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di Giuseppe Savagnone *
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Un rapporto terrificante
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Sono davvero terrificanti i dati del
rapporto, pubblicato in questi giorni in Francia da una Commissione d’inchiesta
indipendente, da cui risulta che, negli ultimi settant’anni (dal 1950 al 2020),
almeno 216.000 minori – di cui l’80% di sesso maschile – sono stati
vittime di pedofilia per mano di circa 3.200 preti o religiosi.
Il numero delle persone che hanno subito abusi sale a 330.000 se vi si
aggiungono coloro che li hanno ricevuti da laici operanti nelle istituzioni
ecclesiastiche.
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Alle 485 pagine del rapporto,
commissionato dagli stessi vescovi francesi, hanno lavorato per due anni e
mezzo 21 persone. Nel consegnarlo a mons. Eric de Moulins-Beaufort, presidente
della Conferenza episcopale francese, il presidente della Commissione,
Jean-Marc Sauvé (una personalità autorevole, già membro del Consiglio di Stato
e della Corte di Giustizia Ue) ha detto: «Ora tocca alla Chiesa appropriarsene
e riprendere la fiducia dei cristiani, ristabilendo anche
l’alleanza compromessa con la nostra società».
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Da parte sua, mons. Eric de
Moulins-Beaufort, ha espresso «vergogna» e «spavento» di fronte
all’enormità del fenomeno; poi, rivolgendosi alle vittime, ha detto: «Il mio
desiderio, oggi, è di chiedervi perdono, perdono ad ognuna ed ognuno di voi».
Anche se non basta il pentimento e si pone adesso il problema di risarcire in
qualche modo persone che hanno avuto la vita distrutta o gravemente compromessa
da pastori della Chiesa, di cui essi e le loro famiglie si erano fidati.
Infatti, come è scritto nel Rapporto e come del resto è intuibile, le
conseguenze di queste squallide violenze su chi ne è stato vittima, «sono molto
gravi. Circa il 60% degli uomini e delle donne che hanno subito abusi sessuali
incontra grossi problemi nella loro vita sentimentale o sessuale».
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Non sono in gioco i singoli, ma
l’istituzione e il suo rapporto col Vangelo
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Il problema però non è solo di chiedere
perdono per gli errori e le colpe del passato. È in gioco il futuro. «Mi
aspetto che ci confrontiamo con questo peso, per quanto oscuro possa essere,
per poter poi prendere le misure necessarie», ha detto suor Véronique Margron,
presidente della Conferenza dei religiosi.
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La prima cosa da fare, in questa
direzione, è di non ridurre il problema alla deviazione di un certo numero, per
quanto grande, di singoli pervertiti. Già le dimensioni del fenomeno rendono
poco plausibile la solita giustificazione secondo cui in ogni comunità ci sono
delle “mele marce”, che basta individuare ed eliminare perché tutto torni a
posto. Qui è il paniere nel suo insieme che è stato marcio e che deve essere
profondamente rinnovato.
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La Commissione parla di «silenzi» e di
«mancanze» della Chiesa, dinanzi agli atti di pedofilia perpetrati
al suo interno, che non sono occasionali, ma presentano un carattere
«sistemico». L’istituzione ecclesiastica ha mantenuto, almeno «fino all’inizio
degli anni 2000, un’indifferenza profonda, ed anche crudele, nei confronti
delle vittime».
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Questa indifferenza non si può certamente
ricondurre a una valutazione troppo permissiva dei peccati sessuali.
Soprattutto negli anni che hanno preceduto il Concilio Vaticano II – ma, in
certi ambienti, anche dopo, fino ad oggi – il sesso, nella pastorale ordinaria
(anche se non nel magistero), è stato spesso guardato con ossessiva attenzione
e identificato come l’espressione principale del disordine morale.
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Una visione certamente unilaterale (basta
leggere la Divina Commedia per sapere che i peccati di lussuria, nella
tradizione cristiana, non sono affatto i più gravi), che nella fase
post-conciliare si è giustamente cercato di ridimensionare.
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Il punto è che la pedofilia non è tanto
espressione di pura e semplice lussuria, quanto di un modo profondamente
distorto di vivere la sessualità, che riduce l’altro a puro oggetto – come solo
un bambino indifeso può essere – su cui esercitare il proprio dominio violento.
Se c’era una espressione del “sesso” che avrebbe dovuto preoccupare i pastori
era dunque proprio questa.
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Anche perché si tratta di uno dei pochi
casi in cui Gesù personalmente, secondo i vangeli, si è pronunziato, con
estrema durezza: «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in
me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e
sia gettato nel mare» (Mc 9,42).
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Che proprio questo peccato sia stato
guardato con estrema, colpevole indulgenza, da parte di chi doveva custodire e
interpretare fedelmente il messaggio cristiano – a fronte della severità
mostrata verso l’universo della sessualità –, è un segno drammatico della
distanza che in certi casi si crea tra il Vangelo e la Chiesa istituzionale.
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I fattori dell’“indulgenza” verso i
preti pedofili
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All’origine di questa “indulgenza” stanno
probabilmente diversi fattori. Uno è stato sicuramente il desiderio di
insabbiare i problemi, per tutelare un’immagine dell’istituzione ecclesiastica
che sarebbe stata incrinata se si fosse dato corso alle denunzie. Da qui la
scelta sciagurata di limitarsi a trasferire il presbitero accusato di pedofilia
a un altro incarico (magari di cappellano in un collegio religioso di
bambini!). Logica che è agli antipodi non solo del Vangelo, ma anche
semplicemente del buon senso.
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Un altro è stato la sottovalutazione della
violenza implicita negli atti di pedofilia e la tendenza a confonderla con un
eccesso di affettuosità, che si poteva prevenire, per il futuro, con una
semplice raccomandazione del vescovo al suo prete di essere più sobrio. Sarebbe
bastata una maggiore conoscenza di Freud e dei suoi successori per rendersi
conto dell’equivoco.
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Un altro motivo (e questo rimane
fortissimo anche oggi) è stato la scarsità di preti e la necessità di garantire
la quantità chiudendo un occhio (ma in certi casi tutti e due) sulla qualità.
In nome del servizio da rendere al popolo di Dio, si è dimenticato – e
purtroppo ancora si dimentica – che è meglio un presbitero in meno che uno in
più, ma corrotto e corruttore.
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Dietro quest’ultima motivazione sta,
peraltro, una visione clericale della Chiesa, che assolutizza la figura del
prete caricandola di tutte le responsabilità – da quella di celebrare e
amministrare i sacramenti, a quella economico-ammnistrativa, a quella
organizzativa… -–e minimizzando il ruolo dei laici, che in moltissimi ambiti
potrebbero benissimo sostituirlo. Solo che questa restituzione del presbitero
alla sua reale, indispensabile e insostituibile funzione pastorale, ne
diminuirebbe il potere, distribuendone l’esercizio a uomini e donne della
comunità che opererebbero, pur sempre, sotto la supervisione ultima del parroco,
ma con una loro relativa autonomia.
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Da qui la resistenza, a più di
cinquant’anni dal Concilio, del clericalismo e, connessa ad essa, la scarsa
incisività nel discriminare, fin dal seminario, chi può svolgere il ministero
presbiterale e chi no.
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Il problema della pedofilia si rivela,
così, non solo un dramma morale, ma anche una cartina di tornasole per i
ritardi della Chiesa nel ripensare se stessa.
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L’urgenza di una conversione radicale
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Nell’immaginario collettivo il punto
cruciale di questo ripensamento, di fronte al dramma della pedofilia, dovrebbe
essere l’abolizione del celibato dei preti. Premesso che l’ipotesi di una
simile riforma non pone alcuna difficoltà di principio – nelle Chiese
cattoliche di rito greco ci sono presbiteri sposati –, rimane molto dubbio che
essa costituisca una soluzione per il problema specifico della pedofilia. Come
dimostra la grande diffusione delle molestie sessuali nei confronti di minori
anche all’interno delle famiglie, il pedofilo non cerca semplicemente una
soddisfazione sessuale e affettiva (che potrebbe trovare in una moglie), ma è
una persona profondamente ferita – spesso proprio per aver subito a sua volta,
da piccolo delle molestie –, che scarica su altri i suoi traumi.
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Più che il matrimonio, ai preti servirebbe
una nuova ottica spirituale ed ecclesiale. Giusto chiedere perdono per i
peccati del passato, ma l’espiazione di una colpa, come insegna la dottrina
cattolica, richiede un sincero pentimento che, a sua volta, implica la
conversione. La Chiesa – non solo quella francese – deve forse smetterla di
interrogarsi su come annunciare il Vangelo agli uomini e alle donne di oggi e
chiedersi come deve cambiare lei, per viverlo più coerentemente.
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A questo potrebbe servire il Sinodo che
sta per aprirsi e che, nel corso di tre anni, coinvolgerà le Chiese di tutto il
mondo – il primo anno a livello nazionale, il secondo anno a livello
continentale, il terzio a livello mondiale. Senza dire che, per l’Italia, parte
un Sinodo della Chiesa italiana che avrà un suo proprio sviluppo, con un
biennio di ascolto, un anno di lettura sapienziale dei dati raccolti, uno,
infine, proteso alla profezia.
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“Sinodo” significa cammino fatto insieme.
Già sarebbe un segno della conversione di cui si parlava la capacità della
Chiesa di mettersi in ascolto delle voci che vengono dal suo interno, ma anche
di quelle che dall’esterno la interpellano. Delle voci che, in una logica
clericale, non c’è mai il tempo e la voglia di prendere in seria
considerazione, anche perché sono “scomode”. Forse da questo ascolto potrà
prendere le mosse anche il superamento della ferita profonda della pedofilia
dei preti.
*Pastorale
Cultura Diocesi Palermo
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