* In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «37Chi ama padre o
madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è
degno di me; 38chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di
me. 39Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la
propria vita per causa mia, la troverà. 40Chi accoglie voi accoglie me, e chi
accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41Chi accoglie un profeta perché
è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è
un giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42Chi avrà dato da bere anche un solo
bicchiere d'acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in
verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Commento di Enzo Bianchi
Il
brano evangelico di questa domenica contiene l’ultima parte del discorso
missionario rivolto da Gesù ai suoi discepoli, ai dodici inviati ad annunciare
il regno dei cieli ormai vicino (cf. Mt 10,7) e a far arretrare il potere del
demonio (cf. Mt 10,1). Diverse parole di Gesù sono state raccolte qui da
Matteo, parole dette probabilmente in circostanze diverse ma che nel loro
insieme determinano il contenuto e lo stile della missione, e preannunciano
anche le fatiche e le persecuzioni che i discepoli dovranno subire, perché
accadrà loro ciò che Gesù stesso, loro maestro e rabbi, ha sperimentato (cf. Mt
10,24-25).
Ma
cosa mai potrà dare al discepolo la forza di resistere di fronte a ostilità,
calunnie, contraddizioni che minacciano anche le relazioni più comuni e
quotidiane, quelle familiari? L’amore, solo l’amore per il Signore! Ecco perché
Gesù ha fato risuonare delle parole forti, che ci scuotono: “Chi ama padre o
madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è
degno di me”. Questa sentenza di Gesù può sembrare innanzitutto una pretesa
inaudita e irricevibile, ma è una sua parola autentica che va compresa in
profondità. Gesù non insinua che non si debbano amare i propri genitori o i
propri figli – come d’altronde richiede il quinto comandamento della legge
santa di Dio (cf. Es 20,12; Dt 5,16) – e neppure esige un amore totalitario per
la sua persona, ma richiama l’amore che deve essere dato al Signore, amore che
richiede di realizzare la sua volontà. Gesù si rallegra quando ciascuno di noi
vive le sue storie d’amore e quindi sa custodire e rinnovare l’amore per
l’altro – coniuge, genitore o figlio –, ma chiede semplicemente che a lui, alla
sua volontà, non sia preferito niente e nessuno da parte del discepolo.
Seguire
Gesù, infatti, può destare l’opposizione proprio da parte di quelli che il
discepolo ama, può far emergere una divisione, una differenza di giudizio e di
atteggiamenti rispetto a Gesù stesso. In queste situazioni il discepolo, la
discepola, dovrà avere la forza e il coraggio di fare una scelta e di dare il
primato a Gesù, alla sua presenza viva e operante. Sì, va detto con chiarezza:
se i genitori, o chiunque altro sia legato a noi da un vincolo di parentela e
di amore umano, diventano un impedimento alla sequela del Signore, allora
occorre che l’amore di Cristo abbia una preminenza anche sugli amori generati
dal vincolo familiare. Con un linguaggio maggiormente segnato dalla cultura
semitica, abituata a utilizzare immagini più concrete e a farlo attraverso una
lingua ricca di antitesi e di forti contrasti, nel passo parallelo di Luca
queste espressioni risuonano con ancora maggior durezza: “Se uno viene a me e
non odia (cioè, non ama meno di me) suo padre, la madre, la moglie, i figli, i
fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”
(Lc 14,26). Se una persona diventa ostacolo alla nostra sequela, se contraddice
il nostro amore per Cristo, allora va odiato, cioè non va ritenuto qualcuno che
possa determinare la nostra vita.
Questa
rinuncia dovuta a un’azione di discernimento ha un solo nome – continua Gesù –:
prendere, abbracciare la propria croce, cioè lo strumento dell’esecuzione del
proprio uomo vecchio, della propria condizione di creatura soggetta al peccato
e sotto l’influsso del demonio. Significativamente un discepolo dell’Apostolo
Paolo attualizzerà queste parole di Gesù con un’espressione altrettanto
esigente e forte: “Fate morire le vostre membra che appartengono alla
mondanità” (Col 3,5). Si tratta di rinnegare se stessi, di smettere di
conoscere soltanto se stessi, per conoscere Gesù Cristo e solo in lui anche noi
stessi. Comunicare al mistero della morte di Cristo, perdendo la vita,
spendendo la vita nel fare la volontà di Dio, cioè nell’amore dei fratelli e
delle sorelle in umanità, è imprescindibile per l’autentico discepolo di Gesù.
Come
dimenticare al riguardo, il prezzo della sequela del Signore Gesù pagato dai
cristiani martiri, a causa della persecuzione di Satana, “il principe di questo
mondo” (Gv 12,31; 16,11)? Nella passione di una donna e madre cristiana
dell’inizio del III secolo, per esempio, si legge:
Il
procuratore Ilariano, avendo il potere della spada, mi disse: “Abbi pietà dei
capelli bianchi di tuo padre e della tenera età d tuo figlio. Sacrifica agli dèi
per la salute degli imperatori. Ma io risposi: “Non faccio sacrifici agli dèi”.
Ilariano mi chiese: “Sei cristiana?”. Risposi: “Sì, sono cristiana” (Passione
di Perpetua e Felicita 6,3-4).
Ecco
l’amore per il Signore, preferito a un amore pur legittimo, santo e buono per i
legami familiari.
Certamente
queste parole di Gesù che chiedono di dare il primato al suo amore su ogni
nostro amore non giustificano mai le nostre mancanze d’amore, il nostro evadere
la carità verso i familiari, come Gesù stesso ha detto in polemica con alcuni
farisei: “Mosè disse: ‘Onora tuo padre e tua madre’ (Es 20,12; Dt 5,16), e:
‘Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte’ (Es 21,17; Lv 20,9). Voi
invece dite: ‘Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei
aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio’, non gli consentite di fare più nulla
per il padre o la madre. Così annullate la parola di Dio con la tradizione che
avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte” (Mc 7,10-13). L’amore per
il Signore, dunque, conferma i nostri amori, se questi sono trasparenti,
all’insegna della vera carità e vissuti con giustizia; non è mai totalitario –
lo ripeto –, ma chiede di essere collocato al primo posto. Come dice la Regola
di Benedetto (4,21), “nulla preferire all’amore di Cristo” è ciò che
caratterizza la sequela cristiana, la quale non si esaurisce nell’accoglienza
della dottrina del maestro né nelle osservanze del suo insegnamento: è amore,
amore per lui, il Cristo, il Signore, fino a smettere di riconoscere solo se
stessi o quelli che amiamo naturalmente e con i quali viviamo le nostre
relazioni.
Dobbiamo
essere sinceri: questa istanza decisiva nel cristianesimo è dura, soprattutto
oggi, in un tempo e in una cultura che rivendicano la realizzazione della
persona, che ci chiedono l’affermazione di sé, anche senza o contro gli altri.
Ma le parole di Gesù, che non hanno nessun carattere masochistico o negativo,
in verità ci rivelano che, dimenticando di affermare noi stessi e accettando di
perdere e spendere la vita per gli altri, accresciamo la nostra gioia e diamo
senso e ragioni al nostro vivere quotidiano.
Ai
discepoli in missione, infine, Gesù preannuncia anche che potranno contare
sull’accoglienza da parte di uomini e donne che vedranno in loro dei profeti,
dei giusti, dei piccoli. Costoro avranno una ricompensa grazie al loro
discernimento e alla loro capacità di accoglienza: nel giorno del giudizio,
certamente, ma anche già qui e ora, cominciando a sperimentare il centuplo
sulla terra (cf. Mc 10,30).
Questo
è il radicalismo cristiano! La sequela vissuta nell’amore per Cristo rende il
discepolo degno di stare tra i testimoni del Regno che viene. Il saper non
guardare a se stessi ma tenere fisso lo sguardo su Gesù (cf. Eb 12,2) per
vivere i suoi sentimenti (cf. Fil 2,5) e agire come lui (cf. 1Gv 2,6), è la
sequela cristiana. Profeti e giusti vanno dunque accolti e venerati, ma
significativamente Gesù pone accanto a loro anche i piccoli, quelli sui quali
altrove dice che si giocherà il giudizio finale (cf. Mt 25,40.45). I piccoli e
i poveri, che Gesù ha sempre accolto e confermato nella loro prossimità al
regno dei cieli, devono dunque essere accolti in modo preferenziale dalla
comunità cristiana: anche e soprattutto così si mostra di amare in modo
privilegiato il Signore Gesù! Ma oggi la comunità cristiana è capace di
accogliere i poveri e di rendersi soggetto di magistero ecclesiale? È capace di
rendere vicini i lontani?
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