Da Francesco ad Alda Merini, passando per Dante, Petrarca e quindi Ungaretti e Luzi, Erminia Ardissino ha tracciato un profilo completo dei luoghi dove il confine tra lirica e invocazione si confonde- di Alberto Fraccacreta
Henri Brémond nel celebre saggio Prière et poésie (1925) provò a
stabilire un ponte sicuro di contatto tra mistica ed estetica. Grazie a rugose
suggestioni junghiane (animus e anima), all’elaborazione di una «catarsi»
capace di svelare il «mistero poetico», il critico e gesuita francese diede
dimostrazione dell’«intelligenza intuitiva del cuore» che unisce la dimensione
contemplativa a quella lirica contro un pensiero soltanto logico. Se è vero con
Viktor Emil Frankl che l’homo è sempre religiosus (o anche quaerens, secondo
George Steiner), i due termini in questione – preghiera e poesia, appunto –
divengono le estremità indivisibili di un’endiadi. Ma, nonostante siano state
trattate ampiamente a livello antropologico, sociale e storico, le orazioni
hanno suscitato scarsa attenzione «nel dominio della letteratura», «la meno
studiata, sebbene analizzare le preghiere come testi letterari implichi studiarne
l’estetica, indagare la costruzione del testo, le scelte espositive».
Lo nota Erminia Ardissino nel libro – davvero completo – Poesia
in forma di preghiera. Svelamenti dell’essere da Francesco d’Assisi ad Alda
Merini (Carocci, pagine 488, euro 49), un’indagine d’italianistica divisa in
quattro grandi parti: le origini con il Cantico di san Francesco, la lauda di
Jacopone, i «devoti prieghi» di Dante, i salmi e le preci di Petrarca (in
particolare «Vergine bella, che di sol vestita»); la rinascita che vede al
centro del dibattito Gabriele Fiamma, Vittoria Colonna, Chiara Matraini e il
rosario di Francesca Turini Bufalini; il periodo che va dal barocco
all’Ottocento con le Rime sacre del Tasso, le Divozioni del Marino, le
canzoncine spirituali di Alfonso de’ Liguori, «Manzoni e dintorni» (Tommaseo,
Porta, Belli); e infine la modernità («La preghiera nell’età della morte di
Dio») snocciolata dal quadrilatero Ungaretti, Caproni, Giudici e Merini.
Nelle prime righe dell’introduzione Ardissino scrive con fermezza:
«Tra poesia e preghiera vi sono profonde affinità. Ambedue si pongono sull’orlo
del dicibile e si sviluppano in rapporto a una forza che le suscita e che
interpella l’autore (il poeta o l’orante), muovendo/causando in qualche modo le
sue parole. Il poeta si dice talvolta ispirato (“est Deus in nobis”, scriveva
Ovidio in Fasti 6, 5), posseduto dalla parola; la preghiera è indotta da un
atteggiamento di consapevole presenza davanti a un Dio che l’orante sente di
dover interpellare». Importante è, secondo la studiosa, descrivere
diacronicamente la «tassonomia della forma delle preghiere e della loro
retorica» per dimostrarne la fondatezza letteraria. Ed ecco, allora, che
l’orazione si fa «più interessante quando il destino degli esseri umani è
segnato dal più radicale scetticismo, se non nichilismo, quando il pensiero
umano si scontra con il muro del dubbio e del nulla», proprio come accade con
la tenebrosa scrittura post-Auschwitz.
Dal cadenzato Cantico di frate Sole, «il più degno inizio della
nostra poesia» a giudizio di Gianfranco Contini, alle «lodi paradisiache»
dantesche (con quell’insuperata vetta poetica che è l’orazione mariana
pronunciata da san Bernardo); dallo sperimentalismo salmodico di Fiamma alla
reinvenzione del Pater noster ad opera di Fregoso; dal «puro inchiostro il
prezioso sangue, / vergata carta il sacro corpo exangue» di Gesù nelle Rime
spirituali di Colonna alle «azioni sacre» del Metastasio; dalla Riliggione der
tempo nostro di Belli al «Cristo pensoso palpito» ungarettiano: in ogni
angolino della nostra letteratura è nascosta una perla d’invocazione, di
accorata supplica che riporta la poesia stessa alla sua attitudine originaria:
la parola pura, purificata, l’espressione fatta luce del luziano Viaggio
terrestre e celeste di Simone Martini. Persino l’«ateologia» caproniana (una
teologia “negativa” tutt’altro che atea) va antifrasticamente in questo senso,
specie nel Franco cacciatore e nel Conte di Kevenhüller: «E allora, sai che ti
dico io? / Che proprio dove non c’è nulla / – nemmeno il dove – c’è Dio». Non è
da meno Giudici in Quanto spera di campare Giovanni con un vibrante testo
dedicato alla Vergine del Carmelo: «La cordicella della tua promessa // Che il
primo sabato dopo morto / Discesa a me dagli alti luoghi eletti / Mi riportavi
risorto in paradiso / Stasera è venerdì che cosa aspetti».
Come osserva ancora Ardissino, «nella preghiera troviamo i
valori supremi di ogni civiltà, il senso dei limiti, la precarietà
dell’esistenza umana, la necessità di considerare i confini della libertà
individuale, l’invito alla comprensione degli uni verso gli altri, il rispetto
dell’altro. Poiché pregare significa prestare attenzione all’alterità, comporta
anche dimenticare il proprio ego e desiderare di ascoltare quello che gli altri
hanno da dire, e, soprattutto, conoscersi». La preghiera è, dunque,
un’altissima esperienza esistenziale: esattamente al pari della poesia, sua
gemella, ci mette in contatto con un luogo bachtinianamente ulteriore,
radicalmente diverso dal sé: l’esodo dalle regioni del solipsismo, l’approdo al
territorio dell’exotopia, O alle cadenze fragili di Merini: «Gesù, / sei
certamente un poderoso mantello, / sei una spiaggia illimitata, / [...] sei un
canto, / sei il mio stesso sguardo».
Avvenire
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