli amici condividono
una preghiera. Che può forse essere trascritta con parole come queste: «Grazie,
Signore, per gli amici che ci hai dato. Gli amici che ci fanno sentire amati
senza un perché. Che hanno il loro modo speciale di farci sorridere. Che sanno
tutto di noi chiedendoci così poco. Che conoscono il segreto delle piccole cose
che ci rendono felici. Grazie, Signore, per quelle e quelli senza cui il
cammino della vita non sarebbe lo stesso. Che ci sostengono anche quando il
mondo sembra un posto insicuro. Che con la loro presenza ci infondono coraggio.
Che ci sorprendo-no di proposito, perché trovano che troppa routine non sia una
cosa buona. Che ci fanno vedere un altro lato delle cose, un lato fantastico,
diciamolo pure. Grazie per gli amici incondizionati. Che non sono d’accordo con
noi e rimangono con coi. Che aspettano per tutto il tempo che serve. Che
perdonano prima delle scuse.
Queste
e questi sono i fratelli e le sorelle che scegliamo. Coloro che metti al nostro
fianco per restituirci l’aerea luce della gioia. Coloro che fanno scendere fino
a noi l’imprevedibile del tuo cuore, Signore». «Il mio amico non è altro che la
metà di me stesso», scrisse il gesuita e studioso Matteo Ricci (1552-1610), che
sull’amicizia elaborò una straordinaria antologia di detti. Quella che può
suonare come una definizione astratta acquista la sua trasparenza tangibile in
un abbraccio. Quando gli abbracci si allacciano, incorporiamo e siamo
incorporati nel cuore l’uno dell’altro, come se nel cuore dell’amico noi
avessimo un nido o una patria. In questo abbandono consenziente si esprimono
certezze che ci sono estremamente care: reciprocità, gioia, tenerezza,
presenza, l’incontrarsi e il ritrovarsi, la comunione. L’istante dell’abbraccio
le dichiara tutte d’un sol getto, ed è come se le sigillasse nella nostra
anima. Per questo l’abbraccio non è solo un legame, una pausa in cui il respiro
riposa: è anche un trampolino che ci proietta là dove, senza la fiducia e
l’ispirazione di quanti ci amano, non sapremmo arrivare.
Con
la sua vita e la sua morte, Gesù di Nazaret è sceso ad abbracciare tutti i
nostri silenzi, anche quelli abissali, anche quelli remoti, per ridire la vita
come possibilità di salvezza. Ha abbracciato il silenzio delle nostre impasse,
di ciò che in noi o di noi viene taciuto; il silenzio in cui le nostre forze
collassano e ci lasciano alla mercé della paura e dell’ombra che ci assediano;
quell’impreciso e intimo silenzio che troppe volte ci appare irrisolvibile, il
silenzio di quell’inquieta indefinizione che siamo noi, tra il già e il non
ancora. Ha abbracciato questo tempo impastato di sconfitte e speranze, questo
tempo che fa male come una spina che rimane dopo che la rosa è stata colta,
questo tempo marcato da tempeste che ci abbaiano furibonde e da naufragi che
attaccano, pronti a farci a pezzi. Ha abbracciato il silenzio della vita nuda,
vulnerabile, indifesa o ferita, la vita che nessuna città accoglie, la vita bloccata
dal filo spinato delle frontiere, impietosamente marchiata per essere avviata
allo scarto. Ha abbracciato il silenzio di tutte le vittime della storia, il
terrificante silenzio dell’ingiustizia, la lama cieca della violenza, il grido
senza voce degli esclusi, il silenzio imposto ai poveri, l’ultimo sguardo,
immenso e silente, che i giusti gettano sulla terra. In verità, non c’è niente
e nessuno che Gesù non abbia abbracciato o sia disposto ad abbracciare.
L’amicizia di Gesù ci ricorda che Dio mette una virgola dove noi credevamo
possibile solo un punto finale.
* Prefetto del Dicastero per la Cultura e l'Educazione
(©
2023 Mondadori Libri S.p.A. per il marchio Piemme. Per gentile concessione di
Mondadori Libri S.p.A.)
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