Visualizzazione post con etichetta sincerità. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta sincerità. Mostra tutti i post

mercoledì 8 novembre 2023

LA CORRUZIONE DELLA PAROLA

 


"Non c’è più un uomo sincero, è scomparsa la trasparenza fra gli umani, si dicono menzogne l’un l’altro e le loro false labbra parlano mosse da un cuore doppio” 
(Salmo 12)

-        -  di Enzo Bianchi

 

Forse mai come in questi tempi si parla e si presta tanta attenzione all’ascolto perché siamo ammorbati da troppe parole, messaggi e rumori che ci impediscono una comunicazione autentica.

 Ciò che viene richiesto in ogni situazione e in modo ossessivo è l’ascolto, lo spazio da apprestare per rendere feconda la parola. L’ascolto, che non è semplicemente “sentire”, è un atto intenzionale che nasce dalla volontà ed è frutto di una decisione che comporta il chiamare a raccolta le forze per accogliere e recepire una parola. Ma va detto che la parola che precede l’ascolto deve avere una sua grammatica proprio per essere parola, evento creato solo dall’uomo.

 In una stagione culturale contrassegnata da diverse “crisi” abbiamo bisogno di interrogarci nuovamente su cosa è l’uomo. Com’è possibile ascoltare ed essere testimoni di “parole doppie”, menzogne proclamate da chi pensa in modo diverso da come parla, senza sentire l’esigenza di una grammatica della parola che le restituisca veridicità e autorevolezza? Secondo la tradizione ebraico-cristiana il peggiore sintomo di malessere sociale è la corruzione della parola, quando “non c’è più un uomo sincero, è scomparsa la trasparenza fra gli umani, si dicono menzogne l’un l’altro e le loro false labbra parlano mosse da un cuore doppio” (Salmo 12).

 Chi di noi non sottoscriverebbe queste parole del salmista sulla società del suo tempo? Sì, noi oggi siamo consapevoli che la comunicazione è particolarmente malata, che la manipolazione attraverso la parola è frequente e praticata nel quotidiano anche da persone semplici, ma soprattutto che si ha paura della parresìa, virtù che pure dovremmo aver ereditato da Socrate come arte di dire sempre la verità, anche a caro prezzo. Il parlare come atto di comunicazione e testimonianza è molto faticoso e richiede la disponibilità a trovarsi in contrasto con la posizione della maggioranza. E invece nella società e nella Chiesa si favorisce più che mai l’ipocrisia, l’apparire non come si è ma in modo tale da ottenere successo e potere. È significativo che nel Vangelo Gesù abbia perdonato tutti i peccati, ma non abbia mai avuto una parola di comprensione e di misericordia verso gli ipocriti, i religiosi doppi per vocazione demoniaca, ignavi e timorosi nei confronti del potere, aguzzini nei confronti degli ultimi. Ma oggi “la gente” ha capito, anche se non ancora fino al punto da indignarsi, che soprattutto quelli che sono al potere e sono “doppi”, non dicono quello che pensano ma solo ciò che li aiuta a perseguire il loro interesse: per questo non hanno autorevolezza. Certo, dovremmo tutti crescere nella consapevolezza che la parola, che contraddistingue l’uomo da tutti i viventi, precede ogni comunicazione e ogni ascolto. “In principio era la Parola!”.

 La parola che noi diciamo non è più nostra, ma è consegnata a chi ascolta e non può essere richiamata indietro perché appartiene a chi l’ascolta.

 Come dicono i contadini del Monferrato: “Ricordati, le parole sono come pietre”. Non c’è vero ascolto senza etica della parola.

 

La Repubblica




sabato 1 luglio 2023

UNA QUESTIONE DI AMORE

 -   Vangelo di domenica 2 luglio 2023 - Mt 10,37-42 *

* In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «37Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; 38chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. 39Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. 40Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d'acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

 Commento di Enzo Bianchi

Il brano evangelico di questa domenica contiene l’ultima parte del discorso missionario rivolto da Gesù ai suoi discepoli, ai dodici inviati ad annunciare il regno dei cieli ormai vicino (cf. Mt 10,7) e a far arretrare il potere del demonio (cf. Mt 10,1). Diverse parole di Gesù sono state raccolte qui da Matteo, parole dette probabilmente in circostanze diverse ma che nel loro insieme determinano il contenuto e lo stile della missione, e preannunciano anche le fatiche e le persecuzioni che i discepoli dovranno subire, perché accadrà loro ciò che Gesù stesso, loro maestro e rabbi, ha sperimentato (cf. Mt 10,24-25).

Ma cosa mai potrà dare al discepolo la forza di resistere di fronte a ostilità, calunnie, contraddizioni che minacciano anche le relazioni più comuni e quotidiane, quelle familiari? L’amore, solo l’amore per il Signore! Ecco perché Gesù ha fato risuonare delle parole forti, che ci scuotono: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me”. Questa sentenza di Gesù può sembrare innanzitutto una pretesa inaudita e irricevibile, ma è una sua parola autentica che va compresa in profondità. Gesù non insinua che non si debbano amare i propri genitori o i propri figli – come d’altronde richiede il quinto comandamento della legge santa di Dio (cf. Es 20,12; Dt 5,16) – e neppure esige un amore totalitario per la sua persona, ma richiama l’amore che deve essere dato al Signore, amore che richiede di realizzare la sua volontà. Gesù si rallegra quando ciascuno di noi vive le sue storie d’amore e quindi sa custodire e rinnovare l’amore per l’altro – coniuge, genitore o figlio –, ma chiede semplicemente che a lui, alla sua volontà, non sia preferito niente e nessuno da parte del discepolo.

Seguire Gesù, infatti, può destare l’opposizione proprio da parte di quelli che il discepolo ama, può far emergere una divisione, una differenza di giudizio e di atteggiamenti rispetto a Gesù stesso. In queste situazioni il discepolo, la discepola, dovrà avere la forza e il coraggio di fare una scelta e di dare il primato a Gesù, alla sua presenza viva e operante. Sì, va detto con chiarezza: se i genitori, o chiunque altro sia legato a noi da un vincolo di parentela e di amore umano, diventano un impedimento alla sequela del Signore, allora occorre che l’amore di Cristo abbia una preminenza anche sugli amori generati dal vincolo familiare. Con un linguaggio maggiormente segnato dalla cultura semitica, abituata a utilizzare immagini più concrete e a farlo attraverso una lingua ricca di antitesi e di forti contrasti, nel passo parallelo di Luca queste espressioni risuonano con ancora maggior durezza: “Se uno viene a me e non odia (cioè, non ama meno di me) suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Se una persona diventa ostacolo alla nostra sequela, se contraddice il nostro amore per Cristo, allora va odiato, cioè non va ritenuto qualcuno che possa determinare la nostra vita.

Questa rinuncia dovuta a un’azione di discernimento ha un solo nome – continua Gesù –: prendere, abbracciare la propria croce, cioè lo strumento dell’esecuzione del proprio uomo vecchio, della propria condizione di creatura soggetta al peccato e sotto l’influsso del demonio. Significativamente un discepolo dell’Apostolo Paolo attualizzerà queste parole di Gesù con un’espressione altrettanto esigente e forte: “Fate morire le vostre membra che appartengono alla mondanità” (Col 3,5). Si tratta di rinnegare se stessi, di smettere di conoscere soltanto se stessi, per conoscere Gesù Cristo e solo in lui anche noi stessi. Comunicare al mistero della morte di Cristo, perdendo la vita, spendendo la vita nel fare la volontà di Dio, cioè nell’amore dei fratelli e delle sorelle in umanità, è imprescindibile per l’autentico discepolo di Gesù.

Come dimenticare al riguardo, il prezzo della sequela del Signore Gesù pagato dai cristiani martiri, a causa della persecuzione di Satana, “il principe di questo mondo” (Gv 12,31; 16,11)? Nella passione di una donna e madre cristiana dell’inizio del III secolo, per esempio, si legge:

Il procuratore Ilariano, avendo il potere della spada, mi disse: “Abbi pietà dei capelli bianchi di tuo padre e della tenera età d tuo figlio. Sacrifica agli dèi per la salute degli imperatori. Ma io risposi: “Non faccio sacrifici agli dèi”. Ilariano mi chiese: “Sei cristiana?”. Risposi: “Sì, sono cristiana” (Passione di Perpetua e Felicita 6,3-4).

Ecco l’amore per il Signore, preferito a un amore pur legittimo, santo e buono per i legami familiari.

Certamente queste parole di Gesù che chiedono di dare il primato al suo amore su ogni nostro amore non giustificano mai le nostre mancanze d’amore, il nostro evadere la carità verso i familiari, come Gesù stesso ha detto in polemica con alcuni farisei: “Mosè disse: ‘Onora tuo padre e tua madre’ (Es 20,12; Dt 5,16), e: ‘Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte’ (Es 21,17; Lv 20,9). Voi invece dite: ‘Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio’, non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte” (Mc 7,10-13). L’amore per il Signore, dunque, conferma i nostri amori, se questi sono trasparenti, all’insegna della vera carità e vissuti con giustizia; non è mai totalitario – lo ripeto –, ma chiede di essere collocato al primo posto. Come dice la Regola di Benedetto (4,21), “nulla preferire all’amore di Cristo” è ciò che caratterizza la sequela cristiana, la quale non si esaurisce nell’accoglienza della dottrina del maestro né nelle osservanze del suo insegnamento: è amore, amore per lui, il Cristo, il Signore, fino a smettere di riconoscere solo se stessi o quelli che amiamo naturalmente e con i quali viviamo le nostre relazioni.

Dobbiamo essere sinceri: questa istanza decisiva nel cristianesimo è dura, soprattutto oggi, in un tempo e in una cultura che rivendicano la realizzazione della persona, che ci chiedono l’affermazione di sé, anche senza o contro gli altri. Ma le parole di Gesù, che non hanno nessun carattere masochistico o negativo, in verità ci rivelano che, dimenticando di affermare noi stessi e accettando di perdere e spendere la vita per gli altri, accresciamo la nostra gioia e diamo senso e ragioni al nostro vivere quotidiano.

Ai discepoli in missione, infine, Gesù preannuncia anche che potranno contare sull’accoglienza da parte di uomini e donne che vedranno in loro dei profeti, dei giusti, dei piccoli. Costoro avranno una ricompensa grazie al loro discernimento e alla loro capacità di accoglienza: nel giorno del giudizio, certamente, ma anche già qui e ora, cominciando a sperimentare il centuplo sulla terra (cf. Mc 10,30).

Questo è il radicalismo cristiano! La sequela vissuta nell’amore per Cristo rende il discepolo degno di stare tra i testimoni del Regno che viene. Il saper non guardare a se stessi ma tenere fisso lo sguardo su Gesù (cf. Eb 12,2) per vivere i suoi sentimenti (cf. Fil 2,5) e agire come lui (cf. 1Gv 2,6), è la sequela cristiana. Profeti e giusti vanno dunque accolti e venerati, ma significativamente Gesù pone accanto a loro anche i piccoli, quelli sui quali altrove dice che si giocherà il giudizio finale (cf. Mt 25,40.45). I piccoli e i poveri, che Gesù ha sempre accolto e confermato nella loro prossimità al regno dei cieli, devono dunque essere accolti in modo preferenziale dalla comunità cristiana: anche e soprattutto così si mostra di amare in modo privilegiato il Signore Gesù! Ma oggi la comunità cristiana è capace di accogliere i poveri e di rendersi soggetto di magistero ecclesiale? È capace di rendere vicini i lontani?

Alzogliocchiversoilcielo


mercoledì 25 gennaio 2023

PARLARE CON IL CUORE


 Comunicare

 col cuore 


in un tempo

di contrapposizioni

 “L’appello a parlare con il cuore interpella radicalmente il nostro tempo, così propenso all’indifferenza e all’indignazione”, lo scrive Papa Francesco nel Messaggio per la 57ma Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali che quest’anno ha per tema: “Parlare con il cuore. Secondo verità nella carità”. Forte l’invito ad andare controcorrente per sostenere le aspirazioni alla pace sull’esempio di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti.

 - di Adriana Masotti - Città del Vaticano

 “Nel drammatico contesto di conflitto globale che stiamo vivendo è urgente affermare una comunicazione non ostile. Abbiamo bisogno di comunicatori coinvolti nel favorire un disarmo integrale e impegnati a smontare la psicosi bellica che si annida nei nostri cuori”. È un passaggio di estrema attualità contenuto nel Messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 2023 che quest’anno si celebrerà domenica 21 maggio. Il Papa si rivolge in modo particolare agli operatori della comunicazione ma osserva che l’impegno per una comunicazione “dal cuore e dalle braccia aperte” è responsabilità di ciascuno.

La dinamica del “comunicare cordialmente”

Il tema si collega idealmente a quello del 2022, che invitava all’ascolto e a quello precedente che esortava a “andare e vedere” quali condizioni per una buona comunicazione. Questa volta il Papa vuol soffermarsi sul “parlare con il cuore”. Il cuore è infatti ciò che muove all’accoglienza, al dialogo e alla condivisione, innescando una dinamica che Francesco definisce come quella del “comunicare cordialmente”. L’accoglienza dell’altro è ciò che permette, dopo l’ascolto, di “parlare seguendo la verità dell’amore”. Scrive:

Non dobbiamo temere di proclamare la verità, anche se a volte scomoda, ma di farlo senza carità, senza cuore. Perché “il programma del cristiano – come scrisse Benedetto XVI – è ‘un cuore che vede’”. Un cuore che con il suo palpito rivela la verità del nostro essere e che per questo va ascoltato. Questo porta chi ascolta a sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda, al punto da arrivare a sentire nel proprio cuore anche il palpito dell’altro. Allora può avvenire il miracolo dell’incontro.

Parlare con il cuore significa lasciar intravedere la partecipazione “alle gioie e alle paure, alle speranze e alle sofferenze delle donne e degli uomini del nostro tempo”, afferma il Papa. E’ un appello che interpella particolarmente chi comunica in un contesto oggi “così propenso all’indifferenza e all’indignazione, a volte anche sulla base della disinformazione, che falsifica e strumentalizza la verità”.

Il dialogo con il cuore di Gesù con i discepoli di Emmaus

Papa Francesco indica l’esempio di un comunicatore con il cuore nel “misterioso Viandante che dialoga con i discepoli diretti a Emmaus”: parlando con amore, Gesù accompagna “il cammino del loro dolore”, rispettando i loro tempi di comprensione. Il Papa scrive ancora: In un periodo storico segnato da polarizzazioni e contrapposizioni – da cui purtroppo anche la comunità ecclesiale non è immune – l’impegno per una comunicazione “dal cuore e dalle braccia aperte” non riguarda esclusivamente gli operatori dell’informazione, ma è responsabilità di ciascuno. Tutti siamo chiamati a cercare e a dire la verità e a farlo con carità.

Parole che fanno del bene

Questo richiamo interpella in modo particolare i cristiani, prosegue Francesco, dalla cui bocca “non dovrebbero mai uscire parole cattive”, ma solo parole capaci di fare del bene agli altri e di scalfire anche i “cuori più induriti”. E’ la “forza gentile dell’amore” che il Papa indica, invitando a ripensare alle sue conseguenze sociali:

Ne facciamo esperienza nella convivenza civica dove la gentilezza non è solo questione di “galateo”, ma un vero e proprio antidoto alla crudeltà, che purtroppo può avvelenare i cuori e intossicare le relazioni. Ne abbiamo bisogno nell’ambito dei media, perché la comunicazione non fomenti un livore che esaspera, genera rabbia e porta allo scontro, ma aiuti le persone a riflettere pacatamente, a decifrare, con spirito critico e sempre rispettoso, la realtà in cui vivono.

San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti

Di san Francesco di Sales, dottore della Chiesa, vescovo di Ginevra in un tempo di accese dispute con i calvinisti e proclamato da Pio XI patrono dei giornalisti cattolici, Francesco dice che “il suo atteggiamento mite, la sua umanità, la disposizione a dialogare pazientemente con tutti e specialmente con chi lo contrastava lo resero un testimone straordinario dell’amore misericordioso di Dio”. Per il santo la comunicazione era un “riflesso dell’animo” e una manifestazione di amore. Noi “siamo ciò che comunichiamo” ci ricorda e il suo insegnamento, osserva il Papa, appare “controcorrente” in un tempo in cui spesso la comunicazione viene strumentalizzata. I suoi scritti suscitano una lettura “sommamente piacevole, istruttiva, stimolante” dice Papa Francesco citando le parole di san Paolo VI e poi commenta:

Se guardiamo oggi al panorama della comunicazione, non sono proprio queste le caratteristiche che un articolo, un reportage, un servizio radiotelevisivo o un post sui social dovrebbero soddisfare? Gli operatori della comunicazione possano sentirsi ispirati da questo santo della tenerezza, ricercando e raccontando la verità con coraggio e libertà, ma respingendo la tentazione di usare espressioni eclatanti e aggressive.

Il sogno del Papa

“Parlare con il cuore”, il tema di questa Giornata mondiale si inserisce nel processo sinodale che la Chiesa sta vivendo e Papa Francesco osserva che l’ascolto reciproco è il dono più prezioso che possiamo farci. C’è tanto bisogno, scrive, di un linguaggio “secondo lo stile di Dio, nutrito di vicinanza, compassione e tenerezza”. E descrive il suo sogno: Sogno una comunicazione ecclesiale che sappia lasciarsi guidare dallo Spirito Santo, gentile e al contempo profetica, che sappia trovare nuove forme e modalità per il meraviglioso annuncio che è chiamata a portare nel terzo millennio. Una comunicazione che metta al centro la relazione con Dio e con il prossimo, specialmente il più bisognoso, e che sappia accendere il fuoco della fede piuttosto che preservare le ceneri di un’identità autoreferenziale.

Un’escalation che va frenata cominciando dalle parole

Il Papa guarda ancora al contesto di conflitto globale che stiamo vivendo e ribadisce quanto sia necessaria, “una comunicazione non ostile” per promuovere una “cultura di pace” capace di “superare l’odio e l’inimicizia”. L’escalation bellica che oggi l’umanità teme, scrive Francesco, “va frenata quanto prima anche a livello comunicativo” perché le parole spesso si tramutano in azioni belliche di efferata violenza”. E, dunque, insiste:

Abbiamo bisogno di comunicatori disponibili a dialogare, coinvolti nel favorire un disarmo integrale e impegnati a smontare la psicosi bellica che si annida nei nostri cuori. (…) Va rifiutata ogni retorica bellicistica, così come ogni forma propagandistica che manipola la verità, deturpandola per finalità ideologiche. Va invece promossa, a tutti i livelli, una comunicazione che aiuti a creare le condizioni per risolvere le controversie tra i popoli.

La preghiera del Papa per i comunicatori

Il messaggio di Papa Francesco si conclude sottolineando che lo sforzo di “trovare le parole giuste” per costruire “una civiltà migliore” è richiesto a tutti, ma in particolare è una responsabilità affidata agli operatori della comunicazione e per loro invoca il Signore perché con la loro professione improntata alla “verità nella carità”, possano aiutare a riscoprirci fratelli e sorelle e a “sentirci custodi gli uni degli altri”.

 

Vatican News

 

MESSAGGIO DEL PAPA