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venerdì 15 agosto 2025

GENITORI INCOERENTI

 


Paolo Crepet contro l’ipocrisia dei genitori: “A 16 anni possono fare le 6 del mattino ma non possono lavorare. 

Spesso il soccorso che garantiamo è sproporzionato e portatore di guai”



Di Lucio Scribani

Paolo Crepet torna a sollevare una delle contraddizioni più evidenti del sistema educativo: la disparità tra maturità comportamentale e responsabilità giuridica degli adolescenti.

Lo psichiatra e sociologo, in un’intervista rilasciata al Il Messaggero, ha messo in luce l’incoerenza di una società che permette ai sedicenni di adottare comportamenti da adulti nella vita sociale, ma li priva della possibilità di sottoscrivere contratti di lavoro autonomi.

“I ragazzi possono essere responsabilizzati, assumersi la responsabilità delle proprie scelte”, ha dichiarato l’esperto, sottolineando come gli adolescenti possano “comportarsi da adulti quando escono alla sera, bevono, tornano tardi”, ma necessitino dell’autorizzazione dei genitori per formalizzare un contratto lavorativo, anche per mansioni semplici come “fare i camerieri al sabato sera”. La provocazione di Crepet è diretta: “A 16 anni non hai la possibilità di lavorare, mentre invece hai la maturità per fare le 6 del mattino?”.

Didattica assistenziale e fragilità indotta: la critica al sistema scolastico

L’analisi di Crepet si estende al sistema educativo, dove individua un “ricorso eccessivo a didattiche di assistenza” che, secondo l’esperto, “sono cresciute in modo esponenziale”. Il celebre psichiatra sostiene che questo approccio, lungi dal supportare gli adolescenti, finisca per “scoraggiarli”, creando una dipendenza dall’aiuto esterno che compromette lo sviluppo dell’autonomia personale.

“Molte difficoltà sono fisiologiche, data l’età, e non derivano da patologie“, ha precisato Crepet, criticando la tendenza a medicalizzare ogni forma di disagio adolescenziale. La responsabilità principale di questa situazione, secondo Crepet, ricade sui genitori della Generazione Z, descritti come adulti che hanno “fatto a gara con i figli a chi è più adolescente”. Lo psichiatra denuncia l’atteggiamento di quei genitori che permettono ai figli “una vita da adulto” per poi intervenire il giorno seguente “a lamentarsi con i professori per i voti, giustificandolo“.

Genitori “paracadute” e la responsabilità educativa mancata

“Spesso il soccorso che garantiamo è sproporzionato e portatore di guai, perché spinge i ragazzi a diventare ancora più fragili”, ha concluso l’esperto, individuando in questo paradosso educativo una delle cause principali della fragilità che caratterizza le nuove generazioni. La soluzione proposta da Crepet è chiara: “Smettendo di scegliere al posto suo”, restituendo ai giovani la possibilità di confrontarsi con le responsabilità e le conseguenze delle proprie azioni, anche in ambito lavorativo.

Le dinamiche dell’iperprotezione: dal supporto alla dipendenza

L’assistenzialismo eccessivo, di cui parla Crepet, produce conseguenze paradossali che vanno oltre le intenzioni benigne dei suoi promotori. La sovraprotezione sistematica dei giovani genera una dipendenza strutturale dall’aiuto esterno, impedendo lo sviluppo naturale dell’autonomia decisionale. Gli adolescenti, abituati a ricevere supporto costante per ogni difficoltà, perdono progressivamente la capacità di confrontarsi con le sfide ordinarie della crescita, sviluppando una percezione distorta delle proprie competenze e della realtà circostante.

La medicalizzazione del disagio giovanile rappresenta un ulteriore aspetto critico di questo fenomeno. Difficoltà che rientrano nella fisiologia dell’adolescenza vengono spesso interpretate come patologie che richiedono interventi specialistici, creando un circolo vizioso dove la normalità viene sostituita dalla ricerca compulsiva di diagnosi e terapie. L’approccio non solo deresponsabilizza i giovani, ma alimenta un mercato della fragilità che prospera sulla creazione artificiale di bisogni terapeutici.

Effetti a lungo termine: dalla fragilità indotta all’immaturità strutturale

La responsabilità educativa dei genitori si manifesta attraverso atteggiamenti contraddittori che alternano libertà totale e interventi protettivi inappropriati. Genitori che concedono autonomia comportamentale completa si trasformano in “paracadute” quando i figli devono affrontare le conseguenze delle proprie azioni, interferendo nei rapporti con le istituzioni scolastiche e compromettendo il processo di apprendimento sociale. L’alternanza tra permissivismo e iperprotezione impedisce ai giovani di sviluppare una maturità coerente e li mantiene in uno stato di dipendenza prolungata.

Le conseguenze di lungo periodo dell’assistenzialismo educativo si manifestano attraverso la formazione di generazioni caratterizzate da fragilità strutturale e immaturità prolungata. I giovani cresciuti in contesti iperprotettivi sviluppano aspettative irrealistiche verso il mondo esterno, aspettandosi lo stesso livello di supporto e comprensione che hanno ricevuto in ambito familiare e scolastico. Tale dissonanza tra aspettative e realtà genera frustrazione, ansia e difficoltà di adattamento che si prolungano ben oltre l’adolescenza.

L’incapacità di gestire autonomamente le difficoltà ordinarie si traduce in una dipendenza cronica dai meccanismi di supporto esterni, perpetuando un ciclo di fragilità che impedisce la piena realizzazione del potenziale individuale. Gli adulti formati in tali contesti mostrano, pertanto, sempre più difficoltà nel prendere decisioni autonome, nell’assumersi responsabilità e nel gestire lo stress derivante dalle normali sfide della vita professionale e personale, richiedendo interventi esterni continui per funzioni che dovrebbero essere intrinsecamente sviluppate.

 Orizzonte Scuola

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martedì 18 febbraio 2025

ADOLESCENTI FRAGILI


 Pellai: “Adolescenti i più fragili degli ultimi 60 anni”. 

L’allarme del pedagogista: “Genitori iperprotettivi crescono una generazione ansiosa”


Di redazione

“Gli adolescenti di oggi? I più fragili degli ultimi 60 anni”. Non usa mezzi termini il pedagogista Alberto Pellai, intervenuto ai microfoni di La Nuova Provincia, per descrivere la condizione emotiva dei giovani.

La causa principale? Un “allenamento alla vita” sempre più spostato dal reale al virtuale. L’uso precoce e pervasivo di dispositivi elettronici, spiega Pellai, ha sottratto ai ragazzi quelle esperienze fondamentali di gioco tra pari, di confronto diretto con le sfide quotidiane, che un tempo avvenivano “in cortile” e che erano cruciali per lo sviluppo di competenze emotive, cognitive e socio-relazionali.

Genitori “iperprotettivi” e la generazione dell’ansia

Il paradosso, sottolinea l’esperto, è che gli adulti, pur desiderando figli “vincenti”, li hanno resi incapaci di affrontare le difficoltà. L’iperprotezione genitoriale, l’intervento immediato al primo segno di fragilità, ha privato i ragazzi della possibilità di sperimentare, di “giocarsi le loro battaglie”, di apprendere dalle cadute. Il risultato è una generazione ansiosa, che guarda al futuro con timore, percependo più rischi che opportunità.

“Fare squadra” per un’educazione efficace

“Quando gli adolescenti guardano al futuro, invece che immaginare opportunità vedono rischi e pericoli”, afferma Pellai. Per invertire la rotta, il pedagogista lancia un appello ai genitori: riscoprire l’alleanza con le altre agenzie educative, in primis la scuola, e “fare squadra” con altre famiglie. Solo una comunità educante coesa, che accoglie e sostiene, può restituire ai giovani la fiducia in se stessi e la capacità di affrontare le sfide della vita.

La “generazione ansiosa” allo specchio: un libro per capire e agire

Il nuovo libro di Jonathan Haidt, La generazione ansiosa, non è una semplice analisi del disagio giovanile, ma un invito all’azione. Come uno specchio, riflette la realtà di una generazione alle prese con livelli di ansia senza precedenti, offrendo al contempo gli strumenti per cambiare il proprio destino. Haidt, forte della sua esperienza di psicologo sociale e autore di bestseller, unisce ricerca accademica e stile divulgativo per svelare il “grande riprogrammamento” che sta plasmando l’infanzia e l’adolescenza di oggi. Lungi dall’essere osservatori passivi, i lettori diventano partecipanti attivi, parte del problema e, soprattutto, della soluzione.

Un’analisi a 360° dell’ansia giovanile

I dati presentati sono allarmanti: tra il 2012 e il 2018, il tasso di adolescenti con disturbi d’ansia è cresciuto significativamente, con un impatto ancora maggiore su ragazze e gruppi stigmatizzati. L’autore non si limita a fotografare la situazione, ma esplora le radici del problema, analizzando le dinamiche sociali, tecnologiche e culturali che alimentano la pressione su una generazione già gravata da elevate aspettative. Il libro sottolinea anche le conseguenze a lungo termine dell’ansia non trattata in adolescenza, come l’aumento del rischio di dipendenze e depressione in età adulta.

Social media, iperprotezione e il ruolo delle Big Tech

L’autore non risparmia critiche alle grandi aziende tecnologiche, accusate di insabbiare i rischi psicologici dei loro prodotti, paragonando le loro strategie a quelle dell’industria del tabacco. Con un approccio rigoroso, supportato da una solida base scientifica, il libro invita a una riflessione profonda sul presente e a un’azione concreta per tutelare il futuro dei giovani.

Orizzonte Scuola

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martedì 1 ottobre 2024

ELOGIO DELLA DEBOLEZZA

 


-di ENZO BIANCHI

 

Prima di organizzare dibattiti e confronti su un tema oggi evocato con frequenza come quello della “fragilità”, occorrerebbe fare con intelligenza una distinzione tra fragilità, debolezza, vulnerabilità e imperfezione. Altrimenti si fa confusione e non si accede a una consapevolezza che aiuti il nostro cammino di crescita umana.

 Certamente viviamo in un contesto di relativismo, di oblio delle esigenze morali e di fuga dalla fatica che incoraggia una certa inerzia e che non può non diventare debolezza spirituale. Anche la crescita delle ansie esistenziali e delle paure di fronte alla vita stessa, al futuro, alla morte, al fallimento, hanno alimentato un clima di depressione che porta a rimuovere le virtù da conseguirsi con fatica, mentre incoraggia la fragilità. Vulnerabili siamo tutti noi in quanto esseri umani: ma la fragilità è altra cosa e non va confusa!

Vulnerabilità” significa capacità di essere feriti, apertura ed esposizione all’altro: l’altro che ci sta davanti e ci mostra il volto con le sue ferite e il suo pianto ferisce anche noi, ci fa soffrire e ci porta alla compassione, al “soffrire insieme”. Essere vulnerabili è una grande possibilità di comunione anche perché la vulnerabilità non solo non esclude la fortezza, ma può incitarci all’acquisizione di questa virtù, tanto necessaria per poter aiutare con responsabilità e intelligenza l’altro che soffre.

 La fragilità invece è il male che ci coglie a causa della vita, della malattia, delle vicende del mondo. Dalla fragilità vorremmo “essere liberati” perché è un impedimento alla pienezza della nostra vita.

 Oggi c’è un elogio della fragilità che è insensato. Viene fatto da impotenti e inerti, ma va giudicato con chiarezza come giustificazione di una vita nella quale si rifiuta la fortezza per un equivoco: la fortezza infatti non è violenza, non è un vile prevalere sugli altri, ma è capacità di resistenza, di saldezza, di resilienza, di pazienza, di makrotymía, capacità di continuare a pensare in grande e a vedere in grande.

 Per questo le persone fragili sono riconosciute da chi sa di essere fragile e sono conosciute nel faccia a faccia, guardandosi negli occhi, nel mettere la mano nella mano, nell’abbracciarsi. Abbracciare un corpo deforme o malato, dare la mano a un mendicante, dare un bacio a un povero, accogliere un viandante in casa, è vivere la beatitudine di chi riconosce e discerne l’uomo fragile, dicono i salmi nella Bibbia.

 La debolezza. E infine possiamo dire che la debolezza è una consapevolezza spirituale della nostra situazione: siamo sempre deboli, ma è vero che in certi momenti sprofondiamo in una debolezza che rasenta la morte. Nonostante la lotta contro la tentazione cadiamo nel compiere il male, falliamo nel fare il bene, contraddiciamo l’amore. Gregorio Magno dice che, se non fossimo deboli e soggetti a cadute e a fallimenti nella vita, penseremmo che il bene che facciamo viene da noi e non da Dio. E arriva a dire con molta audacia che i peccati che facciamo, soprattutto quelli impuri, sono un rimedio all’orgoglio. 

Ma è il grande san Bernardo, che dopo una vita in cui comandava al papa e ai re, vive una crisi profonda: esce dal monastero e va a vivere da solo, in una capanna nella foresta. E qui confessa a causa dei suoi peccati il fallimento della sua vita da monaco, il fallimento del cammino verso la santità che si era prefisso. Ne esce come un uomo spogliato e canta: O optanda infirmitas! O beata desiderabile debolezza!

 

Alzogliocchiversoilcielo

lunedì 16 settembre 2024

GENITORI ELICOTTERO


Cos’è il fenomeno dei “genitori elicottero” 

e perché è sempre più diffuso

Per alcuni esperti americani, i genitori moderni sono sempre più iperprotettivi e ansiosi, un atteggiamento che seppur in buona fede rischia di compromettere la capacità dei ragazzi di crescere e diventare indipendenti.

A cura di Niccolò De Rosa

 Con l'inizio delle lezioni universitarie, molti genitori ansiosi condividono sui social le loro preoccupazioni su come gestire la transizione dei figli al mondo accademico. Post social e richieste sui forum online mostrano infatti una certa tendenza da parte dei genitori non solo a domandarsi se debbano intervenire su questioni come i conflitti tra coinquilini, ma anche a chiedersi se sia il caso di attivarsi in prima persona per aiutare  i propri figli a fare amicizia.

 Negli Stati Uniti, dove l'inizio del collage rappresenta per la stragrande maggioranza dei ragazzi l'abbandono del nido familiare, questo fenomeno appare particolarmente diffuso, tra genitori che passano la prima notte al campus con i figli e madri che chiamano la polizia se la figlia non risponde al telefono.

 Un gruppo di esperti contatti dal sito americano di Fox News ha quindi provato a delineare un quadro che ormai riguarda sempre più la società occidentale (Italia compresa): l'inesorabile avanzata dei genitori elicottero.

 Chi sono i genitori elicottero?

Come il nome stesso suggerisce, i genitori elicottero sono madri e padri iperprottettivi, la cui presenza incombe in modo costante e invadente sulla testa dei figli per organizzarne ogni aspetto del quotidiano e risolvere ogni tipo di problema.

 I genitori elicottero temono infatti che ogni insuccesso – anche il più piccolo – possa irrimediabilmente turbare l'equilibrio dei propri figli e comprometterne il futuro. Per questo spesso svolgono i compiti scolastici al posto dei ragazzi, stilano la loro agenda settimanale e scelgono per loro impegni e attività extra-scolastiche.

 Secondo Gail Saltz, psichiatra e docente alla NY Presbyterian Hospital Weill-Cornell School of Medicine, molti genitori elicottero si identificano profondamente con il successo dei loro figli, vedendolo come una conferma della propria competenza genitoriale. Tuttavia, il controllo eccessivo impedisce ai ragazzi di sviluppare la sicurezza necessaria per affrontare autonomamente le difficoltà della vita.

 Adulti impiccioni o ragazzi troppo fragili?

Secondo esperti come il psicoterapeuta Jonathan Alpert, questo comportamento non è più raro ed è più legato all'ansia dei genitori che a un'incapacità dei giovani adulti di gestire le proprie situazioni.

 Alpert, intervistato da Fox News Digital, ha spiegato come molti genitori si rivolgano a lui per organizzare appuntamenti terapeutici per conto dei loro figli, sintomo di un desiderio di mantenere il controllo. Secondo il terapista, tale comportamento può rivelarsi dannoso, poiché impedisce ai giovani di sviluppare l'indipendenza necessaria per affrontare il mondo universitario e, sopratutto la vita reale nel mondo adulto.

 Le radici dell'ansia genitoriale e l'uso della tecnologia

Un aspetto rilevante di questa tendenza è l'uso crescente di sistemi di monitoraggio – anche istituzionali, come il registro scolastico elettronico – che permettono ai genitori di seguire in tempo reale i movimenti dei propri figli. Ciò alimenta infatti una sensazione di controllo che, se da un lato rassicura, dall'altro limita l'autonomia dei ragazzi.

 Jennifer L. Hartstein, psicologa e consulente, ha osservato che molti genitori soffrono di "ansia per l'ansia" e tendono a iper-reagire ai normali processi di adattamento dei loro figli al college, come la tristezza o l'insicurezza. Intervenendo continuamente, i genitori rischiano di impedire ai figli di diventare resilienti e costruirsi una propria capacità di risolvere i problemi.

 Per Hartstein, è dunque essenziale che i genitori imparino a frenare le loro reazioni emotive e ad aiutare i figli a gestire le proprie difficoltà, piuttosto che risolverle per loro. Solo così i giovani possono imparare a fronteggiare autonomamente i problemi e crescere come adulti competenti.

 "Sebbene possa sembrare più facile per i genitori intervenire e alleviare l'ansia dei genitori, in realtà ciò arreca un vero danno ai ragazzi" ha spiegato.

 Serve una "riconversione emotiva"

Per modificare questo inquietante scenario, lo psicoterapeuta Alpert suggerisce ai genitori di cambiare prospettiva e provare di vedere l'ingresso dei figli alla scuola superiore o all'università come un segno positivo: la prova che hanno fatto un buon lavoro come genitori e che dunque occorre fidarsi dei ragazzi per il prosieguo della loro vita.

 Se l'ansia è troppo forte, sottolinea Alpert, piuttosto che rivalersi sui figli i genitori potrebbero cercare il supporto di altri genitori che condividono le stesse emozioni, creando una rete di supporto reciproco. Questo sì che sarebbe un uso intelligente dei social media.

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martedì 6 agosto 2024

FRAGILITA' CULTURALE e SPIRITUALE


 Lo storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio «la fragilità culturale è figlia di quella spirituale: il problema è il freddo nelle nostre chiese»

 -Intervista ad Andrea Riccardi

 -         di Gianni Santamaria

-          Prosegue il dibattito su cattolicesimo e cultura, avviato da PierAngelo Sequeri e Roberto Righetto. Sono intervenuti Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini, Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici, Ornaghi, Rondoni, Esposito, Sabatini, Cacciari, Nembrini, Gabellini, Vigini, Timossi, Colombo, De Simone, Arnone, Bruni, Postorino, Dionigi, Lupo, Pierangeli, Verbaro e Rocelli.

 Risvegliare fede e passione, senza le quali nessuna vera iniziativa culturale è possibile. E senza le quali ci si può solo limitare a gestire l’esistente di istituzioni benemerite, ma che rischiano di non incidere. È la necessità che sottolinea Andrea Riccardi, storico, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, già ministro e oggi presidente della Società “Dante Alighieri”, ragionando su come «la fede pensata» può interagire con la cultura contemporanea, affinché il cattolicesimo non resti «rannicchiato negli angoli della vita della città».

 C’è stata finora una certa timidezza nel rapportarsi con la cultura laica?

 «Non si può più ragionare nei termini con cui si ragionava in passato. Ricordo padre Sorge che scriveva di cultura cattolica, cultura laica, cultura comunista. Del resto, erano mondi culturali che funzionavano e avevano la loro proiezione anche nel reclutamento del personale universitario. Oggi penso ci sia un fenomeno mondiale: la deculturazione della religione e dei fenomeni religiosi. La vedo diffusa in quei movimenti neopentecostali ed evangelicali, che sono diventati parte importante del cristianesimo contemporaneo e della sua comunicazione. E che sono assolutamente disinteressati a confrontarsi con i temi della cultura, intesa in termini di storia, futuro, realtà, dibattito, libri. Sono arroccati in una comunicazione tutta di tipo sentimentale».

 E i cattolici?

 «Questo fenomeno di deculturazione riguarda anche i cattolici. Ma non in maniera così definitiva. Torno sempre a quell’intuizione di Giovanni Paolo II che diceva: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”. Mi colpisce che questa frase sia stata ripresa a Buenos Aires dal cardinale Bergoglio, il quale non è mai stato un “citatore” di maniera di Wojtyla. Ma su questa intuizione wojtyliana ha insistito molto: la fede che diventa cultura».

 A cosa guardare?

 «Nella grande storia del cristianesimo abbiamo assistito proprio a questa fede vissuta del popolo di Dio che si è fatta cultura alta e cultura di popolo: rimeditazione della storia, produzione di arte, dibattito con altre forme di pensiero e via dicendo. In questo senso la fragilità dell’espressione odierna della cultura cattolica – non direi della cultura cattolica in sé, che poterebbe sembrare così qualcosa di organico – nasce dalla fragilità della fede vissuta, anzi dalla fragilità delle nostre comunità e dalla rinuncia a dire una parola di rilievo».

 Non per niente lei ha di recente scritto un libro che si intitola La Chiesa brucia...

 «Sono partito dall’incendio della basilica di Notre Dame proprio per parlare della crisi della Chiesa in Europa. È un fenomeno d’infragilimento su cui si deve riflettere. Inoltre, la fragilità della cultura stessa che - dicevamo - nasce dallo scarso interesse per il mondo, che non si vuole cambiare e con cui non si vuole interloquire. Quando si fa cultura ci si interessa del mondo presente, passato e futuro. Ci si misura con la storia. Naturalmente il cattolicesimo possiede ancora importanti istituzioni culturali, però mi chiedo con quale criterio vengano gestite e come partecipino al flusso di un cristianesimo che si sveglia e si confronta».

 Qual è il problema di fondo?

 «Secondo me è la passione con cui si vivono la fede e si partecipa alla storia umana. Tale passione genera pensieri lunghi, ma anche confronti e dialoghi intensi. Se non c’è questo, ci sono solo delle istituzioni che funzionano, dei posti da occupare in consigli di amministrazione o a livello apicale. Per questo ci sono sempre cattolici pronti al “servizio”. Se non c’è questo, soprattutto c’è un cattolicesimo rannicchiato negli angoli della vita della città. È inutile esortare i cattolici a fare cultura, se non si suscita questa grande passione. Un testo scritto tanti anni fa dal grande studioso benedettino Jean Leclercq - che, secondo me, ha ispirato il famoso discorso sulla cultura pronunciato da Benedetto XVI al Collège des Bernardins - parla di “amore delle lettere e desiderio di Dio”. È un testo di grande importanza che riguarda la cultura medievale, e rivela la connessione profonda tra la ricerca di Dio e il fare cultura. Il tema della cultura si lega alla passione con cui le comunità cristiane e i singoli cristiani stanno vivendo la realtà e la ricerca di Dio».

 Oggi però non siamo più nel Medioevo di Dante, fatto di un connubio tra teologia e lettere. Oggi domina il connubio tra tecnologia e social. Che porta distanza sociale. Quali luoghi sperimentare per un dialogo?

 «Non diamo all’idea di cultura una dimensione organicistica. Questa esigenza di una riflessione culturale è una sfida del pensiero, della ricostruzione della storia. E nasce dal profondo della dinamica della vita e della comunità cristiana. Nasce dal confronto con un mondo complesso e caotico, in cui tutti, nel nostro piccolo, abbiamo l’esigenza di decifrare da dove veniamo e che sta accadendo attorno a noi. Paolo VI nella Popolorum progressio fa un’affermazione importante, che è molto attuale: “Il mondo soffre per mancanza di pensiero”. Qualche anno fa papa Francesco affermò: “Il mondo soffoca per mancanza di dialogo”. C’è bisogno di cultura, dibattito, ricerca, dialogo… Proprio di fronte alle frontiere sconfinate del mondo globale, delle nuove scienze e tecnologie. Paolo VI, in quel testo lanciava un’idea, che non fu raccolta, ma interessante: “Noi convochiamo gli uomini di riflessione e di pensiero, cattolici, cristiani, quelli che onorano Dio, che sono assetati di assoluto, di giustizia e di verità: tutti gli uomini di buona volontà”. Un sogno lontano. Oggi però di fronte a questo mondo dell’io, fragile e fluido, in cui oggi sono una cosa, domani un’altra, come di fronte agli sconfinati orizzonti del mondo, c’è necessità di “una fede pensata”, non un sistema chiuso, ma una bussola si speranza che non tema la mobilità del nostro tempo. È un’espressione densa del mio vecchio amico Pietro Rossano, vescovo, uomo di dialogo con le religioni e grande intellettuale, che proprio parlava di una “fede pensata”. C’è bisogno di pensare la fede e, me lo lasci dire da storico, c’è bisogno di cultura storica. Perché, se è vero che non è un dogma che la storia sia magistra vitae, è altrettanto vero che oggi spesso ci aggiriamo nella storia come gattini ciechi, senza sapere cosa sia successo prima, ma anche a quello che sta per succedere. Pensiamo alla guerra e alla riabilitazione della cultura del conflitto. Sta morendo la generazione che ha vissuto la Seconda guerra mondiale, i testimoni della Shoah, ed eccoci davanti a un mondo che sta smarrendo la cultura della pace».

In questo dibattito il latinista Ivano Dionigi ha evocato una latitanza, se non proprio un tradimento alla Julien Benda, degli intellettuali, che vengono meno al loro ruolo di testimoni piuttosto che di notai dell’esistente. Cosa devono riscoprire gli intellettuali, in particolare cattolici?

 «Dionigi ha ragione. Secondo me il vero problema è il basso livello di passione delle comunità cristiane. Io ho detto “la Chiesa brucia”, ma forse il problema di oggi è il freddo delle nostre chiese. Perché ogni operazione culturale nasce da una grande passione e diciamo anche dalla grande passione scatenata dalla fede. La cultura è capire, è provare a cambiare, è sapere da dove si viene. E allora il vero problema è risvegliare fede e passione, dalle quali nasce la ricerca».

 www.avvenire.it

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domenica 21 luglio 2024

IL GIOCO DEL BUIO

 



-        - di Alessandro D’Avenia

-          

“Siamo i genitori di un ragazzo di 14 anni che nel 2021 si è tolto la vita. Frequentava per sua scelta il primo anno del liceo. In questi tre anni siamo venuti a conoscenza di molti, troppi ragazzi che hanno compiuto lo stesso disperato gesto. Proprio la settimana scorsa un altro dello stesso Liceo ha deciso di farla finita. Non possiamo e non vogliamo più stare fermi, vorremmo fare qualcosa per aiutare questi ragazzi sensibili, sofferenti, fragili, disarmati”.

La fragilità

Già diversi anni fa nel libro “L’arte di essere fragili” cercavo una cura per questa emergenza: ero colpito da questa volontà di morte giovanile, della quale i suicidi in crescita erano l’esito estremo, ma molte altre le evidenze (ansia, disordini alimentari, autolesionismo, dipendenze, depressioni). In quelle pagine partivo dal fatto che una cultura è a misura della risposta che dà alla morte, perché la cultura è il modo umano di dare vita alla vita, di mettere al mondo il mondo. Se la morte è cercata o interiorizzata proprio dai ragazzi, che rivolgono l’energia creativa che li caratterizza contro se stessi o contro un mondo che non merita il loro coinvolgimento, è perché la nostra cultura della vita è carente. Se la vita promessa non è vita buona, la “somatizzazione” della morte non è solo sintomo ma atto politico. E in un tempo in cui incidere politicamente (cioè sulla realtà) è quasi impossibile, questo è per i ragazzi il modo di ribellarsi a questo mondo per generarne uno nuovo. Sono morti rivoluzionarie. Perché?

Il gioco del buio

Mi faccio guidare da una canzone scritta di recente da un mio studente. Un rap che si intitola “Il gioco del buio” (si trova in rete associata al nome d’arte: Namibia). Nella prima strofa dice: «Non affronto problemi/ finché sono giganti/ mi chiedo se per crescere/ valga la pena iniziare a causarli». Il ritmo che caratterizza questo genere musicale è amato da questa generazione perché da un lato incarna un rapporto con il mondo e con se stessi frammentato, concitato, arrabbiato (“Il rap è la voce degli oppressi, un modo per dare voce a chi non ne ha” dice un personaggio del famoso film 8 Mile con Eminem), e dall’altro cerca un radicamento alla terra e agli altri, un rito tribale che permette di abitare la rabbia e il mondo (“Il rap è una famiglia” dice un altro nel film citato). Le rime ossessive di un parlato di strada sono un colpo “di grazia” da infliggere ma anche una grazia “di colpo”, un’inattesa armonia in mezzo al frastuono. Le parole di Namibia narrano la paura di entrare in questa vita: vale la pena crescere qui? È la vita che abbiamo creato a essere in discussione. É una vita buona?

La nostra cultura risponde alla paura della morte con la tecnica e l’accumulo, ai dispositivi e al consumo chiediamo il senso dell’esserci, la nostra assoluzione e redenzione. Ma questo comporta che la produzione aumenti e acceleri e che noi diventiamo parte del meccanismo, come Charlie Chaplin malmenato dalla macchina che lo nutre automaticamente in Tempi moderni.

Tutto e subito

Siamo su un treno che corre a velocità sempre più sostenuta, vogliamo tutto e subito infrangendo i limiti della fisicità, ma i corpi non reggono alla pressione: re-pressi, esplodono, de-pressi, implodono. Il rapporto con il mondo è desincronizzato, cioè non riusciamo più ad andare a tempo con le cose e le persone, che non ci toccano mai e diventano mute, fredde, nemiche. La mancanza di sincrono e di sintonia con il mondo, che il rap mima meglio di altre forme musicali, è alienante: essere qui è solo ansia e fatica. Spesso sento dire: “Voglio scendere!”, espressione che tradisce la percezione della vita come corsa senza senso, e non come cammino fatto sì di fatica ma anche di gioia e scoperta. La distanza da sé, dalle cose e dalle persone paralizza le energie creative prima ancora di averle evocate: «loro non vedono ciò che sento/ e infatti scrivere è un mio bisogno/ ti parlo di gente che non conosco/ spesso mi trovi fuori contesto/ praticamente in qualsiasi posto/ forse per questo mi sento perso», parole che da un lato descrivono l’alienazione, il sentirsi sempre fuori posto e fuori tempo, dall’altro cercano una via: «ho cercato il buio/ l’ho trovato e gli ho dato anche un nome e una forma/ sto imparando a conviverci/ nascondo ciò che mi fa bene nell’ombra/ chiedi “cosa puoi farci?”/ Finirò per odiarmi».

Il senso di colpa

Il senso di colpa e di vergogna per una vita di cui non ci si sente mai “all’altezza” (come se la vita fosse uno standard da raggiungere e non quello che è già in noi proprio all’altezza che abbiamo) diventano così forti che molti iniziano a “odiarsi” o “odiare”, e l’odio è l’energia creativa della vocazione all’unicità che muove tutto e tutti, che non trovando esiti vitali viene rivolta (è una rivolta!) contro se stessi e il mondo.

Continua Namibia: «io non parlo di ciò che non vivo/ perché so quanto pesa la verità/ non ho scritto le regole e/ credimi mi hanno segnato/ racconto le cose che vedo/ finché nei polmoni/ non trovo più fiato./ Non so che cos’ho./ Ma con ogni mio passo/ salgo/ per cadere più in basso./ Non so che cos’ho./ Non so che cos’ho». Un passo che sale per cadere, come il Sisifo che Camus nel 1942 aveva scelto a emblema dell’uomo che non smette di trasportare il masso della vita anche se dovrà poi ricominciare sempre come il famoso eroe mitico. Oggi però Sisifo è esaurito, sta male e non sa perché. La canzone si chiude così: «parlo di meno da un tot/ mentre elimino ciò che mi salva/ non ho manco le briciole in tasca/ questa cazzo di vita mi stanca/ seguo orari e pensieri che affronto/ coi lividi in faccia e voragini in pancia/ per capire con calma che cosa mi manca».

La cultura del risultato

Questa vita sfinisce, perché la cultura della perfezione e del risultato è estenuante. Ma si invoca “calma” per capire che cosa “manca”. Questo è ciò che cercano i ragazzi, relazioni con il mondo e gli altri non basate sulla velocità, sulla produzione di se stessi, sulla auto-promozione narcisistica, sul consumo, perché la realtà torni a essere casa. Manca “casa”: Namibia non ha le briciole in tasca per tornarci, è un Pollicino senza speranza. Ma che cosa è casa?

L’essere umano non è “fatto”, non è “prodotto”, ma è “generato”. Ciò che abbiamo in comune tutti, proprio tutti, è essere “figli”. Questa generazione (“generazione” appunto, non “produzione”) chiede di riappassionarsi alla vita a partire dalla filiazione distrutta dall’individualismo auto-produttivo (diventa ciò che vuoi anziché diventa ciò che sei) e consumista (pien-essereanziché ben-essere), vuole appartenere al mondo e agli altri (essere da), per avere una vita da dare (essere per).

Rigenerarsi

I luoghi della possibile ri-generazione (a ri-generare sono le relazioni che ci rendono più figli, cioè soggetti capaci di ereditare il mondo e arricchirlo) sono la famiglia, la scuola, l’amicizia, il lavoro, la politica, la natura, l’arte, lo sport e la religione, ma spesso sono sottomessi alla performance, alla fretta, al consumismo e quindi svuotati del loro potenziale di gioia e di risveglio. Quanto mi sento “figlio” in questi luoghi? Dalla risposta dipende quanto sono a casa nel mondo, quanta gioia di vivere ho e quindi quanto ho voglia di crescere: perché dovrei voler vivere se un amore non mi desidera esistente? Questa è la rivoluzione che i ragazzi stanno incarnando. Con i loro corpi.

 

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giovedì 8 febbraio 2024

TOCCARE IL CIELO CON UN DITO


 UN FELICE PARADOSSO



-di Alessandro D’Avenia

 

La scorsa settimana Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò ci ricordava che la dimensione religiosa è necessaria a umanizzarsi, dove c’è trascendenza si diventa uomini (sono le prime sepolture a dirci che qualcosa di mai visto è apparso sulla Terra). Sapere che esistano cose immortali non è difficile, si lamenta il personaggio pavesiano del dialogo Le Muse, ma «toccarle è difficile», cioè trovare l’infinito nel finito, l’assoluto nel relativo, il sempre nel qui e ora. La Musa risponde che il segreto è vivere per esse, avere cuore puro, cioè trasparente, fecondo, gioioso, innamorato, danzante. Il cuore dell’uomo desidera «toccare» ed «essere toccato» dall’eterno per non soccombere allo scorrere del tempo che conduce tutti alla morte.

 Dal relativizzare il tempo dipende la fisica della felicità, non a caso diciamo felici i momenti in cui sembra che l’eterno entri nell’istante, quando la vita è talmente viva che dobbiamo ricorrere a un’espressione poetica: il tempo si è fermato. Accade quando ci innamoriamo, creiamo il nuovo, assistiamo al meraviglioso... Beatitudini che vorremmo perenni e paragoniamo al «toccare il cielo con un dito» o al «cielo in una stanza». E se la settimana scorsa Pavese suggeriva di salire simbolicamente in montagna per avvicinarsi a un cielo divenuto distante, mi chiedo oggi: c’è modo di far venire il cielo a noi, che sia lui a toccare noi quando siamo a valle? Per rispondere mi servirò di un testo che ritengo essere un’iniziazione alla vita felice, a prescindere dall’essere o meno credenti.

Alla fine del vangelo di Giovanni, c’è un personaggio, Tommaso, che, assente al momento in cui il risorto sorprende i suoi amici riuniti a compiangerlo, afferma che non crederà mai alla resurrezione di Cristo, a meno di non «toccarne» le ferite. In Tommaso ci siamo tutti noi, vogliamo fare esperienza del metodo per vincere la morte già in vita, solo questo darebbe senso a tutto, persino al morire. E così, narra Giovanni, una settimana dopo, Cristo si mostra a Tommaso, invitandolo a fare ciò che desiderava: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non mostrarti più incredulo ma fiducioso!» (Gv, 20).

 Non è un rimprovero da catechismo per bambini ma un invito a toccare l’eterno e la gioia per cui il cuore è fatto, attraverso un paradosso: la porta di scambio tra l’infinito e il finito sono «le ferite». È proprio dove moriamo che il divino si fa toccare. La via di accesso al cielo non è la potenza, e per questo, in una cultura in cui è vero ciò che è potente ed è più vero ciò che è più potente (dall’archibugio alla bomba atomica), è diventato assai difficile toccare Dio, perché le ferite, i limiti, di ogni specie (esteriori e interiori), sono il contrario della potenza, sono divenuti privi di senso, e se gliene diamo uno è purtroppo quello di colpa.

 In Giovanni invece c’è una prospettiva spiazzante per la vita quotidiana. Vuoi credere al fatto che le cose morte possano rinascere? Metti il dito nella tua piaga, non cercare la felicità nella potenza, nell’apparenza, nella forza, perché queste cose si procurano a fatica, non sono mai garantite del tutto e svaniscono, mentre i limiti li hai già, a portata di mano, gratis e sino alla fine. Il cielo è lì. Metti il dito nella piaga degli altri, non per farli soffrire, ma per curarli, non cercare la loro influenza, luce, forza, per poter esistere, ma la loro fatica: chiedi come stanno, che cosa li fa soffrire. Il cielo è lì. Le ferite di Cristo sono nelle mani, nei piedi, nel costato, ferite dello stare (chi sei?), del fare (che fai?) e delle relazioni (che o chi ami?). Ma sarà vero che il cielo è nella «ferita» e non nella «potenza», che l’infinito e il finito si toccano in una cicatrice?

 Lo sperimento quando mi chino sulle fragilità dei miei studenti, non solo nei momenti di particolare fatica, ma in generale perché l’adolescenza è una «ferita» che brucia alla ricerca del senso delle cose, di un posto nel mondo, della propria identità. In ambito educativo i veri innovatori, da Socrate a Montessori, sono stati infatti quelli che si sono chinati sulle ferite, e lo stesso è accaduto in ambito medico, economico, politico... Lo sperimento anche quando tocco una mia ferita e invece di vergognarmi o disprezzarmi perché non sono «abbastanza», provo ad amare ciò che mi rende unico, per renderlo occasione creativa (un pensiero nuovo, una nuova pagina) o di relazione (chiedo aiuto o riconosco amico chi ha la stessa fragilità). Chi sono gli artisti se non persone che si sono tuffate nelle proprie e altrui ferite per capirle e magari curarle? Come Etty Hillesum.

 La settimana scorsa, nella Giornata della Memoria, ho riletto alcune righe del Diario di questa ragazza ebrea morta ad Auschwitz, righe in cui mostra ciò che cerco di dire: «E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio». Non incolpa Dio, attribuendogli il male o il silenzio che per molti è prova della sua inesistenza, indifferenza o crudeltà, ma parte proprio dall’impotenza di Dio per trovarlo, è lì dove lei è. Il Dio che tace, una parola l’ha detta: te. Infatti, Hillesum, riferendosi al ruolo di educatrice per i figli dei deportati, prosegue: «Parole come Dio e Morte e Dolore ed Eternità si devono dimenticare di nuovo. Si deve diventare così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere. E io, sono io già abbastanza avanti da poter dire sinceramente: spero di andare al campo di lavoro, per poter essere di appoggio alle ragazze di sedici anni che ci vanno? Per rassicurare i genitori rimasti indietro: non siate inquieti, io vigilerò sui vostri figli».

 Lei diventa la parola di Dio. Eterno e finito si toccano e le parole si rinnovano dove l’amore è portato nel mondo attraverso la nostra carne: è l’amore a relativizzare il tempo, a fermarlo, proprio dove «siamo». Il divino è nell’impotenza che interpella e risveglia la nostra libertà e creatività, possiamo essere noi il cielo per molte dita. Cristo infatti dice che se diamo (o no) un bicchiere d’acqua a chi ne ha bisogno lo diamo (o no) a lui stesso: dissetare Dio, negli altri, è essere uomini. E nel farlo diventiamo noi eterni, cioè capaci di stare nelle situazioni senza soccombere, anzi riempiendole di senso e di miracolo. Di fronte a uno studente in crisi che cosa invento? Di fronte a una mia crisi che cosa invento? Cioè come posso ricevere e tradurre in azione l’amore che può entrare nel mondo proprio da questa frattura nella superficie uniforme dell’indifferenza? Ogni ferita è una potenziale porta di scambio con il cielo, perché l’amore è l’unica forza capace di relativizzare la morte. 

Lo dice l’ultimo pensiero scritto da Hillesum: «Quando soffro per gli uomini indifesi, non soffro forse per il lato indifeso di me stessa? Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Erano così affamati... Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». E se il tempo si è fermato, leggendo le sue parole, è perché lei «ha creduto» in una vita nuova, proprio lì dov’era, come Tommaso: «Perché non mi hai fatto poeta, mio Dio? Ma sì, mi hai fatto poeta, aspetterò pazientemente che maturino le parole della mia doverosa testimonianza: cioè che vivere nel Tuo mondo è una cosa bella e buona, malgrado tutto quel che ci facciamo reciprocamente noi uomini».

 

Alzogliocchiversoilcielo

 

 

giovedì 26 ottobre 2023

L'ARTE DELLA FRAGILITA'


Come Leopardi 

può salvarti la vita

"Esiste un metodo per la felicità duratura? 

Si può imparare il faticoso mestiere di vivere giorno per giorno in modo da farne addirittura un'arte della gioia quotidiana?" 

Sono domande comuni, ognuno se le sarà poste decine di volte, senza trovare risposte. Eppure, la soluzione può raggiungerci, improvvisa, grazie a qualcosa che ci accade, grazie a qualcuno. 

In queste pagine Alessandro D'Avenia racconta il suo metodo per la felicità e l'incontro decisivo che glielo ha rivelato: quello con Giacomo Leopardi. 

Leopardi è spesso frettolosamente liquidato come pessimista e sfortunato. Fu invece un giovane uomo affamato di vita e di infinito, capace di restare fedele alla propria vocazione poetica e di lottare per affermarla, nonostante l'indifferenza e perfino la derisione dei contemporanei. 

Nella sua vita e nei suoi versi, D'Avenia trova folgorazioni e provocazioni, nostalgia ed energia vitale. E ne trae lo spunto per rispondere ai tanti e cruciali interrogativi che da molti anni si sente rivolgere da ragazzi di ogni parte d'Italia, tutti alla ricerca di se stessi e di un senso profondo del vivere. 

Domande che sono poi le stesse dei personaggi leopardiani: Saffo e il pastore errante, Nerina e Silvia, Cristoforo Colombo e l'Islandese... 

Domande che non hanno risposte semplici, ma che, come una bussola, se non le tacitiamo possono orientare la nostra esistenza.

 

D’Avenia, L’ARTE DI ESSERE FRAGILI, ed. Mondadori

mercoledì 23 agosto 2023

FRAGILI, MA IMPEGNATI


 LA FRAGILITÀ 

È UNA RICCHEZZA,

NON LA SCUSA 

PER IL DISIMPEGNO

 

-di LELLO PONTICELLI*

 

Più volte Papa Francesco è tornato sul tema della fragilità, ricordando che «è la nostra vera ricchezza – da rispettare, accogliere – e che, quando offerta a Dio, ci rende capaci di tenerezza, misericordia ed amore». Nella lettera su S. Giuseppe (Patris Corde) raccomandava di trattare le proprie fragilità con tenerezza, sia per non prestare il fianco al tentatore che vuole scoraggiare, sia per imparare a non puntare il dito contro le fragilità altrui. Il Papa, che conosce bene le dinamiche del cuore, sa che in certe posture rigide e accusatorie, è spesso all’opera la difesa della proiezione, la quale ci porta a vedere ed attaccare nell’altro ciò che non accettiamo in noi stessi. Quanti atteggiamenti intolleranti e censori sono frutto di simili dinamiche, talvolta inconsapevoli!

In questa riflessione, però, vorrei evidenziare il rischio di alcune distorsioni pedagogiche che si verificano quando l’invito ad accogliere e rispettare la fragilità viene equivocato: è possibile, infatti, che la fragilità diventi quasi un’ideologia, che se ne faccia un pretesto per non cambiare o una forma di ricatto vittimista e manipolatorio. In una corretta postura educativa, invece, le sue molteplici espressioni vanno, sì, accolte, ma anche affrontate e, per quanto possibile, risolte. Se sul piano educativo passa l’idea che l’accettazione di esse non solo è necessaria, ma addirittura sufficiente, la motivazione a fare qualcosa per non subirle ne riceve impulso o rischia di indebolirsi o non attivarsi affatto? Molti sono i segni con cui la fragilità si esprime, specie tra i ragazzi: bassa autostima, volontà debole, scarso controllo degli impulsi, eccessiva timidezza che ostacola la relazione con gli altri, etc... Ma anche sul piano morale la fragilità allunga i suoi tentacoli. 

Dovrebbe far riflettere il fatto che, per gestire le proprie fragilità, le persone – specialmente i giovani–cercano spesso un’autocura, trovando, però, soluzioni autolesioniste (vedi le varie dipendenze). Allora un genitore, un educatore, deve incoraggiare a lottare per vincere e superare le fragilità ove possibile, altrimenti imparare a conviverci in modo più maturo, oppure deve lasciar correre? A rischio di favorire la confusione tra passività e accettazione?! Se accogliere la fragilità e i suoi “segni” equivalesse ad un talvolta banalizzato «va bene così come sei», che ne sarà della motivazione a prendere le redini in mano e a fare qualcosa di più promettente?

Se sussiste il pericolo di nuove forme di pelagianesimo – il Papa più volte l’ha segnalato – i malintesi sulla fragilità non potrebbero indurre a un nuovo “quietismo”? Dove si sminuisce l’importanza dell’impegno, della fortezza nella prova, della reazione attiva agli ostacoli, l’attrazione esercitata dalle mete esigenti, pur nella serena accettazione di sconfitte e fallimenti.

Non a caso Francesco anche di recente, a Lisbona, ha invitato i giovani a non aver paura delle proprie fragilità, ad osare, rischiare, mettersi in gioco con grinta, a combattere per essere migliori, a rifiutare la logica dello scarto delle persone fragili valorizzandole e aiutandole a rialzarsi, migliorando così il mondo! Nel dire e nel fare del Papa, insomma, non si può equivocare: la fragilità, che Dio stesso assume e redime, non è una scusa per il disimpegno, il vittimismo e la manipolazione egoistica, ma un tesoro che ci rende più umani e capaci di riumanizzare la realtà!

*Sacerdote, psicologo

www.avvenire.it 

domenica 16 aprile 2023

RAGAZZI FRAGILI

 «Pressioni e paura 

di non farcela

 Cosa c’è dietro 

ai ragazzi fragili»


Lo psicologo Castelnuovo (Cattolica): venute meno le occasioni di confronto, i social sono disfunzionali. Aiutiamo gli adolescenti a tornare nella vita reale, ripartendo da anima e corpo

 

- di FULVIO FULVI

 Giovani, fragili ed esposti alle continue pressioni di una società che li vuole “sempre sul pezzo”, in famiglia, a scuola, nello sport e persino quando navigano sul web. Col risultato che spesso la corda si spezza e compare il disagio psicologico sotto forma di rabbia, isolamento, rapporto anomalo col cibo, ansia da prestazione. E allora gli adolescenti che non reggono allo stress della “competizione a tutti i costi” cominciano a combinare guai, compiono atti di autolesionismo e qualcuno tra i più disperati prova anche a togliersi la vita. «Ma il disagio giovanile c’è sempre stato, si presenta quando il proprio corpo cambia e si comincia a rispondere personalmente alle vicende della vita » spiega Gianluca Castelnuovo, ordinario di Psicologia clinica all’Università Cattolica di Milano e direttore del servizio di Psicologia clinica dell’Istituto Auxologico italiano.

Ma è più difficile oggi per i giovani crescere?

Diventare adulti non è mai automatico, però i ragazzi ora devono fare i conti, psicologicamente, con l’onda lunga del Covid. Erano già fragili, si interrogavano su cosa fare da grandi, poi sono arrivati il lockdown e le altre restrizioni imposte dalla pandemia, e sono venuti a mancare i loro sfoghi. Questo ha pesato e pesa ancora. Alcuni non si sono mai ripresi, fanno fatica a casa e a scuola. Hanno perso le occasioni di confronto con i modelli tradizionali e ne hanno assunti altri attraverso la tecnologia. I social network però sono punti di riferimento disfunzionali.

Cosa accade? Come è che la Rete condiziona la loro vita?

Dando un’immagine esagerata del corpo, per esempio. I ragazzi sono stati privati della parte umana dei rapporti: prima i pregi e i difetti di una persona si notavano, adesso non più. È stata “tolta” ogni negatività con la conseguenza che la vita viene fatta percepire solo come una cosa felice, ma sappiamo che non è così. Insomma, i punti di riferimento non sono più ancorati al reale. Tutto questo, messo insieme, se non se ne colgono i segnali per tempo, può creare forti disagi e far entrare in crisi i più fragili. Esiste, quindi, un problema educativo.

Colpa dei genitori che non se ne accorgono?

No. Anche loro sono sballottati da diverse agenzie educative più potenti e influenti. Mamma e papà conoscono solo una minima parte della vita dei figli e non sempre riescono ad aiutarli e sostenerli, se i messaggi non arrivano. E quando arrivano spesso non sanno cosa fare. Ma non è giusto accusarli di superficialità o incapacità. Diciamo invece che mancano le strutture, che non esiste un welfare per i disagi psicologici o psichici dei minori: scarseggiano medici specializzati, posti letto, servizi.

E la scuola, che ruolo svolge in questo contesto?

Molto spesso i ragazzi la vivono come una valutazione di sè. Il voto viene dato alla persona più che alla bontà di una prova.

E, infatti, otto studenti su dieci ritengono che quello che viene insegnato a scuola non abbia alcuna attinenza con la vita quotidiana. La percepiscono come interrogazioni, compiti da fare, verifiche. Ma così si amplifica l’ansia. Invece la scuola sarebbe una ghiotta occasione per crescere.

Ci sono stati ultimamente diversi casi di suicidi di studenti universitari che avevano nascosto ai genitori, per vergogna, i loro fallimenti...

Perché hanno ritenuto che non aver superato un esame o non essersi laureati è per loro una sconfitta inaccettabile, una squalifica della propria persona. Sono stati abituati al perfezionismo. Si illudono che ottenendo un “risultato alto” la loro persona stia bene ma appena questo non si verifica, e può succedere, vanno in crisi.

Lo sport può aiutare a far maturare un adolescente?

Bisogna avere un approccio non patologizzante con lo sport: non deve portare a disturbi alimentari, a una dedizione totale alla rinuncia e al sacrificio, che alla fine sono penalizzanti. Così, per altro, ci si disaffeziona. Lo sport deve essere invece vissuto come una festa del corpo, affrontato con spirito giocoso, come un’occasione per divertirsi. E si deve accettare anche che ci sia qualcuno più bravo di noi, accettare l’idea che si può anche perdere e non cambia nulla di quello che siamo.

Nello sport agonistico però le pressioni psicologiche sono spesso troppo stringenti. Come nel caso delle “farfalle” della nazionale di ginnastica artistica... Che fare?

La logica dominante è: se non hai risultati eccellenti non meriti di stare lì. Ma se lo sport non è più un gioco ma un lavoro diventa pericoloso. E basta un infortunio, un incidente, un allenamento non corretto, o un cambiamento del corpo e la prestazione non è più la stessa. E così subentra il terrore di essere messi fiori dal gruppo.

Ci si può sottrarre a questa logica?

Certo. Io come psicologo clinico ho seguito una danzatrice 15enne che era sottoposta a forte tensione fino al punto di avere problemi muscolari e perdere l’armonia del proprio corpo che è diventato quindi un ostacolo. Ma è stata aiutata a concentrarsi e adesso sta ritrovando il piacere della danza. E durante i saggi è tornata a divertirsi, non è più assillata dall’idea che deve fare bene sempre e tutto, compromettendo così anche i risultati.

 

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