- p. paolo Curtaz - Commento al Vangelo -
A
me, così come sono, il Signore rivolge questa Parola tagliente e consolante. Anche
se non sono capace. O non vedo. O non ho le forze. A me, che mi sto scoprendo
agapetoi, amato. E che, Dio voglia, scelgo finalmente di amare.
Non sono capace, ovvio, non lo siamo, che
scoperta. Ma è lo Spirito, il grande atteso, che illumina, rischiara, accende,
scalda, scuote. È colui che rende possibile l’impossibile.
Siamo
chiamati alla speranza, che è il presente del nostro futuro (San Tommaso
d’Aquino). A spargere speranza, a viverla. Ad avere il cuore colmo, anche se
dubitiamo, nonostante la resurrezione, nonostante le tante prove che anche noi,
come gli apostoli, abbiamo visto e vediamo. Perché il Signore è con noi tutti i
giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20). Perché a noi, a me, il Signore
affida l’annuncio del Regno.
Se
ne va
Se
ne va, il risorto, torna al Padre. Parte per restare, per portare nel cuore di
Dio il cuore di un uomo, di ogni uomo. Compiendo un inaudito gesto di fede.
Folle e profetico, grandioso e fecondo. Un gesto di fede nell’umanità, in noi,
in me.
Affida
ad uno sparuto gruppo di discepoli, fragili uomini e donne, l’incarico di
proseguire l’annuncio, di costruire il Regno, finché egli venga.
Uomini
e donne che ancora dubitano, mentre, prostrati, lo riconoscono Messia e
Signore. Perché, come abbiamo visto con Tommaso, il dubbio è parte essenziale
nella vita del credente, e il dubbioso, cioè il curioso, l’irrisolto, è
stimolante spina nel fianco che impedisce alla Chiesa di diventare arrogante di
Dio.
Ha
fede in noi, il risorto. Affidandoci delle parole, le sue parole, la Parola, e
quel poco che è riuscito a costruire nei suoi tre anni di vita pubblica. A noi
che, invece, vorremmo fuggire, chiedere aiuto, lasciar fare a lui. Si ribaltano le posizioni, invece.
Dio
non risolve, affida. Non interviene, chiede.
Cosa
c’è da festeggiare?
Si
festeggia un ritorno, non una partenza. E sentiamo, dietro il sorriso di
facciata, la nostalgia straziante di un addio, di uno scambio sfavorevole, di
un’ingiustizia. Noi, sgomenti come i discepoli della Scrittura. Ma come?
Proprio ora che avevano capito, dopo il grande spavento della croce, si ritrovano
da soli?
Proprio
ora che, dopo una lunga latitanza, mi sono avvicinato alla fede e ho riscoperto
il gusto della preghiera, mi spostano il prete carismatico? Il confessore? Si
scioglie il gruppo? Se capissimo che Dio ci tratta da adulti! Se avessimo il
coraggio dell’ardire di Dio che ci fa uomini e donne, santi e profeti,
sacerdoti e re! Invece di restare a traino, eterni subalterni!
Gesù
ascende al cielo per essere il per-sempre-presente. Non vincolato da un corpo,
non segnato dallo spazio e dal tempo. Ma presente.
Come
scrive Mauriac: Dal giorno dell’ascensione noi abbiamo un Dio in agguato in
ogni angolo della strada. Paradosso insostenibile del cristianesimo! Prima ci
chiede di credere che il Dio invisibile si è fatto uomo. Ora ci chiede di credere
che il Dio accessibile si consegna nelle fragili mani di uomini peccatori e
incoerenti!
Elia
il profeta
Il
racconto di Luca prende ampiamente spunto dall’ascensione di Elia, una pagina
molto conosciuta in Israele e punto di riferimento anche per i neoconvertiti.
Troviamo il racconto dell’ascensione di Elia nel secondo libro dei Re: il
grande profeta viene rapito in cielo sopra un carro di fuoco, sparisce fra le
nubi e il suo discepolo, Eliseo, ha la certezza di ricevere almeno una parte
dello spirito profetico, avendolo visto sparire.
Luca
descrive l’evento dell’ascensione usando lo stesso paradigma: le nubi, simbolo
dell’incontro con Dio (ricordate il Sinai? O il Tabor?), i due uomini che
richiamano i due angeli testimoni della resurrezione, il bianco delle vesti,
segno del mondo divino…
Il
cuore del racconto non è, quindi, la descrizione di un prodigio, ma la
descrizione di una consegna: come Eliseo riceve lo spirito della profezia da
parte di Elia, così gli apostoli ricevono il mandato dell’annuncio da parte del
Risorto. L’ascensione segna l’inizio del tempo della Chiesa.
Cielo
e terra
Sono
gli angeli a dare la chiave interpretativa dell’evento: non guardate il cielo,
guardate in terra, guardate la concretezza dell’annuncio.
I
discepoli del risorto sono chiamati ad annunciarlo, finché egli venga, a
renderlo presente. La Chiesa, allora, diventa il luogo dell’incontro
privilegiato col risorto, e assolve il suo compito solo quando rende presente
il vangelo. Questa Chiesa, santa e scassata. Matteo ci dice come. Dubitarono. Diversamente
da Luca, Matteo situa l’addio in Galilea, su di un monte. Monte che rappresenta
il luogo dell’esperienza divina: solo chi l’ha incontrato può raccontarlo con
credibilità.
E
in Galilea: il luogo della frontiera, del meticciato, del confine, dei pagani,
dei traditori ma, anche, il luogo dove tutto è iniziato, il luogo
dell’incontro, dell’innamoramento.
Solo
attingendo alle esperienze che ci hanno convertito possiamo annunciare con
verità il Signore.
Ecco
cosa significa non guardare il cielo: partire dalla povertà della mia
parrocchia, dal senso di disagio che provo nel vivere in un paese rissoso e
partigiano, dall’impressione di vivere alla fine di un Impero che crolla
pesantemente sotto un cumulo di verbosità, nell’incertezza di un futuro segnato
dalla pandemia. Ma, anche, qui e ora, un Chiesa che ha il coraggio di
interrogarsi nel Sinodo. Che vuole, sul serio, ascoltare lo Spirito.
È
iniziato il tempo della Chiesa, fatta di uomini e donne fragili che hanno fatto
esperienza di Dio e lo raccontano nella Galilea delle genti.
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