a cura di Stefano Zecchi
«La parola è l’elemento
costitutivo di ogni nostra giornata e dell’intera vita umana. La parola è
delicato strumento di tessitura di relazioni, ma può anche distruggere le
relazioni. Dalla parola dipende molto della qualità della nostra vita e dei
nostri rapporti. La parola, poi, è strumento privilegiato del lavoro
psicoterapeutico, del colloquio con il paziente, del lavoro di ascolto ed
empatia. Appunto, la parola si accompagna al silenzio, all’ascolto, attenzione
al linguaggio corporeo, emotivo e affettivo: nella comunicazione gli elementi
corporei si radicano nell’affettività e in un certo modo la esprimono».
Con queste parole inizia
l’ultimo libro scritto da Luciano Manicardi, biblista, autore di
numerosi saggi e monografie, monaco della comunità monastica di Bose, dov’è
stato anche priore.
È da pochi giorni in
libreria il suo ultimo libro “La passione per l’umano”, edizioni Vita e
Pensiero. Come mai questo titolo…e come nasce questo libro?
Questo libro è la raccolta
di sei seminari che ho tenuto nel corso degli ultimi anni presso la scuola di
psicoterapia del Ruolo Terapeutico a Milano. Una scuola che abilita
all’esercizio della psicoterapia dei laureati in psicologia o in medicina e che
integra i programmi ministeriali con qualche seminario o lezione tenuti da
persone che si occupano di altri ambiti e che non hanno competenze
specificamente psicologiche o psicanalitiche. Ogni seminario che ho svolto (e
ve ne sono diversi altri non entrati nel libro) è tematico e corrisponde a un
capitolo del libro, che può dunque essere letto indipendentemente dagli altri:
la parola, la narrazione, la menzogna, l’invidia, la vergogna, la volontà. Il
titolo, La passione per l’umano, fa l’unità tra questi diversi temi dicendo il
legame che sottostà ai vari capitoli: l’interesse per ciò che è umano, il
desiderio di esplorare e conoscere ciò che concerne la condizione umana,
insomma, la passione per l’umano. Questo interesse rientra nella ricerca più
profonda che vi sta dietro: la convinzione, cioè, della necessità di ripensare
l’umano e riscrivere una grammatica dell’umano. Che cos’è “umano”? Occorre
ripensarlo alla luce di quell’inumano che è sempre alla portata dell’umano e di
cui il secolo scorso con la Shoah e Auschwitz ci ha dato l’esempio più
devastante. Ma l’inumano si presenta nel nostro quotidiano ogni qualvolta una
persona è trattata come un oggetto, è disprezzata o umiliata. E l’umiliazione
avviene quando una persona viene considerata e trattata come meno umana di
altre e quando le istituzioni di una società privilegiano alcuni e discriminano
altri creando scarti e rifiuti umani. L’inumano è poi visibile nel discorso
d’odio (hate speech) presente soprattutto nella comunicazione on-line. Ma
l’umano oggi si deve confrontare anche con il postumano. Con il postumano che
sfonda il limite tra uomo e cosa, crea robot senzienti, che con l’Intelligenza
Artificiale crea macchine sempre più umanizzate, dotate di capacità cognitive
fino a rendere pressoché impalpabile l’appannaggio esclusivo da parte dell’uomo
di facoltà che fino a ieri ne definivano lo “specifico”. Quel postumano che,
applicando l’arsenale delle tecnoscienze al campo della biomedicina muta lo
statuto della medicina stessa facendola passare da disciplina che “ripara” i
danni che l’organismo subisce, a tecnica di potenziamento e “aumento” dell’uomo
stesso fino a ipotizzare e perseguire nei movimenti transumanisti l’idea di
amortalità. Ma anche con quel postumano che sta erodendo l’idea di eccezione
umana mostrando come di diversi elementi ritenuti propri dell’uomo si possono
trovare tracce di presenza in altri viventi. Si pensi agli studi di
neurobiologia vegetale portati avanti e anche divulgati da Stefano Mancuso. Un
postumano che, in questo caso potrebbe avere come esito quello di una maggiore
solidarietà e prossimità con tutti i viventi, ispirando una pratica di
convivenza mite con la terra e tutti i suoi abitanti, umani, animali, vegetali,
minerali. Insomma, l’umano, oggi, è una domanda. Domanda complessa, articolata
e che richiede studio, riflessione, pluralità di punti di vista,
interdisciplinarità. In questo contesto nasce il mio libro.
Prima ha fatto cenno ad
una grammatica dell’umano. Che cosa intende con questa espressione?
Intendo anzitutto che la conoscenza dell’umano
non va data per scontata e che esso dev’essere considerato materia di studio:
osservato, compreso, analizzato. Considerando anche le diverse comprensioni
dell’umano nelle differenti culture del mondo. L’esigenza di una grammatica
dell’umano traduce il bisogno di un punto di riferimento, di “regole” o, meglio,
indicazioni, per una pratica dell’umano sempre più volta alla costruzione di
relazioni buone. Ed esprime anche il disagio di fronte a cattive declinazioni,
usi scorretti o depauperati di elementi essenziali del vivere: dal mangiare al
conversare, dal gestire le proprie emozioni al pensare, dal salutare al
viaggiare, ecc. Questo bisogno emerge spontaneo soprattutto quando in una
società si comincia a sentire la mancanza di determinati atteggiamenti o a
constatare lo stravolgimento di alcune facoltà. Per esempio, lo strame che a
volte viene fatto della parola (e spesso anche della lingua italiana) nei
discorsi pubblici e nei dibattiti televisivi, il suo stesso proliferare
nell’informazione non-stop, la sua volgarità e violenza sui social, chiede a
gran voce di ritrovare lo statuto umano della parola, quale strumento per
risolvere, con il dialogo, dunque con la mitezza, le tensioni e i conflitti,
fuggendo la tentazione della violenza. E fa sorgere la nostalgia del silenzio
ricordando che l’uomo non è solo “l’essere che ha la parola”, ma anche
“l’essere che sa fare silenzio”. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare.
I temi trattati nel libro
sono stati scelti in base alle domande che mi suscitavano e anche a seguito
della considerazione delle loro trasformazioni: anche le emozioni e le passioni
hanno una storia e mutano col mutare delle condizioni sociali, culturali,
economiche dei tempi e dei luoghi in cui vengono provate e vissute. Inoltre è
interessante considerare l’uso che di esse viene fatto. Non ho trattato della
paura, ma è sotto gli occhi di tutti il fatto che un’emozione come la paura ha
conosciuto e conosce un uso politico che la sfrutta e la rinfocola per ampliare
la base di consenso per politiche di arginamento e respingimento nei confronti
di persone migranti. Oppure, prendiamo in considerazione la vergogna. Noi
assistiamo a una trasformazione del senso della vergogna. La cosiddetta società
dello spettacolo, la cultura dell’apparire, dell’esibizione, dell’“esisto in
quanto sono visto e appaio”, dell’esse est percipi, connessi con la diffusione
capillare della televisione prima, della rete e dei social media poi, hanno
operato dei significativi mutamenti della vergogna, che è un’emozione che porta
a scomparire, a non farsi vedere, a volersi nascondere. E hanno prodotto
trasformazioni significative anche nel modo di concepirla e viverla. Oggi ci si
vergogna di vergognarsi: “Non ho nulla da nascondere” è il ritornello di chi
ama l’esibizione e non conosce quella custodia dell’intimità e quella riservatezza
che sole proteggono la libertà dell’individuo. Nella società dell’efficienza,
della performance, della prestazione, la vergogna diventa poi anche senso di
inadeguatezza, di non essere all’altezza degli standard richiesti. Così come
vediamo il mutamento della vergogna nell’atteggiamento disinibito con cui
rendiamo pubbliche con i cellulari quelle conversazioni, a volte intime e
personali, a volte inerenti alla sfera domestica o del lavoro, ma in ogni caso
riguardanti il soggetto e le poche persone con cui il soggetto ha a che fare, e
che un tempo facevamo a voce sommessa, a tu per tu. Attingendo alla propria
memoria tutti noi possiamo ritrovare frammenti di conversazioni di perfetti
sconosciuti che ci hanno ragguagliato sui loro progetti lavorativi, sulle
difficoltà relazionali con un famigliare, sui rapporti problematici con
colleghi in azienda, ecc. Vedere le nuove declinazioni, le trasformazioni e gli
usi contemporanei, e a volte dovremmo parlare di deformazioni e abusi, di
realtà antiche come l’uomo (per esempio, come l’invidia e la narrazione) è
un'altra pista seguita in questo libro.
La parola è il primo
capitolo del libro. Oggi siamo sommersi da parole, tante parole, sentiamo
tanto, ma non riusciamo ad ascoltare, a dialogare. Che cos’è veramente
l’ascolto, il dialogo? Riusciamo ad ascoltare noi stessi?
La parola è il primo
capitolo perché ritengo che oggi abbiamo più che mai bisogno di riscoprire
un’etica della parola e di ritrovare una pratica mite e costruttiva, cioè
dialogica, della parola stessa. E poiché i rapporti interpersonali e
famigliari, sociali e politici, nazionali e internazionali, passano in gran
parte attraverso le parole, se noi snaturiamo la parola rendendola
manipolatrice, menzognera, reticente, allora distruggiamo il fondamento su cui
si reggono tutte le relazioni: la fiducia. Ritrovare un’etica della parola
significa rispettare l’altro a cui parlo, la parola stessa e infine me stesso
che parlo e di cui tradirei la dignità se parlassi con l’intento di ingannare e
manipolare. Possiamo dire che la parola vera è quella che non zittisce l’altro
ma anzi gli dà la parola. La parola vera lascia spazio all’altro. La parola
vera non chiude il rapporto, ma lo rilancia. La parola vera ascolta. Dovremmo
ricordare che parlare e ascoltare non sono due movimenti semplicemente
alternati, ma sono concomitanti. Il vero ascolto è eloquente, è parola di
rispetto, di accoglienza, di riconoscimento. La parola vera sa ascoltare:
integra con discernimento quanto l’altro esprime e prosegue nel cammino comune
di costruire insieme un senso. Questo è il dialogo. L’ascolto poi è atto
intenzionale, mosso da una decisione e da una volontà, esige tempo, pazienza,
profonda interiorità, si configura come ospitalità e accoglienza, accetta di
rimuovere i pregiudizi sull’altro e di vederlo con occhi nuovi, accoglie
l’altro così come questi si definisce e si comprende ed esce dalla pigrizia
delle etichette e dalla violenza delle precomprensioni. Nell’odierno contesto
di ipertrofia comunicativa occorre vigilare che non sia proprio la parola la
prima vittima dell’informazione no-stop, veloce, incalzante, senza spazi
intermedi né pause. Soprattutto, il rischio è che le troppe informazioni non
diventino conoscenza e men che meno sapienza, ovvero che non inducano
riflessione, lavorio interiore, ma che strappino la persona da se stessa
proiettandola fuori di sé e rendendola estranea a se stessa. Sul piano
educativo è urgente interrogarsi sull’analfabetismo emotivo che soprattutto nelle
giovani generazioni produce l’incapacità di ascoltare e nominare le proprie
emozioni e i vissuti interiori. Lì, insieme alla parola sincera occorre
riscoprire la ricchezza generativa del silenzio.
Nel corso del libro,
spesso lei fa riferimento a testi letterari. Come mai?
L’approccio a tematiche
così umanamente profonde non può che essere interdisciplinare. Occorrerebbe
avere competenze in svariati ambiti. Tra questi l’ambito letterario è
particolarmente fecondo perché la letteratura – poesia e narrativa – è quello
che con maggiore pregnanza riesce a illuminare le profondità del cuore umano, a
mettere in luce le sue contraddizioni, a presentare senza giudizi i
comportamenti umani e a farne sentire la potenza al lettore. Per dirla con
Milan Kundera, la letteratura non fa che porsi la domanda: che cos’è
l’esistenza umana? Il romanzo La vergogna di Annie Ernaux vale più di tanti
saggi: la forza del testo letterario ti fa sentire l’abrasività interiore della
vergogna e coinvolge il lettore mettendo in moto la sua memoria emotiva e
facendogli provare ciò che la narrazione sta raccontando. Un libro come
L’Avversario, di Emmanuel Carrère, fa sprofondare il lettore, insieme al suo
protagonista, nell’abisso tragico in cui una innocente (?) bugia può
sconvolgere l’esistenza di una persona e portarlo a edificare una vita sulla
menzogna e sulla doppiezza. La letteratura ci insegna la complessità e la
molteplicità dell’animo umano; è uno sguardo plurimo sul mondo e sul cuore
umano, sguardo che l’autore condivide con il lettore, iniziando con lui un
dialogo che potrà condurre il lettore a sentire che ciò che è stato scritto
parla proprio a lui, alla sua situazione esistenziale. Ma forse, faccio spesso
ricorso a testi letterari semplicemente perché amo la letteratura, mi piacciono
i romanzi e la lettura è per me una fonte di gioia.
Ultimamente parlando del
racconto evangelico dell’adultera (Luca 7,36-50), lei ha detto che Gesù vede
l’amore là dove tutti vedono il peccato. Si può tradurlo nella Chiesa di oggi?
Ciò che emerge con
particolare forza in quell’episodio è in realtà sempre presente nelle
narrazioni evangeliche e noi possiamo credere che fosse un tratto singolare e
caratteristico dell’umanità di Gesù: il suo sguardo. Che è ovviamente lo
sguardo del cuore, il modo con cui egli vede gli umani e traduce lo sguardo
divino su coloro che sono stati creati a sua immagine e somiglianza. Si tratta
di uno sguardo sempre abitato da compassione, da pietas, mai da giudizio,
disprezzo o condanna. Gesù non guardava il peccato degli uomini, ma la loro
sofferenza. Nel cieco nato non vedeva un colpevole, come i suoi discepoli, ma
una vittima. Nella prostituta entrata in casa di Simone il fariseo non vedeva
una peccatrice, come i suoi commensali, ma una donna che ha cercato di amare,
che ha molto amato, e non solo mostrando amore generoso e gratuito per la sua
persona, ma forse anche nella sua ricerca caotica di abbracci e di incontri con
tanti uomini. Anche nell’errore e nell’errare la persona resta umana. E
l’ambito del desiderio e dell’amore è quello che maggiormente tocca il nostro
mistero, e anche l’enigma che noi siamo a noi stessi, e ci porta a percorrere
strade che si rivelano dolorose per noi e anche per altri. E poiché l’amore non
è uniforme e non è racchiudibile in un unico schema, le forme dell’amore sono
anch’esse plurali e sempre chiedono alla persona di uscire da sé e di trovarsi
perdendosi nell’altro. Vi è lì la straordinaria vicinanza tra eros e agape,
realtà che vanno certamente distinte ma mai contrapposte. In entrambi vi è
sempre un’affermazione di sé che si realizza nell’abbandono di sé a un altro,
in un altro. Senza nutrire paure dell’amore, della sua creatività, senza essere
ossessionati dalle forme della sessualità, occorre dunque liberare il nostro
sguardo sulle modalità di amore che le persone cercano di vivere cogliendo in
esse la sete di vita, di pienezza, di gioia. Ben sapendo che ciò che si oppone
all’amore e che va condannato è la sopraffazione, la violenza, l’abuso. E anche
sapendo che solo Dio è amore, come ricorda la prima lettera di Giovanni, non
noi umani. Noi possiamo avere amore, possiamo amare, compiere gesti e nutrire
sentimenti di amore, ma non siamo amore. E tuttavia, come ricorda il teologo
Eberhard Jüngel, “dell’amore non dobbiamo mai vergognarci poiché nell’amore noi
partecipiamo con Dio a un unico e medesimo mistero e proprio per questo
possiamo diventare ciò di cui non ci è possibile pensare qualcosa di più
grande: e cioè, non già in alcun modo esseri divini, bensì, sotto ogni aspetto,
esseri umani”.
Il male di oggi è
l’indifferenza. Come trasmettere oggi, alle nuove generazioni la buona notizia,
il messaggio rivoluzionario e salvifico di Gesù?
Il vangelo può essere
narrato solo da testimoni che lo incarnano, o meglio, che tentano di
incarnarlo, che cercano di viverlo. E il vangelo necessita di un soggetto
narrante che sia comunitario. La forza del cristianesimo consiste nella sua
capacità di originare comunità, di spingere persone diversissime a vivere
insieme superando le differenze nell’unità della fede in Cristo. Ma certo, per
dire oggi il vangelo, e non solo alle nuove generazioni, occorre presentarlo
come scuola di umanizzazione facendo emergere la pratica di umanità di Gesù di
Nazaret e mostrando il ben fondato antropologico di ogni parola e gesto della fede
cristiana. Credo che una Chiesa che voglia annunciare oggi il Vangelo debba
presentare e narrare il volto umano di Gesù di Nazaret, l’uomo che ha narrato
Dio. Sempre le immagini di Dio hanno conosciuto inculturazioni differenti
nell’annuncio nelle diverse epoche storiche e nelle diverse regioni
geografiche. Oggi siamo avvezzi all’immagine del Dio trinitario che è relazione
in se stesso; siamo persino abituati all’immagine del Dio sofferente che in
altre epoche cristiane appariva inimmaginabile. Cogliere la dimensione di Gesù
come rivelatore di Dio nella sua umanità ci conduce a vedere i vangeli come
portatori di una parola capace di trasformare la nostra umanità a immagine
dell’umanità di Dio che è Gesù di Nazaret. Questa accentuazione è sì suggerita
dal fatto che per l’uomo secolarizzato, il cui cielo è vuoto di divinità, il
messaggio evangelico è comprensibile - forse - solo come pratica di umanità,
come offerta di una possibilità sensata di vivere l’umano, ma soprattutto,
perché questa ermeneutica che coglie nella fede i vangeli come i testimoni
dell’umanità di Gesù di Nazaret, apre una prospettiva di conversione radicale
per il credente e la Chiesa. Una conversione che ha a che fare non con pratiche
religiose o rituali, ma che riguarda l’umanità stessa dell’uomo: il suo parlare
e agire, il suo rapportarsi al mondo, agli altri e alla natura, il suo guardare
e ascoltare, il suo amare e il suo pensare. Insomma, il suo modo di vivere
quell'umano che è il luogo della nostra immagine e somiglianza con Dio. Lo sguardo
portato sulla pratica di umanità di Gesù come appare in ogni episodio
evangelico, negli incontri che Gesù vive, nelle parole che dice, nei gesti che
compie, nei suoi silenzi, nella contemplazione dei fiori, delle piante e degli
animali, nelle esegesi delle Scritture e nelle invettive contro scribi e
farisei, nella preghiera personale e solitaria, nel perdono all’adultera e
nell’abbraccio ai bambini, nell’attenzione ai lavori quotidiani degli uomini,
dei pescatori, dei contadini, delle massaie, e così via, dischiude un cammino
di conversione estremamente esigente per ogni credente e per ogni comunità
cristiana. Un cammino esigente perché riguarda ogni fibra della creatura umana.
Un cammino che ha lo Spirito come guida e Cristo come fine. Un cammino cosciente
dal fatto che ciò che Gesù ha di eccezionale non è di ordine religioso, ma
umano.
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