- di Alessandro D’Avenia
La
seconda: la probabile origine dei quasar (QUAsi stellAR: sorgente di luce quasi
stellare). Scoperti sessant'anni fa, sono i più potenti oggetti celesti noti:
brillano come un miliardo di miliardi di stelle ma in uno spazio ristretto come
potrebbe essere il nostro sistema solare. Lo studio di 48 galassie in cui sono
presenti hanno svelato che i quasar sono l'effetto dello scontro tra due
galassie. Gli astrofisici ci raccontano il passato, scoprendo le costanti che
regolano l'universo allo stesso modo in cui alcuni uccelli migrano e i mandorli
fioriscono: la scoperta della nostra origine è ipotesi sul nostro futuro.
Infatti queste due ricerche, anche se del tutto indipendentemente, ci
annunciano, proprio per la regolarità del cosmo, che il mondo finirà per uno di
questi due motivi: o il Sole, che è una di quelle stelle che invecchiando si
espande, ci inghiottirà o la nostra galassia si scontrerà con quella di
Andromeda.
Quando?
In entrambi i casi i due eventi sono ipotizzati tra 5 miliardi di anni: la fine
è sicura ed ha una scadenza indicativa, come i cibi.
Chi
se ne importa, direte voi, l'universo di anni ne ha 14 miliardi e noi solo 2
milioni: c'è ancora «tutto il tempo» prima della «fine del mondo»! Siamo
sicuri?
La
tanto abusata frase di Saint-Exupéry sul fatto che si vede bene solo con il
cuore, coglie un punto tutt'altro che sentimentale, confermato dalla fisica
quantistica: noi vediamo ciò che siamo. Scopriamo fuori di noi ciò che ci
portiamo dentro: in negativo quando non lo vogliamo affrontare, come quando
vediamo negli altri i nostri difetti (quanti tirchi, permalosi, invidiosi... lo
sono perché lo siamo prima di tutto noi); in positivo quando riconosciamo fuori
qualcosa che abbiamo prima accolto dentro di noi (chi è innamorato scopre il
cielo, chi è malinconico la Luna). E così quando scopriamo certi fenomeni
naturali vediamo noi stessi: la nostra origine è il nostro futuro.
Nei
5 miliardi di anni che restano c'è quindi non solo una scadenza ma un
promemoria del desiderio. Lo aveva già intuito Giuseppe Ungaretti, quando, in
trincea, durante la Prima guerra mondiale, in una notte estiva, scrisse su un
pezzetto di carta: «Chiuso tra cose
mortali (anche il cielo stellato finirà) Perché bramo Dio?» (Dannazione
- 29 giugno 1916).
Sentiva
nella carne la «mortalità» di tutto, persino del cielo stellato con la sua
illusione d'infinito già segnalata sulle carte dell'anima da Leopardi. Ma
l'ultimo verso testimonia, di fronte al “finire” di tutte le cose, che qualcosa
in noi si ostina invece a «in-finire»: la parola Dio viene infatti da un'antica
radice per «Luce», da cui termini apparentemente lontani come Zeus in greco,
dies (giorno) in latino, divino in italiano. Di fronte al buio che avvolge la
nostra origine e la nostra fine, il cuore brama luce.
Quel
volto fa capire al bambino che l'eden che il comunismo gli prometteva e
inculcava a scuola era una frottola, perché mancava l'essenziale: «Era prevista
ogni cosa nella società ideale: il lavoro entusiasta delle masse, i progressi
favolosi della scienza e della tecnica, la conquista dello spazio che avrebbe
portato l'uomo verso galassie sconosciute, l'abbondanza materiale e i consumi
ragionevoli legati al cambiamento radicale della mentalità. Tutto, proprio
tutto! Eccetto... Non pensai “l'amore”, semplicemente rividi la giovane donna
in mezzo alla grande calma soleggiata delle nevi. Una donna con gli occhi
chiusi e il cui volto si protendeva verso colui che amava» (Il libro dei brevi
amori eterni).
Quel
volto di donna che piangeva l'amato, morto nella guerra voluta da chi occupava
poco prima quegli stessi spalti, smascherava il potere con cui l'uomo e gli
Stati si illudono di esistere, di essere padroni del tempo, opponendogli
l'unico metodo di riuscirci davvero: amare. Infatti chi ama ha «tutto il
tempo»: lo riceve (da una carezza, da una cosa bella, da un amico...) e lo dà
(in una carezza, facendo una cosa bella, a un amico...). Invece per chi cerca
di accaparrarsi il tempo, usando ed esaurendo le cose e gli altri (e fa quindi
in vario modo la guerra), il mondo finisce continuamente.
L'amore,
come la luce, piega tempo e spazio in una sorta di legge della «relatività
esistenziale», che poi è la legge della «relazione universale». Diciamo infatti
di una cosa che è la «fine del mondo» sia perché è talmente bella (la bellezza
è amore in atto) da crearne uno nuovo, come fa l'amore della donna sulle
tribune, sia perché qualcuno lo distrugge, come coloro che, osannati,
occupavano quelle stesse tribune.
Amore
o disamore: sta a noi scegliere quale «fine del mondo» fare, senza aspettare
che il Sole ci inghiotta o che ci investa Andromeda.
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