- di Andrea Gagliarducci
Come
la Chiesa deve abitare il digitale? Superando la logica dell’aut aut,
considerando virtuale e reale come un unico spazio di evangelizzazione,
raccontando storie e mettendo in piazza la propria testimonianza e non
limitandosi a scambiare informazioni, e prendendo sul serio l’influenza che
ciascun cristiano può avere nell’ambiente digitale. Sono i punti centrali di un
lungo documento del Dicastero della Comunicazione vaticano, intitolato “Verso
la piena presenza. Una riflessione pastorale sull’impegno nei social media”.
Non
è un tipo di documento nuovo per la Chiesa, che dal 1995 è online con un sito
internet e tutti i testi dei Papi disponibili, cosa che ne ha fatto un pioniere
della comunicazione digitale. E vale la pena di ricordare che nel 2002 uscirono
due istruzioni del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, “La Chiesa
ed Internet” ed “Etica in Internet”. Ovviamente, però, le sfide sono sempre
diverse, e anche il cammino sinodale in cui la Chiesa è impegnata oggi ha
dimostrato la necessità di coinvolgersi ancora di più nel mondo digitale.
Il
documento del Dicastero parla di una sfida pastorale, ed il linguaggio è in
linea con l’idea di Papa Francesco di mettere l’evangelizzazione al primo
posto. Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero della Comunicazione, spiega che
“il documento non è un direttorio, né una sorta di guideline teorico-pastorale,
il suo focus è l’uomo, non la macchina, il cuore e non l’algoritmo”.
Lo
spazio digitale
In
87 punti, il documento fa prima una ampia disamina dello spazio digitale come
si presenta adesso, guardando anche agli sviluppi dell’intelligenza artificiale
e agli algoritmi che ormai dominano la percezione umana perché preposti a
selezionare ed evidenziare le informazioni che ritengono migliori nel
sovraccarico informativo di oggi.
E
già queste sono sfide non da poco. Anche perché ci si trova di fronte ad una
Chiesa che da una parte ha bisogno di abitare il virtuale, ma dall’altra è
chiamata a costruire comunità; che da una parte approfitta delle innovazioni
tecnologiche per fare arrivare le liturgie nelle case di tutti (è successo
durante il lockdown), ma dall’altra sa che l’Eucarestia “non si può guardare”,
si deve vivere, e si deve vivere in comunità.
Monsignor
Lucio Ruiz, segretario del Dicastero della Comunicazione, afferma: “La nostra
cultura va assunta per essere redenta, e che redenta va assunta e vissuta. È
questo il nostro luogo che dobbiamo abitare, è questo lo spazio dove trovare
gli uomini e le donne per annunziare il lieto messaggio. È la nostra terra di
missione”.
Costruire
comunità
Ecco
allora che la necessità prima è quella di costruire comunità, di “condividere
un pasto”, attività che non si può fare virtualmente, ma solo stando davvero
insieme. In fondo, si tratta di trasportare la logica del samaritano anche
nella piazza virtuale, con la consapevolezza che “le relazioni comunitarie
nelle reti social dovrebbero rafforzare le comunità locali e viceversa”.
Ma
come deve essere il cristiano nei social media? “Lo stile cristiano – si legge
nel documento - deve essere riflessivo, non reattivo, anche sui social media.
Pertanto, dobbiamo essere tutti attenti a non cadere nelle trappole digitali
nascoste in contenuti che sono intenzionalmente progettati per seminare
conflitti tra gli utenti, provocando indignazione o reazioni emotive”.
La
risposta è la testimonianza, e “i social media possono diventare un’opportunità
per condividere storie ed esperienze di bellezza o di sofferenza che sono
fisicamente lontane da noi. Così facendo, potremo pregare insieme e cercare
insieme il bene, riscoprendo ciò che ci unisce”.
Dialogare
con il Padre
Il
documento chiede anche di coltivare un “dialogo con il Padre”, di mantenere
spazi di preghiera che ricorderanno sempre “che tutto è stato ribaltato con la
croce”.
Quello
che sembra venir fuori dal documento è l’idea di “umanizzare” il virtuale.
“Cosa significa – si legge - ‘curare’ le ferite sui social media? Come possiamo
‘ricucire’ le divisioni? Come costruire ambienti ecclesiali in grado di
accogliere e integrare le “periferie geografiche ed esistenziali” delle culture
odierne? Domande come queste sono essenziali per discernere la nostra presenza
cristiana sulle ‘strade digitali’.”
Comunque,
si legge ancora nel testo, “c’è ancora molto su cui riflettere nelle nostre
comunità di fede rispetto a come sfruttare l’ambiente digitale in un modo che
integri la vita sacramentale. Sono state sollevate questioni teologiche e
pastorali su vari aspetti: ad esempio, lo ‘sfruttamento commerciale’ della
ritrasmissione della Santa Messa”.
Comunicare
la verità
Un
punto di partenza, dunque, non un punto di arrivo. Con la consapevolezza che
“per comunicare la verità, dobbiamo innanzitutto accertarci di trasmettere
informazioni veritiere; non solo nel creare i contenuti, ma anche nel
condividerli. Dobbiamo assicurarci di essere davvero una fonte attendibile”.
Ma
anche che “per comunicare bontà, abbiamo bisogno di contenuti di qualità, di un
messaggio orientato ad aiutare, non a danneggiare, a promuovere un’azione
positiva, non a perdere tempo in discussioni inutili”.
Comunicare
la bellezza
E
ancora, “per comunicare la bellezza, dobbiamo accertarci che stiamo comunicando
un messaggio nella sua interezza, il che richiede l’arte della contemplazione,
arte che ci permette di vedere una realtà o un evento in relazione con molte
altre realtà ed eventi”.
Si
riparte allora da Gesù Cristo “via, verità e vita”, punto fermo nel contesto
delle post-verita e delle fake news, e anche guardando al mondo dei social
nella loro funzione commerciale, e non più di condivisione. Ci vuole la
consapevolezza, insomma, che siamo tutti consumatori e fruitori allo stesso
tempo, che tutto può essere strumentalizzato.
Sapere
ascoltare
Il
cristiano, allora, può rispondere con l’ascolto, specialmente per contrastare
la velocità e l’immediatezza della cultura digitale. “Impegnarsi nell’ ascolto
sui social media è un punto di partenza fondamentale per progredire verso una
rete fatta non tanto di byte, avatar e ‘mi piace’ quanto di persone. In questo
modo passiamo dalle reazioni rapide, dalle ipotesi fuorvianti e dai commenti
impulsivi al creare opportunità di dialogo, sollevare domande per saperne di
più, manifestare cura e compassione, e riconoscere la dignità di coloro che
incontriamo”.
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