- - di Enzo Bianchi
Forse
mai come in questi tempi si parla e si presta tanta attenzione all’ascolto
perché siamo ammorbati da troppe parole, messaggi e rumori che ci impediscono
una comunicazione autentica.
- - di Enzo Bianchi
Forse
mai come in questi tempi si parla e si presta tanta attenzione all’ascolto
perché siamo ammorbati da troppe parole, messaggi e rumori che ci impediscono
una comunicazione autentica.
* In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «37Chi ama padre o
madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è
degno di me; 38chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di
me. 39Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la
propria vita per causa mia, la troverà. 40Chi accoglie voi accoglie me, e chi
accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41Chi accoglie un profeta perché
è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è
un giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42Chi avrà dato da bere anche un solo
bicchiere d'acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in
verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Commento di Enzo Bianchi
Il
brano evangelico di questa domenica contiene l’ultima parte del discorso
missionario rivolto da Gesù ai suoi discepoli, ai dodici inviati ad annunciare
il regno dei cieli ormai vicino (cf. Mt 10,7) e a far arretrare il potere del
demonio (cf. Mt 10,1). Diverse parole di Gesù sono state raccolte qui da
Matteo, parole dette probabilmente in circostanze diverse ma che nel loro
insieme determinano il contenuto e lo stile della missione, e preannunciano
anche le fatiche e le persecuzioni che i discepoli dovranno subire, perché
accadrà loro ciò che Gesù stesso, loro maestro e rabbi, ha sperimentato (cf. Mt
10,24-25).
Ma
cosa mai potrà dare al discepolo la forza di resistere di fronte a ostilità,
calunnie, contraddizioni che minacciano anche le relazioni più comuni e
quotidiane, quelle familiari? L’amore, solo l’amore per il Signore! Ecco perché
Gesù ha fato risuonare delle parole forti, che ci scuotono: “Chi ama padre o
madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è
degno di me”. Questa sentenza di Gesù può sembrare innanzitutto una pretesa
inaudita e irricevibile, ma è una sua parola autentica che va compresa in
profondità. Gesù non insinua che non si debbano amare i propri genitori o i
propri figli – come d’altronde richiede il quinto comandamento della legge
santa di Dio (cf. Es 20,12; Dt 5,16) – e neppure esige un amore totalitario per
la sua persona, ma richiama l’amore che deve essere dato al Signore, amore che
richiede di realizzare la sua volontà. Gesù si rallegra quando ciascuno di noi
vive le sue storie d’amore e quindi sa custodire e rinnovare l’amore per
l’altro – coniuge, genitore o figlio –, ma chiede semplicemente che a lui, alla
sua volontà, non sia preferito niente e nessuno da parte del discepolo.
Seguire
Gesù, infatti, può destare l’opposizione proprio da parte di quelli che il
discepolo ama, può far emergere una divisione, una differenza di giudizio e di
atteggiamenti rispetto a Gesù stesso. In queste situazioni il discepolo, la
discepola, dovrà avere la forza e il coraggio di fare una scelta e di dare il
primato a Gesù, alla sua presenza viva e operante. Sì, va detto con chiarezza:
se i genitori, o chiunque altro sia legato a noi da un vincolo di parentela e
di amore umano, diventano un impedimento alla sequela del Signore, allora
occorre che l’amore di Cristo abbia una preminenza anche sugli amori generati
dal vincolo familiare. Con un linguaggio maggiormente segnato dalla cultura
semitica, abituata a utilizzare immagini più concrete e a farlo attraverso una
lingua ricca di antitesi e di forti contrasti, nel passo parallelo di Luca
queste espressioni risuonano con ancora maggior durezza: “Se uno viene a me e
non odia (cioè, non ama meno di me) suo padre, la madre, la moglie, i figli, i
fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”
(Lc 14,26). Se una persona diventa ostacolo alla nostra sequela, se contraddice
il nostro amore per Cristo, allora va odiato, cioè non va ritenuto qualcuno che
possa determinare la nostra vita.
Questa
rinuncia dovuta a un’azione di discernimento ha un solo nome – continua Gesù –:
prendere, abbracciare la propria croce, cioè lo strumento dell’esecuzione del
proprio uomo vecchio, della propria condizione di creatura soggetta al peccato
e sotto l’influsso del demonio. Significativamente un discepolo dell’Apostolo
Paolo attualizzerà queste parole di Gesù con un’espressione altrettanto
esigente e forte: “Fate morire le vostre membra che appartengono alla
mondanità” (Col 3,5). Si tratta di rinnegare se stessi, di smettere di
conoscere soltanto se stessi, per conoscere Gesù Cristo e solo in lui anche noi
stessi. Comunicare al mistero della morte di Cristo, perdendo la vita,
spendendo la vita nel fare la volontà di Dio, cioè nell’amore dei fratelli e
delle sorelle in umanità, è imprescindibile per l’autentico discepolo di Gesù.
Come
dimenticare al riguardo, il prezzo della sequela del Signore Gesù pagato dai
cristiani martiri, a causa della persecuzione di Satana, “il principe di questo
mondo” (Gv 12,31; 16,11)? Nella passione di una donna e madre cristiana
dell’inizio del III secolo, per esempio, si legge:
Il
procuratore Ilariano, avendo il potere della spada, mi disse: “Abbi pietà dei
capelli bianchi di tuo padre e della tenera età d tuo figlio. Sacrifica agli dèi
per la salute degli imperatori. Ma io risposi: “Non faccio sacrifici agli dèi”.
Ilariano mi chiese: “Sei cristiana?”. Risposi: “Sì, sono cristiana” (Passione
di Perpetua e Felicita 6,3-4).
Ecco
l’amore per il Signore, preferito a un amore pur legittimo, santo e buono per i
legami familiari.
Certamente
queste parole di Gesù che chiedono di dare il primato al suo amore su ogni
nostro amore non giustificano mai le nostre mancanze d’amore, il nostro evadere
la carità verso i familiari, come Gesù stesso ha detto in polemica con alcuni
farisei: “Mosè disse: ‘Onora tuo padre e tua madre’ (Es 20,12; Dt 5,16), e:
‘Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte’ (Es 21,17; Lv 20,9). Voi
invece dite: ‘Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei
aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio’, non gli consentite di fare più nulla
per il padre o la madre. Così annullate la parola di Dio con la tradizione che
avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte” (Mc 7,10-13). L’amore per
il Signore, dunque, conferma i nostri amori, se questi sono trasparenti,
all’insegna della vera carità e vissuti con giustizia; non è mai totalitario –
lo ripeto –, ma chiede di essere collocato al primo posto. Come dice la Regola
di Benedetto (4,21), “nulla preferire all’amore di Cristo” è ciò che
caratterizza la sequela cristiana, la quale non si esaurisce nell’accoglienza
della dottrina del maestro né nelle osservanze del suo insegnamento: è amore,
amore per lui, il Cristo, il Signore, fino a smettere di riconoscere solo se
stessi o quelli che amiamo naturalmente e con i quali viviamo le nostre
relazioni.
Dobbiamo
essere sinceri: questa istanza decisiva nel cristianesimo è dura, soprattutto
oggi, in un tempo e in una cultura che rivendicano la realizzazione della
persona, che ci chiedono l’affermazione di sé, anche senza o contro gli altri.
Ma le parole di Gesù, che non hanno nessun carattere masochistico o negativo,
in verità ci rivelano che, dimenticando di affermare noi stessi e accettando di
perdere e spendere la vita per gli altri, accresciamo la nostra gioia e diamo
senso e ragioni al nostro vivere quotidiano.
Ai
discepoli in missione, infine, Gesù preannuncia anche che potranno contare
sull’accoglienza da parte di uomini e donne che vedranno in loro dei profeti,
dei giusti, dei piccoli. Costoro avranno una ricompensa grazie al loro
discernimento e alla loro capacità di accoglienza: nel giorno del giudizio,
certamente, ma anche già qui e ora, cominciando a sperimentare il centuplo
sulla terra (cf. Mc 10,30).
Questo
è il radicalismo cristiano! La sequela vissuta nell’amore per Cristo rende il
discepolo degno di stare tra i testimoni del Regno che viene. Il saper non
guardare a se stessi ma tenere fisso lo sguardo su Gesù (cf. Eb 12,2) per
vivere i suoi sentimenti (cf. Fil 2,5) e agire come lui (cf. 1Gv 2,6), è la
sequela cristiana. Profeti e giusti vanno dunque accolti e venerati, ma
significativamente Gesù pone accanto a loro anche i piccoli, quelli sui quali
altrove dice che si giocherà il giudizio finale (cf. Mt 25,40.45). I piccoli e
i poveri, che Gesù ha sempre accolto e confermato nella loro prossimità al
regno dei cieli, devono dunque essere accolti in modo preferenziale dalla
comunità cristiana: anche e soprattutto così si mostra di amare in modo
privilegiato il Signore Gesù! Ma oggi la comunità cristiana è capace di
accogliere i poveri e di rendersi soggetto di magistero ecclesiale? È capace di
rendere vicini i lontani?
col cuore
in un tempo
di contrapposizioni
La
dinamica del “comunicare cordialmente”
Il
tema si collega idealmente a quello del 2022, che invitava all’ascolto e a
quello precedente che esortava a “andare e vedere” quali condizioni per una
buona comunicazione. Questa volta il Papa vuol soffermarsi sul “parlare con il
cuore”. Il cuore è infatti ciò che muove all’accoglienza, al dialogo e alla
condivisione, innescando una dinamica che Francesco definisce come quella del
“comunicare cordialmente”. L’accoglienza dell’altro è ciò che permette, dopo
l’ascolto, di “parlare seguendo la verità dell’amore”. Scrive:
Non
dobbiamo temere di proclamare la verità, anche se a volte scomoda, ma di farlo
senza carità, senza cuore. Perché “il programma del cristiano – come scrisse
Benedetto XVI – è ‘un cuore che vede’”. Un cuore che con il suo palpito rivela
la verità del nostro essere e che per questo va ascoltato. Questo porta chi
ascolta a sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda, al punto da arrivare a
sentire nel proprio cuore anche il palpito dell’altro. Allora può avvenire il
miracolo dell’incontro.
Parlare
con il cuore significa lasciar intravedere la partecipazione “alle gioie e alle
paure, alle speranze e alle sofferenze delle donne e degli uomini del nostro
tempo”, afferma il Papa. E’ un appello che interpella particolarmente chi
comunica in un contesto oggi “così propenso all’indifferenza e
all’indignazione, a volte anche sulla base della disinformazione, che falsifica
e strumentalizza la verità”.
Il
dialogo con il cuore di Gesù con i discepoli di Emmaus
Papa
Francesco indica l’esempio di un comunicatore con il cuore nel “misterioso
Viandante che dialoga con i discepoli diretti a Emmaus”: parlando con amore,
Gesù accompagna “il cammino del loro dolore”, rispettando i loro tempi di
comprensione. Il Papa scrive ancora: In un periodo storico segnato da
polarizzazioni e contrapposizioni – da cui purtroppo anche la comunità
ecclesiale non è immune – l’impegno per una comunicazione “dal cuore e dalle
braccia aperte” non riguarda esclusivamente gli operatori dell’informazione, ma
è responsabilità di ciascuno. Tutti siamo chiamati a cercare e a dire la verità
e a farlo con carità.
Parole
che fanno del bene
Questo
richiamo interpella in modo particolare i cristiani, prosegue Francesco, dalla
cui bocca “non dovrebbero mai uscire parole cattive”, ma solo parole capaci di
fare del bene agli altri e di scalfire anche i “cuori più induriti”. E’ la “forza
gentile dell’amore” che il Papa indica, invitando a ripensare alle sue
conseguenze sociali:
Ne
facciamo esperienza nella convivenza civica dove la gentilezza non è solo
questione di “galateo”, ma un vero e proprio antidoto alla crudeltà, che purtroppo
può avvelenare i cuori e intossicare le relazioni. Ne abbiamo bisogno
nell’ambito dei media, perché la comunicazione non fomenti un livore che
esaspera, genera rabbia e porta allo scontro, ma aiuti le persone a riflettere
pacatamente, a decifrare, con spirito critico e sempre rispettoso, la realtà in
cui vivono.
San
Francesco di Sales, patrono dei giornalisti
Di
san Francesco di Sales, dottore della Chiesa, vescovo di Ginevra in un tempo di
accese dispute con i calvinisti e proclamato da Pio XI patrono dei giornalisti
cattolici, Francesco dice che “il suo atteggiamento mite, la sua umanità, la disposizione
a dialogare pazientemente con tutti e specialmente con chi lo contrastava lo
resero un testimone straordinario dell’amore misericordioso di Dio”. Per il
santo la comunicazione era un “riflesso dell’animo” e una manifestazione di
amore. Noi “siamo ciò che comunichiamo” ci ricorda e il suo insegnamento,
osserva il Papa, appare “controcorrente” in un tempo in cui spesso la
comunicazione viene strumentalizzata. I suoi scritti suscitano una lettura
“sommamente piacevole, istruttiva, stimolante” dice Papa Francesco citando le
parole di san Paolo VI e poi commenta:
Se
guardiamo oggi al panorama della comunicazione, non sono proprio queste le
caratteristiche che un articolo, un reportage, un servizio radiotelevisivo o un
post sui social dovrebbero soddisfare? Gli operatori della comunicazione
possano sentirsi ispirati da questo santo della tenerezza, ricercando e
raccontando la verità con coraggio e libertà, ma respingendo la tentazione di
usare espressioni eclatanti e aggressive.
Il
sogno del Papa
“Parlare
con il cuore”, il tema di questa Giornata mondiale si inserisce nel processo
sinodale che la Chiesa sta vivendo e Papa Francesco osserva che l’ascolto
reciproco è il dono più prezioso che possiamo farci. C’è tanto bisogno, scrive,
di un linguaggio “secondo lo stile di Dio, nutrito di vicinanza, compassione e
tenerezza”. E descrive il suo sogno: Sogno una comunicazione ecclesiale che
sappia lasciarsi guidare dallo Spirito Santo, gentile e al contempo profetica,
che sappia trovare nuove forme e modalità per il meraviglioso annuncio che è
chiamata a portare nel terzo millennio. Una comunicazione che metta al centro
la relazione con Dio e con il prossimo, specialmente il più bisognoso, e che
sappia accendere il fuoco della fede piuttosto che preservare le ceneri di
un’identità autoreferenziale.
Un’escalation
che va frenata cominciando dalle parole
Il
Papa guarda ancora al contesto di conflitto globale che stiamo vivendo e
ribadisce quanto sia necessaria, “una comunicazione non ostile” per promuovere
una “cultura di pace” capace di “superare l’odio e l’inimicizia”. L’escalation
bellica che oggi l’umanità teme, scrive Francesco, “va frenata quanto prima
anche a livello comunicativo” perché le parole spesso si tramutano in azioni
belliche di efferata violenza”. E, dunque, insiste:
Abbiamo
bisogno di comunicatori disponibili a dialogare, coinvolti nel favorire un
disarmo integrale e impegnati a smontare la psicosi bellica che si annida nei
nostri cuori. (…) Va rifiutata ogni retorica bellicistica, così come ogni forma
propagandistica che manipola la verità, deturpandola per finalità ideologiche.
Va invece promossa, a tutti i livelli, una comunicazione che aiuti a creare le
condizioni per risolvere le controversie tra i popoli.
La
preghiera del Papa per i comunicatori
Il
messaggio di Papa Francesco si conclude sottolineando che lo sforzo di “trovare
le parole giuste” per costruire “una civiltà migliore” è richiesto a tutti, ma
in particolare è una responsabilità affidata agli operatori della comunicazione
e per loro invoca il Signore perché con la loro professione improntata alla
“verità nella carità”, possano aiutare a riscoprirci fratelli e sorelle e a
“sentirci custodi gli uni degli altri”.