comincia in aula docenti
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di Nicola Campagnoli
Primo:
è sempre più evidente l’erronea convinzione che una persona possa, da leader
solitario, cambiare una situazione. Che un professore illuminato possa guidare
al meglio una classe, un responsabile d’indirizzo il suo dipartimento, un
preside un intero istituto scolastico.
In
nome di alcuni presupposti teorici ben saldi e chiari, in nome di alcune
iniziative innovative che si hanno chiare alla mente, in nome di una strategia
sulla carta più efficace e comunicativa, si finisce per cozzare contro il muro
della realtà dei colleghi, dei ragazzi o dei docenti che difficilmente si
adattano ai nuovi schemi. A quel punto il collega o il dipendente, o anche lo
studente, diventano l’ostacolo disturbatore, l’elemento conservatore che “non
capisce”, e quindi rallenta tutto il processo che si vorrebbe attivare.
Non
è difficile rendersi conto di questa piaga: un prof che parla male dei suoi
colleghi perché “non comprendono i ragazzi, invece io…”, un dirigente che vuole
creare un nuovo indirizzo nel plesso scolastico (che magari per niente si
adatta alla natura di quell’istituto, ma farebbe “passare alla storia” il suo
nome proprio per la novità introdotta), un capo dipartimento che obbliga i suoi
colleghi ad adottare un libro piuttosto che un altro “visto che le altre
pubblicazioni sono tutte obsolete”…
Tale
errore si fonda su una visione che non coglie due profonde verità. La prima,
che solo una comunità – un villaggio – educa (come ripete spesso Papa
Francesco). La seconda, che il cambiamento parte non da una preventiva
pianificazione teorica, bensì dal mettere le mani in pasta su un particolare,
su una situazione, tenendo gli occhi bene aperti su ciò che la realtà in quel
caso vuole indicarci, sulla direzione insita dentro le cose, dentro le
circostanze. Questo lavoro può esser portato avanti solo “insieme”, non uno
sull’altro, condividendo insieme “in azione” un pezzo di realtà e cercando di
sottolineare – uno all’altro – i segnali che dalla realtà emergono.
Il
secondo grande rischio in cui è facile cadere sono la maldicenza e il
pettegolezzo, tentazioni letali in ogni ambiente scolastico. Sembra non si riesca
a farne a meno, tanto sono forti e inestirpabili. Si potrebbe addirittura
affermare che se Dio ha permesso all’uomo di collaborare con Lui nella
creazione continua dell’universo, nell’uso delle risorse e nella costruzione di
un mondo più vivibile, il demonio cerchi di impedire questo “lavoro
costruttivo” proprio attraverso l’invidia, le parole dette alle spalle, il
rancore interiore. Riguardo a questo aspetto non credo ci sia bisogno di fare
esemplificazioni: è così presente, così forte, così evidente nelle nostre
scuole che lo abbiamo continuamente sotto gli occhi. Cosa si può dire su queste
“lingue lunghe”, che sono fardello di ognuno di noi? Nulla. Sembra quasi che
occorra rassegnarsi a tale oscurità. Però ci si può accorgere di due aspetti.
Uno è che questi “difetti” appartengono a tutti noi, ma principalmente a chi
vive una insicurezza esistenziale di fondo; a chi vive il lavoro non come
contributo alla realizzazione del destino del mondo, ma a chi lo svolge per
colmare una “solitudine affettiva”, una “insoddisfazione esistenziale” di
fondo. Costoro usano il lavoro per affermare se stessi, non per costruire un
bene comune.
L’altro
aspetto è che fa molto meglio chi dice apertamente le cose che pensa e vede,
chi le mette a confronto – magari col rischio di toccare la suscettibilità
dell’altro – senza farle pesare dall’ombra dei gruppuscoli o delle amicizie
complici e sotterranee. Meglio un ambiente in cui si litiga, si discute
animatamente, che una scuola in cui c’è un finto perbenismo che nasconde veleni
e accuse taciute.
Sembra
nulla, ma cominciare a rendersi conto di tali situazioni può far meglio alle
scuole dei fondi del Pnrr.
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