lunedì 24 novembre 2025

ARTIGIANI DI COMUNITA'

 


UNA SFIDA PER LE ASSOCIAZIONI

«Essere artigiani 

di amicizia,

 di fraternità, 

di relazioni autentiche »


«L’amicizia può veramente cambiare il mondo» 

perché «è una strada verso la pace».

Leone XIV

-        -         di MATTEO LIUT

-          Che lo vogliamo o no, siamo tutti intrinsecamente costruttori di comunità, ma non esiste un modo univoco di esserlo, come dimostra un certo stile oppositivo di fare gruppo oggi, che spesso definisce i perimetri dell’appartenenza guardando agli altri quasi come “nemici” da combattere. 

Ecco perché la Chiesa, con questo suo insistere sulla “sinodalità” – inteso come stile che esprime la fraternità mentre si percorre un cammino assieme – nel nostro tempo può avere un ruolo così determinante e profetico in tutti gli ambiti della società. Siamo, infatti, inevitabilmente tutti portatori di comunità e lo siamo dal momento in cui arriviamo ad abitare questo mondo fino a quando chiudiamo gli occhi per sempre: la nostra nascita genera comunità, crea legami, alimenta relazioni, convoca una famiglia; ma anche la nostra morte genera comunità, raduna amicizie e parentele, affida a chi resta una memoria condivisa. E così tutto quello che sta nel mezzo: generiamo comunità andando a scuola o al lavoro, scandendo con riti e celebrazioni i momenti di passaggio della nostra vita, usando gli strumenti della comunicazione digitale. E le scienze ci insegnano che anche la nostra base biologica e anatomica, come quella psichica e affettiva, è un’esperienza comunitaria, ovvero una dinamica collettiva dove ogni elemento funziona perché è in relazione con gli altri.

Siamo destinati alla comunità anche dentro il rapporto più intimo e apparentemente esclusivo tra due persone che si amano: gli innamorati sentono che il loro sentimento chiede loro di essere testimoni di bellezza e di non trattenere per sé ciò che si prova. È innegabile, quindi, che la comunità nell’esistenza umana esiste come qualcosa di connaturale e inevitabile.

Ma questo, appunto, non significa che sappiamo in modo naturale come si costruisce una comunità in grado di essere radice di futuro. Dove imparare a farlo, quindi? E dove imparare a orientare la nostra natura comunitaria verso un progetto più grande, che sappia rispondere alla nostra inesauribile sete di senso, al bisogno primario di essere amati?

Rimanere senza una mano che accompagna in questo cammino genera quello che il Papa ha descritto ieri nel suo discorso davanti ai vescovi italiani, riuniti ad Assisi per la loro 81ª Assemblea generale: «La solitudine consuma la speranza, mentre numerose incertezze pesano come incognite sul nostro futuro». Parole cui Leone XIV fa seguire l’invito a dare forma ciò a cui la Chiesa è chiamata «dalla Parola e dallo Spirito»: «Essere artigiani di amicizia, di fraternità, di relazioni autentiche». Espressioni in piena consonanza con quelle pronunciate dal cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, nell’introduzione all’Assemblea e nella conferenza stampa di chiusura. L’appello a essere costruttori di comunità non ha solo a che fare con la radice storica e teologica dell’agire della Chiesa nel tempo dell’umanità (Dio stesso è comunità, è Padre, Figlio e Spirito Santo e il mandato del Risorto è quello di fare di tutti gli esseri umani un’unica comunità battezzata, cioè, immersa, nella vita di Dio), ma è snodo fondamentale per continuare ad alimentare la vita della stessa della comunità dei credenti. 

Farsi compagni delle donne e degli uomini non per “indottrinarli” ma per camminare con loro nel viaggio di scoperta della radice infinita della loro stessa esistenza è il primo necessario compito ecclesiale. Ecco perché alimentare la sinodalità oggi è così “strategico” e Zuppi ha voluto chiedere risposte chiare, concrete e opportune al Cammino sinodale compiuto in questi anni dalla Chiesa italiana: è in questo stile che sta la profezia delle comunità ecclesiali. Dietro c’è la consapevolezza che contribuire a dare forma a una società più fraterna e solidale, a un’economia di comunione, a una politica della speranza che dà voce agli ultimi, è la condizione fondamentale per aiutare le persone a incontrare Dio. 

Sì, perché l’esperienza comunitaria, dentro la Chiesa, non è fine a se stessa, la compagine ecclesiale non è un partito, non è un club, un gruppo d’interesse, una rete sociale, che si alimenta della propria stessa identità, ma è uno strumento pensato per portare all’incontro con Cristo. 

Una relazione, questa sì, che è intima e personale e che motiva la responsabilità individuale nel mondo: i cristiani vivono in comunità ma non delegano al gruppo, sperimentano la condivisione ma si fanno carico in prima persona degli altri, agiscono insieme ma rispondono di sé stessi.

 La sinodalità, insomma, vissuta alla luce del Vangelo, forma cittadini adulti. E quindi società aperte al futuro.

 

www.avvenire.it

 

 

  

Immagine

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento