NEL
POST-MODERNO
- di Brunetto Salvarani
Dio nel post-moderno
L’idea tradizionale di
Dio espressa dal mondo occidentale, in sintesi, è quella di un Essere che
risiede in cielo (Padre Nostro che sei nei cieli), dato che il cielo è sempre
stato considerato il luogo cosmologico più adeguato ad esprimere la sua
sovranità, inaccessibile ai più. Dio? Un essere onnipotente, creatore del cielo
e della terra, e così via. Ora, la post-modernità non intende direttamente
mettere in dubbio l’esistenza di Dio, quanto discutere delle sue qualità.
Il Dio post-moderno, non
più onnipotente, privato della sua interpretazione metafisica ed esposto al
linguaggio apofatico, fugge da ogni concettualizzazione. Se la teologia
scolastica ha sviluppato la via positiva o analogica che le ha permesso di
affermare qualcosa a proposito di Dio alla luce sia della rivelazione sia della
ragione naturale, aveva anche pensato la via negativa o apofatica per ricordare
che tutte le definizioni non dicono interamente il Mistero. Tuttavia, tale
difficile equilibrio non resiste all’imperialismo della ragione moderna, che
vuole comprendere tutto. Così, il post-moderno sceglie, in reazione a quella,
l’apofatismo per poter pensare il reale senza esaurirne il mistero.
Concettualizzare Dio rischia di trasportare nel linguaggio la nostra idea
metafisica dell’intelligibilità cosmica (è l’idea di Jacques Derrida in
Psyché). Altri autori, invece, sostengono che l’idea del Dio detto nella
filosofia dell’essere è un linguaggio idolatrico, nel senso che imprigiona il
Totalmente Altro nell’essere, definendolo e quasi misurandolo. Occorre, semmai,
il linguaggio iconico che svela e al tempo stesso vela il Mistero, che dice, ma
anche non dice, la differenza del Totalmente Altro. Così Jean-Luc Marion, in
Dio senza essere, opta per la via mistica e la decostruzione di ogni
concettualizzazione di Dio.
Altra caratteristica
dell’idea di Dio nel post-moderno è quella di promuovere il sentimento umano
come luogo di incontro col divino. Si vuole non tanto conoscere Dio, quanto
sentirlo. Questo spiega, ad esempio, il fenomeno carismatico e pentecostale,
così diffuso dentro e fuori le chiese, che privilegia non la comunità o la
religione istituzionale, ma il sentimento privato, l’emozione personale, il
vissuto intimo e caldo. Tale tipo di teologia post-moderna è talora descritto,
come fa Salvatore Natoli ne La salvezza senza fede, quale ripresa della visione
e dell’etica pagana che, preoccupata di sentire la presenza divina come
sentimento che ispira allegria e bellezza, accetta la contingenza come realtà
ultima.
Con tali categorie il
dialogo con i mondi religiosi altri, ad esempio con le tradizioni orientali,
sembrerebbe più agevole.
Ri-pensare l’uomo
Assumere responsabilmente
il segno dei tempi rappresentato dalla cultura post-moderna obbliga, altresì, a
un ripensamento antropologico. L’uomo che era, nella teologia cristiana,
pensato al centro dell’universo, apice della creazione per il linguaggio
conciliare (Gaudium et spes n.12), subisce ora il disincanto del mondo (M.
Gauchet) e la sua umanità non è più riferita al Dio creatore, ma alla propria
identità e realtà che lo circonda. Questa è la solitudine post-moderna
(Z.Bauman). La sacralità e la centralità dell’umano passano oggi al biologico.
Il pensiero olistico ed ecologico, ad esempio, ritiene che la razionalità non
rappresenti più lo specifico umano e ciò che lo distingue dal mondo animale,
poiché l’essere umano è un animale tra i tanti, senza particolari differenze
qualitative. Così la libertà umana, al cuore della riflessione
dell’antropologia teologica tradizionale, in tempi post-moderni è riletta a
partire da forze e spinte che, se non la negano, certo la determinano. Smette
di essere assoluta: l’identità umana è rimessa in discussione.
La centralità dello
spirituale, dello psichico, dell’intellettivo sostenuta dal pensiero moderno è
relativizzata, e apertamente criticata, dalla centralità post-moderna che
privilegia il mondano, il carnale, il somatico. Peraltro, questa
de-centralizzazione può aiutare la teologia a riscoprire degli aspetti biblici,
come l’importanza del corpo e delle cose, che una filosofia greca di stampo
neoplatonico, sposata dal pensiero teologico classico, impediva di valorizzare.
Tale modo di pensare l’umano richiede alle religioni in dialogo di adottare un
linguaggio aperto, simbolico, iconico, capace di dire l’inedito dell’uomo e del
suo mistero. Alle religioni che assumono come caso serio il post-moderno è
consegnato un compito umanizzante. Certo, le tradizioni abramitiche vantano, al
proposito, un patrimonio comune. Ma tali esperienze religiose possono
impegnarsi a rendere umano l’umano solo se scelgono il dialogo e il confronto,
dal momento che, come per il divino, anche l’umano è un mistero troppo grande
per capirlo da soli.
Ri-pensare il mondo
Infine, la post-modernità
impone di ri-pensare anche il mondo. Oltre al livello teologico e a quello
antropologico, l’epoca attuale ha l’urgenza di rivedere la cosmologia. Il mondo
misurato e a servizio della tecnica ha smarrito il suo mistero, e non appare
più la patria dell’essere umano, perché il successo economico non elimina la
ricerca di senso da parte dell’uomo. E se la techne al servizio dell’economia
garantisce il primo (anche se la crisi finanziaria globale sembra smentire
tante sicurezze), non è capace di rispondere al secondo. Una volta abolita la
religione come integratore di senso, tocca al singolo individuo cimentarsi nel
fare sintesi; ma sono soluzioni biografiche, dicono i sociologi, a problemi
strutturali. Fragili, dunque. Un nomadismo etico e una pluralità di sistemi di
significati non sono solo virtù, quasi ad allargare le proposte di senso, ma
appaiono, in tempi post-moderni, come reali necessità. Il rilevante contributo
che questo nuovo discorso sul mondo, purificato dei suoi aspetti problematici,
può dare alla teologia all’altezza dei tempi che viviamo è di dare legittimità alla dimensione estetica
e simbolica, di dimostrare che non si agisce solo in nome della verità o a
causa dell’urgenza dell’azione etica, ma che si può prendere la parola e agire
anche per le piccole narrazioni che fanno parte del nostro stare bene con il
mondo e la vita in esso. Qui c’è posto per il dialogo e l’incontro con le tante
narrazioni religiose, comprese quelle di tipo tradizionale, che abitano il
mondo e da sempre lo descrivono.
Una grammatica della
diversità
A rompere il circolo
mimetico e violento della società attuale, può inoltre contribuire una
riflessione teologica che pensa a partire dalla forza della debolezza. Il
perdono al posto della vendetta aiuta a vivere la relazione non nello spirito
di rivalità risentita, ma in quello della relazione dentro la differenza.
La religione e la
riflessione su di essa in tempi post-moderni, oltre al carattere critico e
decostruttivo, portano in dote anche una grammatica della diversità. Liberata
dalla tentazione sacrificale della modernità, in cui la competizione, la
rivalità, il risentimento sono i tratti dominanti, la teologia post-moderna
vive una grammatica escatologica che apre al dialogo. A partire, cioè, da una
nuova intelligenza sulla realtà che lo sguardo della vittima, libera dal
rancore e disposta al perdono, offre. Il Regno di cui parla tale teologia,
allora, è una realtà dinamica, capace di accogliere anche altre utopie come il
paradiso musulmano o il nirvana buddhista. Il futuro sognato dalla vittima è un
desiderio liberato dal mimetismo, spazio simbolico e insieme reale da vivere
non contro l’altro, ma insieme all’altro; e il perdono cui la vittima
perdonante richiama apre un presente nuovo, dove l’ideologia del nemico,
dell’infedele, dell’eretico non può essere coltivata o alimentata.
Davanti al mondo così
com’è s’inaugura la possibilità di vivere relazioni gratuite: e il mondo
fratricida può essere luogo di compassione. La riflessione sulla fede in tempi
post-moderni, così, è fides quaerens gratuitatem, fede che cerca la gratuità.
La diversità è accolta non solo come esigenza etica, ma anche come imperativo
teologico: vedere la realtà a partire dall’altra storia, quella delle vittime.
La teologia del dialogo in epoca post-moderna, perciò, è una diversità
trascendente: non si tratta solo di una politica attenta alle minoranze, ma di
uno sguardo diverso sulla realtà. Qui il carattere teologico della diversità.
Siamo di fronte, cioè, ad
un’intelligenza teologica del reale che sa vedere l’immanenza come via alla
trascendenza, ricordano i padri: gloria Dei vivens homo (Ireneo di Lione). Qui
le religioni concordano e il dialogo che ne esce produce una diversa
interpretazione del reale. Ciò non significa che la teologia post-moderna del
dialogo non sappia riconoscere il carattere conflittuale della società in cui
vive. Tra la rivalità narcisistica che sembra presiedere i rapporti e piccole
esperienze etiche in cui riconoscere l’altro non più come rivale, ma come
compagno di viaggio, la teologia del dialogo s’impegna a costruire, già qui,
una comunità non dominata dal risentimento, dove la differenza abbia spazio. Le
identità mimetiche e reattive possono divenire identità plurali e ospitali. La
categoria fondamentale di tale teologia del dialogo, allora, è quella della
gratuità-ospitalità.
Gratuità e ospitalità
Fra le motivazioni delle
prospettive suggerite c’è la necessità di lasciarsi interrogare a fondo dalla
complessità dell’oggi, dalla condizione permanente di esodo esistenziale
provocata dalla precarietà del vivere in tempi di crisi, dalla consapevolezza dell’urgenza
della sfida della coabitazione. Assumere la gratuità e l’ospitalità come
categorie fondanti presuppone infatti il ripensare e praticare in altro modo il
dialogo interreligioso e intra-religioso. Al centro di esso non risiedono più i
sistemi dogmatici, preoccupati di dare credibilità alla fede, come non si
trovano gli impianti ecclesiologici, le realtà istituzionali anch’esse tese a
giustificare la propria credibilità davanti al mondo. Questi sono temi secondi.
Il dialogo, invece, si fa autentico quando mette al centro la grammatica sulla
gratuità come senso ultimo della realtà. L’illuminazione buddhista, la
misericordia musulmana, l’agape cristiana, l’ospitalità ebraica sono esperienze
gratuite, in grado di dire la trascendenza dentro l’immanenza non a partire da
una grammatica razionale, ma dal principio gratuità. La logica della vita
donata, irrazionale e immorale per la visione dominante, presiede
l’intelligenza sul reale delle diverse religioni. Qui il dialogo acquista
fondamento. Non solo una vita donata, ma anche una vita perdonata: un nuovo
dono, quello di una relazione che non si chiude nel risentimento. E il perdono
è parola religiosa per eccellenza; appartiene, pur se spesso tradita, al
linguaggio delle religioni. Infine, lo sguardo della gratuità, tra dono e
perdono, offre anche un nuovo modo di stare nel fallimento, nella crisi:
l’avvenire è una promessa divina, dicono le religioni abramitiche, ma tutto è
impermanente e quindi passa, ripetono le spiritualità orientali. Così, la
teologia post-moderna è dialogica perché narra la trascendenza a partire
dall’esperienza della gratuità e dell’ospitalità. Se ospitata, la persona umana
può imparare che l’altro-nemico diviene, invece, fratello, e che più della
reciprocità (do ut des) valgono la gratuità e il disinteresse per vivere nuove
relazioni.
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