Occorre riscoprire la bellezza del lavoro.
Per i giovani è diventato un fardello perché hanno smarrito il senso premiante della fatica
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di Alfredo Tradigo
Un
tempo chi lavorava cantava. Sulle impalcature e nei campi. Cantava perché aveva
un lavoro, un compito da svolgere e compagni con cui lavorare. Cantava perché
si sentiva qualcuno e portava a casa da vivere ai suoi. Con orgoglio. Il lavoro
arricchisce chi lavora, qualsiasi lavoro. Oggi invece chi fa lavori umili molto
spesso te lo fa pesare e ha il muso scuro, come chi sopporti un peso. Così, per
esempio, ti puoi sentire in imbarazzo ad avvicinarti al portinaio, arrabbiato
perché deve scaricare i sacchi dell’immondizia, e ti domandi: che cosa è
successo del lavoro?
Anni
di giuste rivendicazioni e diritti hanno fatto sì che il lavoro, in molti casi,
nella mentalità corrente, sia diventato un obbligo e un fardello
insopportabile. O forse un optional. Scrive il poeta libanese Khalil Gibran nel
suo intramontabile “Il profeta”, libro cult della cultura pop degli anni 60:
“Sempre vi è stato detto che il lavoro è una maledizione e la fatica una sventura.
Ma io vi dico che quando voi lavorate, voi portate a compimento una parte del
sogno remoto della terra, assegnato a voi quando quel sogno fu generato, e nel
mantenere voi stessi con fatica voi in verità state amando la vita, e amare la
vita attraverso la fatica significa essere in intimità con il segreto più
intimo della vita”.
È
così. Il lavoro, la passione per il lavoro ci portano dritti al cuore della vita.
Certo, ci vuole passione, perché il pane che non è impastato con amore non
profuma di pane. Questa passione ha fatto bello il nostro Paese, il Bel Paese
dall’arte al cibo, dall’artigianato ai campi coltivati come una ordinata
tavolozza di colori.
Questa
passione ha reso possibile nel dopoguerra la rinascita e il boom economico.
Negli anni 60 gli operai cantavano sulle impalcature o per strada, andando al
lavoro. Un altro mondo, più sereno. Non da rimpiangere, ma a cui guardare per
ripartire, ricominciando da quella passione per il lavoro, qualsiasi tipo di
lavoro sia, che i nostri padri avevano nel sangue, nel loro stesso Dna.
Ripartire per imparare – o re-imparare – che cosa sia il lavoro.
SCUOLA/ "Tutto facilitato: così i falsi adulti mandano
i giovani alla deriva"
Tutti
vogliono studiare, ma lo studio, per chi abbia da sempre fatto il manovale, non
è un diritto scontato. Ha il sapore di una conquista, di un privilegio. Solo
chi conosce la fatica del lavoro studia con passione, perché sa che anche lo
studio è un lavoro, ma più comodo e più bello. Tutti vorrebbero fare
l’università, ma ricordiamo che il Politecnico di Milano nacque nel 1838 come
“Società incoraggiamento arti e mestieri”, cioè nacque dal basso, stile “don
Bosco”: formava giovani artigiani che sarebbero poi diventati la classe
dirigente del nostro Paese.
Come
scriveva Erich Fromm nel suo L’arte di amare (altro libro culto degli anni 60)
anche l’artigiano si unisce in qualche modo alla materia e sperimenta con essa
una comunione che gli riempie la vita e non lo fa sentire solo.
Per
capire tutto questo basta osservare, alla base del Duomo di Milano, gli
archetti pensili scolpiti nel marmo che corrono lungo tutto il perimetro. Ogni
archetto è sostenuto da piccoli capitelli scolpiti, uno diverso dall’altro (una
foglia, un animale, un volto o un fiore), e che sono la firma di umili, anonimi
scalpellini che hanno voluto lasciare il ricordo del loro lavoro. Una fatica in
più? O l’orgoglio di essere stati attori, col proprio lavoro, di un disegno più
grande e nobile – il Duomo di Milano – che ha sfidato i secoli? Perché, chi l’ha
detto che essere muratori, scalpellini o falegnami sia un lavoro umile e da
ignoranti? Per essere falegnami, per esempio, occorre frequentare una scuola
d’arte dove si studiano molte materie, si impara a disegnare dal vero e in
prospettiva e a intagliare il legno senza spaccare la vena. Roba che un
professore universitario nemmeno si sogna.
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