- LIBERI
DALLE CATENE
DI PAROLE STORTE -
-
di GLAUCO GIOSTRA
- Da
troppo tempo, nel dibattito pubblico, gli slogan e i dommatismi, specie se
declamati con l’enfasi e i decibel con cui in genere si nasconde il vuoto,
hanno esiliato i contenuti e le idee. Di nuovo, con l’avvento dell’attuale
maggioranza, vi è un’insolita ricorrenza di frasi che suonano come
insopportabili stecche. Da personaggi che ricoprono alte responsabilità
istituzionali si è costretti ad ascoltare che in via Rasella i partigiani si
accanirono contro « una banda musicale di semi-pensionati», che le stragi di
immigrati in mare sarebbero evitate se si seguisse l’insegnamento del nostro
ministro dell’Interno di rimanere in patria anche se disperati «per
responsabilità verso quello che si può dare al proprio Paese» e che comunque,
ove derogando a una tal salvifica dottrina, dovessero prende irresponsabilmente
il mare e arrivare alle nostre coste, andrebbero sottoposti a uno «sbarco
selettivo», respingendo il «carico che ne dovesse residuare»; che dovremmo
evitare la «sostituzione etnica»; che il reato di tortura andrebbe abolito
perché «il rischio di subire denunce e processi strumentali potrebbe
disincentivare e demotivare l’azione delle Forze dell’ordine, privando i
soggetti preposti all’applicazione della legge dello slancio necessario per
portare avanti al meglio il lavoro». L’esiguità dell’elenco è dovuta a quella
dello spazio qui disponibile, non già del campionario offerto dalla cronaca.
Si
dirà, sono soltanto parole, per di più fatte segno spesso anche di autocritica:
“uno sbaglio”, “una sgrammaticatura”, “un problema di ignoranza”, “un
malinteso”. Nel singolo caso si può anche essere portati a credere alla buona
fede dell’improvvido locutore, ma questo pullulare di “voci dal sen fuggite”,
questo diffuso gorgogliare che le menti più ingenue o più deboli non riescono a
contenere, rimanda a meno rassicuranti spiegazioni. Si dirà: l’importante è che
si contrasti l’eventuale tentativo di dar loro forma normativa. Vigilanza e
contrasto senz’altro necessari, ma non sufficienti.
«
Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo
sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto
tossico », scriveva sul suo Taccuino Victor Klemplerer, il filologo tedesco che
per le leggi razziali naziste fu privato della cattedra universitaria. Ci
dimostrò che le peggiori nefandezze sono preparate, accompagnate e giustificate
dalla corruzione delle parole. Ovviamente siamo lontani anni luce da quella
temperie politico-culturale. Oggi, sarebbe del tutto fuori luogo agitare un
allarme democratico. Ma non è anacronistico il monito a curare l’ecologia del
linguaggio. Rimane irresponsabile, infatti, sottovalutare quel
silenzioso e insidioso depositarsi delle parole nella coscienza sociale;
quell’inavvertita azione manipolativa del pensiero collettivo, che ne determina
un lento, ma inesorabile smottamento culturale e civile.
Le singole frasi
possono risultare infelici o sgradevoli, ma restano frasi. Quando si
congiungono ad altre sul medesimo tema, mandano sempre un messaggio. Prendiamo
esemplificativamente il delicato problema dei migranti. Se non riusciamo a
convincerli o a trattenerli coattivamente nei loro Paesi o in un Paese terzo;
se prendono “taxi del mare” per venire da noi; se non riusciamo a fermarli con
un “blocco navale”; se partiti non rendiamo estremamente complicato l’attracco
al nostro porto più vicino; se una volta attraccati non riusciamo a far
sbarcare soltanto quelli strettamente selezionati rimandando indietro il carico
residuo; se non si pongono in essere queste e altre misure di profilassi,
allora incombono problemi allarmanti. Infatti, o questi indesiderati
“clandestini” non si integreranno nel tessuto sociale e quindi dovranno vivere
di espedienti, spesso fornendo manovalanza per la criminalità; oppure si
inseriranno nel tessuto sociale cercando lavoro a danno dei nostri
connazionali, mentre dovrebbero venir “prima gli italiani”) e costituendo
famiglie, così che, approfittando della nostra crisi della natalità,
determineranno una evidente “contaminazione etnica”.
Con
il tempo sarà questo il messaggio risultante dall’assemblaggio delle tante
monadi verbali che si vanno disseminando. Una sorta di razzismo soft (oggi
nessuno si dichiarerebbe razzista, pur essendolo: è diffusa la moda del
“razzista con pudore”). Un humus culturale in grado di giustificare scelte
politiche, altrimenti indifendibili. Ma soprattutto in grado di individuare
negli immigrati la causa di problemi economici o sociali che un domani
divenissero preoccupanti: un capro espiatorio, infatti, è da sempre la risorsa
migliore per un governo in difficoltà. Come canta Gerard, nell’“Andrea
Chenier”, mentre di accinge a formulare una falsa accusa: « Nemico della
Patria?! È vecchia fiaba che beatamente ancor la beve il popolo».
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