ed ascensore sociale
Che cosa comporterà l’aggiunta della parola «merito»
nella denominazione del ministero dell’Istruzione?
-di
Sandra Cavallini
Si
va a scuola per apprendere ed imparare ad apprendere costruttivamente e
solidarmente con gli altri. Si va a scuola per diventare noi stessi, cioè per
scoprire i nostri talenti insieme agli altri, fatti della nostra stessa pasta
umana, con cui condividiamo habitat e destino. Il motto della Rivoluzione
francese, libertà, uguaglianza, fraternità, ci insegna che la libertà senza
regole tende a distruggere l’uguaglianza, che l’uguaglianza, se imposta, tende
a distruggere la libertà, che la fraternità non può essere imposta, ma è
necessaria ad entrambe.
Il
ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara spiega che la scuola
deve, in primo luogo, individuare e valorizzare talenti e capacità di ognuno,
indipendentemente dalle sue condizioni di partenza, affinché ciascuno possa
avere una opportunità nel proprio futuro. Il merito è pure un valore
costituzionale, declinato nell’art. 34. E’ su questi presupposti che lavoreremo
per una scuola che sia un ascensore sociale e che non lasci indietro nessuno.
Il merito, dunque, come leva indispensabile per favorire l’emancipazione
sociale. Ma siamo sicuri che funzioni?
Il
Ministro difende la nuova denominazione legandola al riscatto sociale. Ma nella
meritocratica America ci sono volute cinque generazioni per passare dalla
povertà alla classe media, mentre nell’Europa del welfare ne bastano due o tre.
La
meritocrazia americana dimostra che per garantire a “ciascun giovane
un’opportunità nel proprio futuro” non basta valorizzarne i talenti e le
capacità indipendentemente dalle sue condizioni di partenza, bensì bisogna
farlo tenendo conto di queste condizioni, perché per tagliare uno stesso
traguardo (scolastico e poi lavorativo), chi parte più indietro deve fare più
strada. In effetti i nostri costituenti assegnarono alla Repubblica “il compito
di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di
fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Una società è giusta quando riesce a garantire
che sia selezionato il candidato più meritevole, sia esso figlio dell’operaio e
del contadino.
“L’idea
di meritocrazia ha molti meriti, ma la chiarezza non è tra questi» (Amartya
Sen, Nobel per l’economia)”.
Esemplifichiamo.
Scenario
1- Verifica di Italiano. Caty passa il fine settimana a studiare ed ottiene un
ottimo voto. Marco passa il fine settimana a studiare, ma si concede anche
pause per uscire con gli amici. La verifica non va male, ma il voto non è alto.
Scenario
2- Verifica di Italiano. Caty passa il fine settimana a studiare ed ottiene un
ottimo voto. Marco passa il fine settimana a studiare, ma, sollecitato
dall’amica Camilla, le offre aiuto nello studio. Marco è anche membro di
un’associazione giovanile di volontariato. La verifica di Marco non va male, ma
il voto non è alto.
Forse
chi ha rinominato il Ministero dell’Istruzione aggiungendo “merito” ha
considerato lo scenario 1. Caty si è impegnata più di Marco, ha guadagnato il
successo con i suoi sforzi e quindi “merita” di essere premiata. Eppure ci
sembra ingiusto che gli sforzi di Marco nello scenario 2 (aiutare gli amici e
fare volontariato) non siano riconosciuti come meritevoli. La meritocrazia è
pure un ideale di giustizia sociale, e nello scenario 2 sembra piuttosto
“ingiusto” premiare Caty e non Marco.
Amartya
Sen ha ragione: la meritocrazia, e l’idea di merito, sono concetti piuttosto
vaghi. “La mancanza di chiarezza può essere riferita al fatto che il concetto
di merito è condizionato dalle nostre opinioni su cosa sia una buona società”.
Nel caso della scuola, quindi, occorrerebbe partire da considerare che cosa
costituisca una «buona scuola», qual è il telos (scopo ultimo) dell’istruzione.
Da lì poi capiremo ciò che vogliamo premiare.
Melchiorre Gioia scriveva: «Le idee che corrispondono alla parola merito
sono diverse: esse cambiano d’oggetto, di grado, di scopo, non solo tra i
popoli, ma anche tra classi sociali nella stessa città».
Un
altro scopo della scuola poi è quello di trasformare le persone in cittadini. Ciò che rende davvero un cittadino tale non
sono soltanto i buoni voti a scuola, ma è l’uso pubblico e libero della ragione
sulle questioni della nostra società. I padri costituenti che hanno inserito
l’art. 34 della Costituzione Italiana, dove si parla di «capaci e meritevoli »,
hanno pensato ad un testo che vive nella sua interpretazione e contestualizzazione. È questo che rende la nostra Costituzione una
delle più belle del mondo. La discussione è il sale della democrazia: ebbene
discutiamo anche sulla meritocrazia.
È
bene ricordare poi che merito e successo non sono sinonimi. Nei Miserabili
Victor Hugo diceva: «Il successo è una cosa piuttosto lurida; la sua falsa
somiglianza col merito inganna gli uomini», questo perché al successo individuale
concorrono tanti fattori non “meritori”: la fortuna, l’aiuto altrui, le
condizioni di partenza, i talenti personali. Questa consapevolezza ci salva
anche dall’equivoco di equiparare fallimento e demerito. Cogliamo la differenza
tra gli scenari 1 e 2 nella storia di Caty e Marco? Comprendiamo che la valorizzazione del merito
è una delle logiche che governerà la scuola e la società, ma non l’unica su cui
dovrebbero reggersi?
Carl
Gustav Jung così si espresse: «Con lo spirito del tempo non è lecito scherzare:
esso è una religione, ..., un credo, a carattere irrazionale, con l’ingrata
proprietà di volersi affermare quale criterio assoluto di verità…... Lo spirito
del tempo si sottrae alle categorie della ragione umana. Esso è un’inclinazione,
una tendenza di natura sentimentale, che agisce su basi inconsce esercitando
una suggestione sugli spiriti più deboli e trascinandoli con sé. Pensare
diversamente da come si pensa oggi dà l’impressione di una cosa non giusta;
persino di una scorrettezza, una morbosità, ..., ed è quindi socialmente
pericoloso per il singolo».
“Istruzione ed Educazione”
La Costituzione italiana stabilisce che la
scuola sia aperta a tutti e che l’istruzione sia un diritto di tutti (artt. 3 e
34); che l’insegnamento sia libero, nel rispetto della normativa nazionale e
finalizzato ai bisogni degli studenti (art.33). La scuola è considerata da ogni
Paese come bene comune su cui è opportuno investire. Infatti, dalla ricerca
OCSE 2018, l’obiettivo di ogni Stato dovrebbe essere quello di coprire le spese
per la ricerca, l’istruzione, l’educazione e la formazione. Si tratterebbe di
investimenti sul personale, sulla formazione, sulla innovazione didattica,
sulla edilizia scolastica, finalizzati al diritto al futuro delle giovani
generazioni.
La
scuola è una organizzazione fatta di valori, norme e pratiche; è una realtà
complessa, identificabile come istituzione, servizio e comunità. Istituzione
perché svolge funzioni per la società, come l’innalzamento del livello di
istruzione e formazione del cittadino; servizio in quanto fornisce prestazioni
ad individui e gruppi; comunità perché è un ambiente sia fisico che simbolico
per l’apprendimento.
La
scuola è cultura del sapere sistematico, condiviso e trasmissibile; è normata
mediante una organizzazione fatta di orari e curriculi, richiede competenze agli
operatori. Si parla di una ridefinizione del ruolo della scuola od addirittura
della sua fine, a fronte della difficoltà di seguire un modello normativo
complesso.
Se
la scuola è infatti il principale strumento di trasmissione del sapere tra una
generazione e l’altra, le modalità però cambiano (Postman). Il rapporto
educazione / società si è sviluppato su tre fasi / modelli: dipendenza, ordine
sociale (E. Durkheim), autonomia, crisi della dipendenza e pluralismo culturale
(R. K. Merton), interdipendenza, trasformazione del pluralismo in complessità
sociale (N. Luhmann). Nel caso della dipendenza, il legame tra individuo e
società è stato lineare e diretto, per cui il riferimento diventava quello
della conformità, dove l’educazione dipendeva dalla società; nel caso della
autonomia, il legame è stato invece discontinuo e dialettico, per cui il
riferimento era quello del conflitto e della negoziazione; nel caso della
interdipendenza, infine, il legame tra individuo e società è stato ambivalente,
circolare tra strutture sociali ed educative.
Il luogo dove si sono sviluppati questi modelli è proprio la scuola,
dove infatti troviamo due concetti opposti: ‘rifugio’ e ‘panorama’. Il rifugio,
vedi la casa, è il primo modo di vivere lo spazio, produce equilibrio tra
interno ed esterno, tra sé e gli altri. È un luogo dove si ha diritto d’asilo e
si condividono esperienze di vita con i propri pari e con gli adulti; in cui le
conoscenze sono fatte proprie allo scopo di migliorare se stessi ed il mondo.
Una area protetta garantita da tutta la Comunità educante. Ma la scuola è anche
un panorama, vasto e luminoso, è un trampolino di lancio, un luogo di
simulazione per la vita adulta.
Oggi
assistiamo alla sfida della complessità del sapere in una sua costante
rielaborazione e contestualizzazione (Morin, 1999). La attuale epoca mette in
discussione spazi e tempi per l’apprendimento e la organizzazione della
didattica. Lo abbiamo visto nella fase di emergenza epidemiologica covid 19. Se
la didattica a distanza ha fatto emergere diseguaglianze negli spazi domestici,
nelle strumentazioni mancanti, la scuola invece, riorganizzandosi, ha saputo
interagire con studenti e famiglie leggendo la complessità, acquisendo capacità
di resilienza mantenendosi comunità educante, ha sviluppato negli studenti le
Life Skills, cioè le competenze per la vita.
La
scuola e i conflitti tra docenti, allievi e genitori
Stante
che la scuola è luogo di relazioni complesse tra ragazzi, insegnanti, famiglie, possono emergere differenze di vedute,
conflitti, ecc. Fra l’altro i ragazzi, nelle scuole italiane, rimangono insieme
per anni in luoghi chiusi, con poche pause tra una lezione e l’altra, spesso
cattedratica e raramente laboratoriale, cosicché da intraprendere legami
amichevoli duraturi, o situazioni conflittuali.
Il conflitto andrebbe mediato, in quanto spesso fa emergere bisogni non
“nutriti”, valori ed opinioni, a cui sono collegate le componenti emotive ed
ideali. Infatti, nel conflitto non c’è emozione che non sia guidata da una
convinzione, e non c’è idea che non sia animata da una emozione.
Certamente,
se dei ragazzi mettono in atto dei comportamenti violenti, è perché non sono in
grado di affermare in modo adeguato se stessi ed i propri bisogni, Anche un
cosiddetto bullo ha diritto ad essere accolto e sostenuto con la sua storia
personale, le sue fragilità, al di là della maschera da duro; così come ne ha
diritto il ragazzo-vittima con i suoi bisogni di appartenenza e di affermazione
di sé. L’educatore dovrebbe nutrire
fiducia in un percorso di recupero personale grazie alla qualità delle relazioni,
anche in situazioni estreme, che vedono da un lato l’umiliazione della vittima,
e dall’altro il comportamento asociale del bullo. Ma gli educatori riescono a mantenere
equilibrio, discernimento?
Si legge "Si torna a scuola, ma resta alto il rischio di burnout tra 16-18 anni (ANSA); gli studenti italiani sono 'ignoranti', non sanno leggere, sono ansiosi, insoddisfatti (OCSE), soffrono di esaurimento, frustrazione, cinismo verso la scuola ed il futuro”. Ovviamente questi studenti hanno maggiori rischi di dispersione scolastica, e di sviluppare forme di depressione. Temiamo che l’interesse per il rientro a scuola in sicurezza abbia distolto l'attenzione dai suoi vecchi problemi. Stiamo assistendo all’allontanarsi di alcune fasce della popolazione scolastica dall'idea di una scuola come luogo di crescita personale e di investimento verso il futuro: se prima si parlava di disinnamoramento dei giovani per la scuola, adesso è vicino il distacco da essa. Ma noi confidiamo nella professionalità e sensibilità di coloro che quotidianamente vi operano.
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