il male agisce facendoci credere di dominarlo
Da sempre è al centro del dibattito teologico e filosofico ma spesso se ne sottovaluta la capacità mimetica e d’inganno.
Parlare di lotta non è metafora
e affinare la conoscenza di sé è il primo passo.
- di Giovanni
Scarafile
Proponiamo in queste colonne un estratto
dell’introduzione alla seconda edizione del volume di Giovanni Scarafile In
lotta con il drago. Male e individuo nella teodicea di G.W. Leibniz (Milella,
pagine 196, euro 18,00) in questi giorni in libreria. Al tema del male è
dedicata la puntata di Sulla via di Damasco, in onda domani alle 7.35 su Rai
Tre. Ospiti di Eva Crosetto assieme a Scarafile, docente di Antropologia
filosofica all’Università di Pisa, interverranno anche monsignor Dario Edoardo Viganò,
vicecancelliere della Pontificia Accademia delle scienze socia-li, Hagi Kenaan
dell’Università di Tel Aviv e Stefano Polli, vicedirettore dell’Ansa.
Il problema del male è un
tema costante nella riflessione filosofica e teologica. Non di rado, le
soluzioni proposte sono state giudicate insoddisfacenti, in certi casi perfino
oggetto di derisione. Potrebbe sembrare un fallimento, ma non necessariamente
lo è. La mancanza di soddisfazione derivante dalle risposte delle teodicee può
diventare il nutrimento per il pensiero, assistendoci nella ricerca di un
approccio più significativo al male. Perché, dunque, le risposte al problema
del male non sono del tutto soddisfacenti? Se si va oltre le difese d’ufficio e
si considera il problema con pacatezza e spirito critico, ci si accorgerà che
quasi sempre si e trascurato di considerare la questione del male nella
prospettiva dell’individuo che soffre, accontentandosi di conciliare dal punto
di vista teorico i diversi elementi che compongono il tema. In altri termini, i
pensatori si sono comportati come un giardiniere che si concentri sul disegno
del giardino, perdendo di vista i singoli fiori appassiti e malati.
Su un altro versante, che
analizzi gli strumenti dell’indagine sul male, va detto che a volte le stesse
domande sembrano mosse da un intento oltremodo chiarificatorio che non solo non
ammette eccezioni, ma che soprattutto mal si concilia con l’inevitabile
componente di mistero insita in un tema che, per ciò che rappresenta, potrebbe
essere paragonato a un iceberg nell’oceano del pensiero umano. Così come solo
una piccola parte dell’iceberg è visibile sopra la superficie dell’acqua,
mentre la maggior parte della sua massa rimane nascosta, il problema del male
sfugge alla comprensione piena e definitiva, poiché la sua vera natura e
complessità sono celate sotto strati di ambiguità, incertezza e mistero.
Gli sforzi per chiarire e
risolvere il problema del male devono quindi tener conto del fatto che,
nonostante le nostre migliori intenzioni e capacità analitiche, potremmo non
essere mai in grado di sondare completamente le sue profondità e di comprendere
appieno il suo impatto sull’esperienza umana. In realtà, il tentativo di
trovare un orientamento, seppur minimo, di fronte al male, riposa su un
indimostrato e tacito presupposto in base al quale si ritiene che una “messa in
forma” del male sia - tutto sommato – possibile. Lungo questa traiettoria, si
tratterebbe di organizzare, strutturare e dare un senso a qualcosa che
inizialmente appare non facilmente maneggiabile, caotico, imprevedibile,
affidandosi a un qualche dispositivo del pensiero in grado di “legare” il male,
ovvero non lasciarlo libero di agire secondo una logica a noi aliena.
L’indimostrato e tacito
presupposto, dunque, agisce ogniqualvolta tentiamo di applicare un ordine o una
struttura logica al male, inteso alla stregua di un mero fenomeno o a
un’esperienza, al fine di renderla più accessibile e comprensibile. Nonostante
lo scopo di tale modo di procedere sia nobile, agendo in questo modo, è come se
si negasse al male ciò che di più proprio esso possiede: il suo essere soluto,
sciolto da legami, immaginandolo statico e in attesa della nostra iniziativa.
Il male, invece, come un camaleonte che cambia continuamente forma e colore,
sfugge alle nostre aspettative e, agendo a nostra insaputa, adattandosi e
mimetizzandosi nel nostro ambiente, rende più difficile se non impossibile il
compito di identificarlo e intenderlo.
Dunque, la nostra reale
condizione è di essere incatenati alla seguente questione: possiamo inscrivere
nella giustizia del logos ciò che al logos non compete? Per tali ragioni, il
nostro ragionare sul male si svolge sempre sul crinale di quella stessa
speranza contro ogni speranza di cui parlava Paolo nella Lettera ai Romani. Il
male, in effetti, non è un oggetto statico, ma un soggetto dinamico, un’entità
attiva e consapevole, in grado di agire e influenzare il mondo che lo circonda.
Non a caso, Nietzsche scriveva: «Se tu scruterai a lungo in un abisso, anche
l’abisso scruterà dentro di te». Dunque, mentre il male viene visto, esso è
anche in grado di vedere chi lo sta osservando. Essere scrutati visivamente dal
male non è un’operazione a somma zero. Tutt’altro. Una volta che il male abbia
accesso alla nostra interiorità, può infiltrarsi nelle nostre convinzioni,
alterando la nostra percezione del mondo e, come un parassita invisibile, può
gradualmente corrodere tutto ciò che incontra.
In questa situazione, il
male può indurci a giustificare o razionalizzare azioni e atteggiamenti
dannosi, sia verso noi stessi che verso gli altri. Può spingerci a
compromettere i nostri principi etici e a trascurare la nostra responsabilità
nei confronti della comunità e dell’ambiente. Nel tempo, la presenza del male
nella nostra interiorità può erodere la nostra autostima, la fiducia nelle
nostre capacità e la nostra speranza in un futuro migliore. L’interiorità, la
dimensione interna e personale dell’esperienza umana, è ciò che rende unica e
irripetibile l’esperienza di ogni persona, influenzando il modo in cui si
relaziona con se stessa e il mondo esterno. Intaccare l’interiorità da parte
del male può portare a conseguenze significative e durature, sia a livello
emotivo che psicologico. Quando il male invade l’interiorità di un individuo,
può manifestarsi in varie forme, come il dolore, la sofferenza, la paura, la
colpa, l’ansia o la depressione.
Queste emozioni e
sensazioni negative possono turbare l’equilibrio interiore, compromettendo la
capacità di una persona di mantenere una visione chiara e autentica di sé e di
relazionarsi in modo sano con gli altri. L’aggressione dell’interiorità può
anche influire sulle credenze e sui valori di un individuo, portando a una
crisi di identità o a una perdita di senso e direzione nella vita. In alcuni
casi, la distorsione dell’interiorità può spingere una persona a compiere
azioni dannose per se stessa o per gli altri, amplificando ulteriormente il
ciclo di sofferenza e negatività. Per questi motivi, la lotta col drago non è
solo un modo allusivo per riferirsi alla gestione del male. Essa, piuttosto, va
adeguatamente preparata, dando avvio o confermando il processo di conoscenza di
sé e delle proprie risorse interiori: non c’è alcuna lotta senza una vita
desta.
Dobbiamo, quindi,
impegnarci nel processo di scoperta interiore e di crescita personale,
esplorare e coltivare la nostra interiorità e affrontare il male con saggezza,
discernimento e compassione. Solo allora saremo in grado di affrontare le sfide
che il male ci pone, proteggere la nostra interiorità e contribuire alla
creazione di un mondo più equo, pacifico e amorevole per tutti. Nella lotta col
drago, quindi, l’obiettivo non è negare la realtà dell’avversario, ma piuttosto
trovare il cammino verso quel particolare tipo di speranza delineato da
Bernanos quando osservava: «La più nobile manifestazione della speranza è il
superamento della disperazione».
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