- di Giuseppe Savagnone*
Le
tende contro il mercato
Il
moltiplicarsi delle tende impiantate dagli studenti davanti alle sedi
universitarie è diventato il simbolo di una protesta che immediatamente
riguarda il costo eccessivo degli affitti e che ha, però, anche altri
significati su cui vale la pena di soffermarsi.
Ma
cominciamo dal livello più immediato, quello logistico. Il caro-affitti, nelle
città universitarie, ha raggiunto livelli insostenibili (si calcola che nel
giro di due anni l’aumento sia stato del 20%). E colpisce la fascia più
vulnerabile degli studenti, quelli fuori-sede. Ragazzi le cui famiglie fanno
già grandi sacrifici per mantenerli agli studi accollandosi, oltre il costo
delle tasse universitarie, anche quello del mantenimento in una città diversa
dalla propria.
Ragazzi,
bisogna aggiungere, che vivono loro stessi una condizione problematica, lontani
come sono dal luogo dove sono cresciuti e dove, oltre a poter contare sulla
famiglia, hanno una rete di amicizie, a volte anche legami sentimentali, che
tentano disperatamente di mantenere malgrado la distanza materiale, attraverso
Whatsapp o Skype, sperimentando però sulla loro pelle la differenza tra i
rapporti “veri” e quelli solo virtuali.
La
maggior parte proviene dal Sud, che ormai da diversi anni conosce un esodo di
cervelli e di competenze a favore delle università del Nord. Un fenomeno
disastroso per il Meridione, che risulta così sempre più desertificato,
spogliato com’è delle sue risorse umane più qualificate. Dove il problema non è
tanto il livello dei docenti – ce ne sono di ottimi anche negli atenei
meridionali – ma le diverse opportunità che si aprono a livello lavorativo, già
prima della laurea, a uno studente che esce da una università di Milano o di
Bologna e uno che acquisisce lo stesso titolo in quella di Palermo.
Sono
questi giovani “migranti” che le cosiddette “leggi del mercato” costringono a
vivere, nelle città dove studiano, accampati in alloggi spesso squallidi,
condivisi con estranei, pagati a prezzi esorbitanti, sfruttando il bisogno
assoluto che essi hanno di trovare comunque un tetto. Ennesimo esempio di come
la società neocapitalista sia organizzata in modo da penalizzare i più deboli,
al di fuori di ogni criterio di umanità.
Risposte
inadeguate
Questa
situazione ha radici remote e non può certo essere imputata a un governo in
carica da pochi mesi che ora, davanti al montare del malcontento, sta cercando
di tamponare, sbloccando 660 milioni destinati ad attenuare, se non a
risolvere, il disagio.
Ciò
che può essere imputata alla destra al governo, invece, è la rozzezza della
risposta che alcuni dei suoi membri ha ritenuto di dare alla protesta dei
ragazzi. Spicca quella del ministro della Pubblica Istruzione, Valditara, che
non perde occasione per mostrare la sua difficoltà culturale a sintonizzarsi
con le istanze educative a cui il suo ministero dovrebbe rispondere.
Aveva
già dato prova di sé stigmatizzando pubblicamente la bella lettera in cui una
preside di Firenze aveva richiamato gli studenti del suo liceo a ribellarsi
alla cultura dell’indifferenza e a rimanere vigili contro ogni forma di
violenza e di chiusura.
Adesso, davanti a una protesta che esprime disperazione, il ministro ha ritenuto opportuno spostare il discorso sul piano della polemica partitica, precisando che la responsabilità della situazione è dei sindaci di sinistra. Una lettura che ha indignato perfino un altro membro del suo stesso governo, Anna Maria Bernini, la responsabile dell’Università, la quale ha sottolineato, in polemica col collega, che il problema va affrontato ben al di là delle beghe di parte.
Altrettanto
scoraggiante è stata la reazione di Matteo Savini, ministro delle
Infrastrutture, che, nella fretta di sfruttare retoricamente la situazione, ha
deprecato che nel suo dicastero non ci sia mai stata «una direzione riservata
agli affitti degli studenti, degli impiegati, degli operai» e si è
personalmente impegnato a crearla, salvo a scoprire che l’ufficio c’è già e che
era lui a non conoscerne l’esistenza. A conferma delle accuse che gli vengono
rivolte di dedicarsi più ai giri elettoli nelle piazze che al suo lavoro di
ministro.
A
queste “uscite a vuoto” fanno eco quelle dei giornali di destra, come «Libero»,
che ha titolato, in prima pagina: «Fatevi il mazzo non la tenda» e il cui direttore,
Vittorio Feltri, nel suo editoriale, scrive che «è ovvio, un’antica abitudine,
che le persone poco abbienti (…) pretendano comunque di vivere come i ricchi.
Esse non ragionano ma voglio ottenere certi beni (…). Non sanno, o non vogliono
sapere, che in tutte le capitali, non solo d’Europa, un monolocale costa un
occhio della testa quanto nei pressi della nostrana Madonnina». E si appella al
«mercato», contro cui «è assurdo protestare».
Un
disagio più profondo
Ma
l’immagine di questi ragazzi e ragazze che hanno dovuto trasferirsi nelle
tende, per far capire a una società di adulti la loro condizione, evoca un
disagio più profondo di quello riguardante il caro-affitti. Il nostro non è un
paese per giovani. Basti pensare al problema del lavoro. Il caso di quelli del
Sud, che, per sperare di trovarne uno, devono andare a studiare e a vivere
lontano dalle loro case, è emblematico.
Ma
il problema riguarda le nuove generazioni nel loro complesso. Pochi decenni fa
si cominciava a lavorare prima dei venticinque anni. Oggi quasi dieci anni
dopo. E l’impiego, che una volta nella maggior parte dei casi era definitivo,
ora è quasi sempre a tempo determinato, lasciando aperta l’incognita del
futuro. (Proprio nel Consiglio dei ministri del 1° maggio, che voleva simbolicamente
evocare la centralità del lavoro agli occhi del governo, si è incrementato il
sistema dei voucher, favorendo ulteriormente lo sfruttamento del precariato).
La
ricaduta sulla possibilità di questi giovani di mettere su una famiglia è sotto
gli occhi di tutti. Ci si sposa sempre più tardi. Nell’attesa si convive. La
tanto deprecata diminuzione della natalità è una conseguenza inevitabile sia di
questi matrimoni tardivi, rispetto ai tempi di fecondità della coppia, sia
dell’incertezza del “tempo determinato”, sia dalla mancanza, soprattutto nel
Meridione, di quella rete di supporti e di servizi che in altri paesi rendono
possibile alle donne di affrontare la maternità senza dover rinunziare al
lavoro.
Se
l’essere attendati è un simbolo di provvisorietà e di fragilità, se confrontato
con l’abitare in una vera casa, la protesta delle tende esprime bene non solo
l’esclusione di questi giovani da appartamenti troppo cari, ma una condizione
esistenziale che li tiene ai margini della società e li deruba del futuro.
La
nostalgia di una vera “casa”
Vi
è, infine, un terzo livello di significato, a cui l’immagine degli studenti
accampati nelle nostre piazze fa pensare. Al di là del luogo materiale in ci si
può vivere, al di là di un contesto sociale ed economico accogliente in cui
essere inseriti, ciò di cui i giovani oggi vivono la mancanza è un orizzonte di
valori che consenta loro di dare un senso ai loro problemi e alle loro
esperienze. Perché noi adulti, a nostra volta, non abbiamo più certezze e non
siamo in grado, perciò, di comunicarle ai nostri figli.
Viviamo
in un mondo in cui gli imponenti palazzi delle ideologie sono miseramente
crollati. Per certi versi bisogna rallegrarsene, perché queste belle
costruzioni facevano pagare la sicurezza con la rinunzia a pensare. Il guaio è
che al loro posto è rimasto il vuoto. E anche il vuoto non favorisce la
riflessione e la ricerca, perché spinge le persone a riempirlo moltiplicando
gli stimoli superficiali e i miraggi illusori che possono fare da surrogato al
senso, fino al punto da dimenticare che se ne ha disperatamente bisogno.
È
questa la condizione di tanti giovani che al vuoto si sono arresi. Emblematico
il caso dei NEET (Not in employment, education or training) – persone che non
studiano, non lavorano né cercano lavoro – , che in Italia rappresentano il
25,1% della popolazione compresa tra i 15 e i 34 anni (circa tre milioni di
giovani). Ma tanti altri, che pure sono studenti o lavoratori, si sono abituati
a questa desertificazione valoriale e l’accettano come normale.
Da
questo punto di vista la tenda – riparo, ma provvisorio – può essere il
richiamo alla consapevolezza che non ci si può rassegnare a non avere una casa
e che quella in cui abitiamo attualmente non lo è.
*
Scrittore
ed Editorialista. Responsabile del sito della Pastorale della Cultura
dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu
Foto: Repubblica
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