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sabato 16 agosto 2025

COMUNITA' NON AZIENDA


 La diffusione in conventi e monasteri delle tecniche di consulenza aziendale incide sulla vita religiosa e comunitaria.

 Ma le ispirazioni profetiche vengono dagli estremi e non dalla "mediana" tra le possibilità. 

Lo stesso pericolo lo vivono le associazioni di volontariato.

 

-       di Luigino Bruni 

 

Le teorie, i metodi e le tecniche della consulenza aziendale e del management stanno entrando decisamente nelle congregazioni, nei conventi, nei movimenti e nelle comunità. Il fenomeno più visibile è l’organizzazione di assemblee e di capitoli che ormai non si svolgono più senza uno o più esperti esterni che conducono – “facilitano” –, come se in un decennio avessimo dimenticato secoli di sapienza carismatica e fossimo diventati analfabeti relazionali. Ormai i post-it segnano il nuovo ambiente, le/i responsabili sono spinti a partecipare a corsi di leadership, le comunità chiamate a scoprire la propria mission e il proprio purpose, sulla base della propria vision che emerge durante i world cafè, parole sacre del nuovo karma della vita religiosa. 

Una suora di un carisma missionario, dopo uno di questi corsi mi diceva stupita: «Sai che ho scoperto che anche noi abbiamo una mission?» . Il tema della leadership è forse il fenomeno più preoccupante, e per questo lo guarderemo da vicino nel prossimo articolo. Strumenti che piacciono molto, sono agili, leggeri, femminili, e incantano. 

Tecniche e prassi nate nel mondo delle grandi imprese che le avevano mutuate dalla psicologia delle organizzazioni. E quindi delle grandi imprese globali portano i tratti somatici ed etici, anche se si presentano come tecnica neutrale. In realtà nessuna tecnica è esente da ideologie e valori, ma la grande ideologia della tecnica è il suo presentarsi senza ideologia. 

 

Da cosa dipende questa crescente “aziendalizzazione” della vita religiosa? 

Tra le molte ragioni una è decisiva. Le comunità carismatiche sono nate con una ben precisa idea di governo e di relazioni, che recentemente è entrata in crisi nell’incontro-scontro con la cultura moderna. Quelle antiche istituzioni erano infatti espressione di una società ineguale, gerarchica e patriarcale. I tre voti religiosi erano strumenti adeguati per assicurare il loro funzionamento: persone celibi senza famiglia, senza diritti sulle proprie ricchezze ed eredità, e legati ai superiori da un vincolo sacro di obbedienza. Nello spazio di una generazione questo modello si è frantumato, e le comunità sono rimaste relazionalmente mute, soprattutto con i giovani figli di questo nuovo mondo. 

Ecco allora che in questa profonda silente crisi identitaria i potenti strumenti aziendali vengono percepiti come salvezza. La consulenza riempie un vuoto, ma poi velocemente crea infantilizzazione e mancanza di autonomia delle comunità, che si somma alla dipendenza (addiction) e alla crescente insicurezza dei responsabili che quindi chiedono sempre più consulenze per tutto; e così i tecnici finiscono per diventare non solo ghostwriter di discorsi e documenti, ma anche direttori e superiori invisibili. Si capisce allora che è la domanda (da parte delle comunità) che genera l’offerta. 

È superfluo affermare che i consulenti onesti della vita religiosa (ne conosco alcuni) ci sono e ci vogliono, soprattutto quando cercano di adattare strumenti e tecniche, tentando ibridazioni tra carismi e mondo aziendale e psicologico. Ma il centro del problema sta in capo alle comunità che devono riprendere in mano il proprio destino. 

 

Occorre qualcosa di diverso, di molto diverso, e subito. Le comunità carismatiche non sono imprese. Sono certamente organizzazioni, ma con note identitarie troppo diverse da quelle delle imprese per poterle trattare con gli stessi strumenti. Sono simili al 98%, come il nostro DNA e quello degli scimpanzé, ma se non si vede e conosce quel 2% diverso non capiamo nulla di un convento o di un monastero. 

Una suora non è una dipendente del suo istituto, non è una collaboratrice, non è una risorsa umana, né una follower di una leader. Non ha un purpose, non ha una vision: ha un carisma (senza possederlo), che è qualcosa di profondamente diverso da tutto ciò che si insegna nelle scuole di business o di psicologia del lavoro. La quasi totalità dei tecnici e degli esperti non hanno né possono avere una sufficiente cultura biblica o teologica, né tantomeno una vera frequentazione del mondo misterioso dei carismi e dello Spirito, il più misterioso e stupendo della terra. Non dimentichiamo poi che l’ingresso di tecnici esterni dentro le aziende è nato dall’esigenza di mediare le relazioni di lavoro dirette, affinché quindi i manager non “toccassero” le emozioni delle loro persone sempre più complicate e fragili. 

L’esperto esterno, infatti, “tocca” le persone al posto dei “leader”. Le tecniche sono quindi strumenti di immunità relazionale. Ma, chiediamoci: che cosa resta delle comunità carismatiche se si afferma la cultura immunitaria, se è vero che l’immunitas è la negazione della communitas? 

 Pensiamo, per un solo esempio, ad un capitolo di una congregazione. I metodi degli esperti di tecniche partecipative creano la nota sindrome della mediana: nel passaggio dalle idee del singolo al documento del gruppo di lavoro e poi dai gruppi alla sintesi finale, le tecniche tendono a selezionare le tesi e i valori mediani, e quindi a scartare gli estremi. Questa metodologia funziona per le (le scelte facili delle) imprese, per le decisioni politiche e per le istituzioni, incluse quelle vaticane o diocesane (dove oggi spopola), dove occorre ridurre i conflitti tra posizioni e arrivare presto a soluzioni che accontentino molti o la maggioranza. Nei carismi però la regola della mediana non funziona. 

I carismi sono eredi dei profeti biblici, e le soluzioni e le idee profetiche provengono (quasi) sempre dagli estremi, dagli scarti, non dalle mediane. Se si applica il metodo della mediana nei capitoli si finisce infatti per scrivere documenti dove non si troveranno le idee più innovative - è il fenomeno che il mio amico Tommaso Bertolasi chiama della “galletta di riso”: la possono mangiare tutti perché sa di poco. Nessuna idea di Isaia, del Battista o di Gesù sarebbe oggi selezionata da un facilitatore, perché troppo devianti dalla mediana. 

Stesso risultato mediano quando i documenti finali si scrivono sommando le sintesi dei lavori di gruppi. La sindrome della mediana tende ad evita o ridurre i conflitti; ma nei carismi non si trova nessuna soluzione vera senza affrontare, far emergere e accudire i conflitti (basti pensare alla Bibbia, a Paolo e ai vangeli). I n sintesi, se le comunità carismatiche scavassero di più nel cuore del carisma troverebbero intuizioni e sapienza che, attualizzati, sarebbero il solo modo giusto per condurre la comunità, capitoli e assemblee. 

Occorre quindi cambiare. Una comunità spirituale che non vuole morire o trasformarsi in una Ong, dovrebbe usare poco e sussidiariamente la consulenza, sceglierli oculatamente, e lavorare essa stessa di più sulla cultura organizzativa del proprio carisma. Esternalizzare le relazioni comunitarie non è come appaltare la mensa o le pulizie del convento - nelle relazioni ci si gioca tutto del carisma. Il primo e decisivo passo spetta alla comunità, con le persone e i talenti che ha, qui ed ora, come sa e come può. “Date voi stessi loro da mangiare” (Lc 9,13). Questo lavoro va custodito gelosamente dentro una intimità collettiva, altrimenti a breve, e senza accorgercene, del carisma resteranno qualche quadro del fondatore e un pensiero per gli auguri di Natale.

 Avvenire 

 

venerdì 15 novembre 2024

DIVENTARE ADULTI

 


La bellezza 

delle vocazioni 

che diventano adulte


La spensieratezza e vitalità della giovinezza, 

anche nell'ambito dei movimenti e carismi, 

deve crescere ed evolvere in una maturità spirituale.

 Non è automatico, né semplice.


-       -  di Luigino Bruni*

Diventare adulti è sempre un processo complicato e dall’esisto incerto. Ma se da giovani si è vissuta una grande esperienza spirituale e ideale, la complicazione e l’incertezza aumentano.

La giovinezza è l’età meravigliosa per tutti, è il tempo delle energie infinite che ci fanno iniziare cammini impossibili. È il tempo in cui tutto appare possibile, i vincoli della realtà sono solo sfide, e i consigli di prudenza che arrivano dagli adulti danno solo fastidio e vengono (giustamente) rispediti al mittente. È la stagione della gratuità assoluta, dei sogni meravigliosi, della generosità grande che arriva a farci donare tutta la vita ad una persona, addirittura a Dio.

Quando sulla giovinezza naturale si innesta una esperienza spirituale forte e identitaria, come accade quando si incontra un carisma nel quale ci si riconosce totalmente, la giovinezza esplode e tutte le sue virtù e doti naturali si amplificano. La generosità diventa assoluta, il “per sempre” diventa l’unico linguaggio comprensibile e il solo con cui vogliamo parlare di noi e della vita. Si dà tutto perché si vuole dare tutto, perché non si può non dare tutto, ciò che si possiede e ciò che ancora non si ha.

Per questa ragione, sulla terra ci sono poche cose più belle e sublimi di un giovane, di una giovane che incontra una vocazione e risponde con un “sì” che diventa donazione di tutta la vita. Giovani che si illuminano di una luce diversa e chiarissima, gli occhi prendono un’altra brillantezza, diventano ancora più belli dei bellissimi occhi di tutti i giovani. Ci si immedesima totalmente nella vita di quel carisma e della comunità, non si vuole altro. Una identificazione totale che però non è vissuta come limite della propria personalità, ma come suo potenziamento e pieno sviluppo. Vediamo di fronte un mare nuovo e bellissimo, e vogliamo soltanto “naufragarci” dolcemente dentro.

Ci sono persone che restano in questa gioventù carismatica per molti anni, ben oltre il tempo della gioventù biologica e psicologica. Fa parte delle vocazioni l’allungamento del tempo della giovinezza, che in un certo senso dura tutta la vita: si può riconoscere una persona che ha avuto una vocazione da giovane anche da un timbro diverso dell’anima che le resta fino alla vecchiaia, che gli consentirà di chiamare per nome l’angelo della morte.

Non è difficile, allora, comprendere perché quel misterioso e impreciso processo che si chiama “diventare adulti” è particolarmente complesso per i giovani con vocazioni vere. Da una parte, infatti, quando arriva la provvidenziale e necessaria crisi della maturità, non è semplice capire che la forma che la vita spirituale ha assunto durante la giovinezza e che sta finendo era soltanto l’involucro della crisalide, che deve essere salutata se si vuol spiccare il volo.

È durante questa fase di transizione-metamorfosi del bruco in farfalla che tante persone con vocazioni autentiche si smarriscono. Le forme di questo smarrimento sono molte. La prima, e la più ovvia, è quella di chi identifica la vita spirituale (Dio, fede) con il bruco; e quindi di fronte alla crisi e morte della fede della giovinezza si convince che la fede e Dio fossero soltanto illusioni di un giovane ingenuo. Muore la prima fede e con essa muore tutto. Questi sono coloro che per diventare adulti perdono la fede e la vocazione.

Poi ci sono coloro che fanno l’esperienza opposta, sebbene generata dallo stesso errore di identificazione della vita spirituale con la sua prima forma. Questi un giorno intuiscono che sta per terminare e morire qualcosa di importante, e sono terrorizzati dalla prospettiva di perdere per sempre l’unico tesoro della loro vita, di smarrire la parte migliore di loro stessi; e bloccati da questo panico si negano la possibilità di crescere. Così, per non perdere la vocazione e la fede non diventano mai adulti. Credo che nelle comunità religiose questi secondi sono maggiori dei primi. Queste persone non escono dalle comunità e dalle istituzioni dove sono entrati da giovani, continuano a fare la vita di sempre, ma in un certo senso escono dalla loro vita, perché interrompono, senza saperlo né volerlo, il processo della loro fioritura umana e quindi della loro libertà.

C’è comunque anche un terzo esito, sempre possibile: diventare adulti salvando la vocazione della giovinezza. Sono autentiche rinascite-resurrezioni, che sono ancora rare nelle comunità e nei movimenti, perché richiedono la capacità-dono di resistere nel silenzio del “sabato santo”, e perché ci vogliono tempo e molta mitezza per imparare a riconoscere la fede e il Dio di ieri in una fede e in un Dio diventati così diversi al punto di essere irriconoscibili. Molta fede adulta prende la forma del perché?, e le risposte facili di ieri diventano solo domande difficili, gridate insieme ai poveri e alle vittime della terra.

rete@cittanuova.it

Articolo pubblicato sul n. 6/2024 di Città Nuova

 Scarica l’articolo in pdf

* Luigino Bruni. Si è laureato in economia all'Università di Ancona, ha conseguito un dottorato in economia presso l'Università dell'Anglia orientale a Norwich e un dottorato in filosofia con l'Università degli studi di Firenze. Ha seguito corsi alla London School of Economics and Political Science. Storico del pensiero economico, con interessi in filosofia e teologia, è noto per il suo studio dell'economia di comunione e dell'economia civile.[1] Insieme a Stefano Zamagni, è promotore e cofondatore della Scuola di Economia Civile, per la quale riveste la carica di Presidente. Conduttore della trasmissione televisiva Benedetta Economia[2] su Tv2000 e Consultore del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita.

Il 23 settembre 2024 è stato nominato vicepresidente della "Fondazione The Economy of Francesco".[3]

 

domenica 31 ottobre 2021

E IL CUORE DIVENTO' RADICE


  La punta delle radici, avendo il potere di dirigere i movimenti delle parti adiacenti, agisce come il cervello di un animale.

Charles Darwin, Il potere di movimento delle piante

 -         di Luigino Bruni*

-          In questa epoca di urgente cambiamento ecologico ed economico, qualcuno comincia a guardare alle piante in cerca di nuove ispirazioni, per salvare noi dal pianeta e il pianeta da noi. Perché finché si pensa alla sostenibilità restando all’interno dello stesso paradigma, si ragiona come se fosse possibile risolvere i problemi con la stessa macchina che li ha prodotti. In particolare, il sistema economico capitalistico è cresciuto secondo un modello animale. L’animale homo sapiens quando ha dovuto immaginare l’economia, la fabbrica e l’azienda, le ha disegnate a sua immagine.

Abbiamo così costruito aziende e istituzioni "animali", cioè con una forte divisione e specializzazione delle funzioni, con un "cervello" e un "cuore" da cui dipendono tutti gli altri organi. Queste istituzioni-animali hanno imparato a correre molto velocemente, sono diventate sempre più efficienti, depredando e divorando risorse. E così l’economia e il Pil sono cresciuti grazie alle folli corse di imprese e consumi, producendo risultati eccelsi; un giorno però hanno superato la soglia della cosiddetta "tragedia dei beni comuni", che stiamo osservando tutti, spettatori e vittime insieme.

L’economia non ha imitato le piante – come abbiamo scritto su queste pagine: "Nel tempo della ragnatela" (5 marzo 2016). Le piante, diversamente dagli animali, sono ancorate al suolo, e per rispondere all’estrema vulnerabilità dovuta al loro star ferme, non hanno sviluppato organi specializzati come gli animali (se non puoi scappare e hai cuore e fegato, se un animale ti mangia un organo vitale ti uccide). Hanno imparato a respirare, vedere, sentire con tutto il loro corpo. Da qui la loro grande resilienza: un animale lo uccidi colpendolo al cuore, la pianta invece può sopravvivere anche se perde l’80-90% del corpo, e un tronco mozzato può conoscere un nuovo virgulto. Nella Bibbia troviamo molte volte l’immagine dell’albero, della vigna, del seme per indicare il Popolo, la Chiesa, il Regno dei Cieli.

La vita delle piante ha molto da dire anche alle comunità carismatiche. Queste nascono da uno o più fondatori/fondatrici, che danno alla comunità carismatica una forma simile all’animale. Il fondatore è necessariamente il centro (cuore), e i singoli organi e funzioni dipendono dal centro. Questa configurazione viene poi replicata in tutte le funzioni e nelle varie comunità locali, che riproducono tutte lo stesso modello centrale. Nelle comunità carismatiche, diversamente dalle organizzazioni burocratiche (cioè "governate razionalmente dagli uffici" e non dai carismi delle persone), le responsabilità e i ruoli dipendono direttamente dal fondatore. Si creano sulla base di un rapporto totalmente fiduciario, da un patto implicito di mutuo riconoscimento. Ciò consente alla comunità di correre molto velocemente nella prima fase del suo sviluppo, di volare alto come aquila.

Ma come ci ha insegnato Max Weber, l’autorità di tipo carismatico termina con la scomparsa del leader carismatico, quando iniziano la routinizzazione del carisma e l’organizzazione burocratica. Nei secoli passati, la fase carismatica dei movimenti durava in genere poco tempo, e quindi era più semplice osservare con chiarezza le differenze tra la governance della fase carismatica e quella successiva. Nel nostro tempo, invece, i fondatori restano nelle loro organizzazioni per molto tempo. Accade così che una certa burocrazia si sviluppi mentre il fondatore è ancora alla guida della sua comunità, allo scopo di rendere ordinata e razionale quella vita comunitaria. Inizia una certa burocrazia carismatica. Ed è in questa fase di proto-istituzionalizzazione del carisma dove si addensano sfide decisive per il futuro. Perché?
Finché il fondatore è in vita, l’organizzazione che nasce è inevitabilmente pensata attorno al ruolo centrale e unico del fondatore. Non potrebbe svilupparsi diversamente. I problemi però nascono perché queste prime forme organizzative ibride carisma-istituzione passano alla generazione post-fondatore come parte essenziale dell’eredità immodificabile del carisma. I primi otri e il vino diventano quasi la stessa cosa. E così quando il fondatore esce di scena, chi lo sostituisce si ritrova dentro una organizzazione pensata "da e per" il fondatore. Deve interpretare un ruolo per il quale non ha le risorse, perché semplicemente quel ruolo pensato dal fondatore è possibile soltanto per il fondatore.

Il successore si ritrova al centro di tutte le connessioni e le circolazioni della comunità, senza poter essere nelle condizioni per poterle gestire. Il fondatore aveva doti e caratteristiche spirituali e umane che erano uniche in quanto fondatore. Il suo successore, invece, non può e soprattutto non deve svolgere la stessa funzione di cuore della sua comunità – e se lo fa crea una nuova comunità. Ma se si ritrova dentro la stessa governance del fondatore, inevitabilmente iniziano i problemi. Si verificano ritardi decisionali e ingorghi gestionali vari nello svolgimento del lavoro ordinario. E la quasi totalità delle risorse viene impiegata per la gestione delle dinamiche interne e così non restano energie libere per pensare strategicamente al futuro: un oggi ingestibile si mangia il domani.

Ciò si verifica perché quando il fondatore inizia a scrivere la regola e quindi il ruolo del presidente e del governo della sua comunità, ha in mente sé stesso e il suo governo, e prende la sua esperienza di fondatore-presidente per disegnare la figura dei futuri presidenti e il futuro governo. Gli esperti gli ricordano che il futuro presidente non potrà svolgere le stesse funzioni del fondatore, e spesso è lo stesso fondatore ad averne coscienza; ma la comunità e il fondatore non hanno altro materiale che il passato e il presente. Così la regola comunitaria finisce inevitabilmente per essere una foto della realtà che la scrive.

Questa è una delle ragioni della fatica che fanno oggi movimenti e comunità a gestire la fase post-fondazione, per non riuscire a "suonare" lo spartito lasciato loro in eredità. Che fare dunque? Se vogliamo essere onesti fino in fondo, dobbiamo dire che l’organizzazione generata e voluta dal fondatore in un certo senso muore il giorno dell’uscita di scena del fondatore, muore con la morte del suo cuore. È questa la prima, decisiva e inevitabile vulnerabilità dell’organizzazione-animale generata dalla prima fase. Non muore il carisma, muore solo la prima organizzazione che quel carisma aveva generato. Ma – e questo è il punto – se non muore la prima organizzazione può succedere che al suo posto muoia il carisma.


Per evitare equivoci occorre tenere ben presente che nella tradizione e spesso anche nella regola che scrive un fondatore, c’è una parte che riguarda la forma di vita della nuova personalità spirituale (individuale e collettiva) che il carisma porta sulla terra, che può cambiare nel tempo solo in aspetti molto marginali. Ma nelle tradizioni scritte e orali delle comunità spirituali (soprattutto di quelle moderne) c’è quasi sempre anche la descrizione delle regole di governance e dell’organizzazione pratica della comunità. In questa seconda parte ci sono pure dimensioni carismatiche fondative e originali che non vanno perse (una comunità carismatica ha un bisogno essenziale di una governance coerente con il carisma che l’ha generata); ma ci sono anche prassi e regole che sono state pensate sulla misura del fondatore e della sua "organizzazione-animale", e se non cambiano finiscono presto per bloccare lo sviluppo della comunità. Operazione (forse) facile a dirsi ma difficilissima a farsi, perché i discepoli del fondatore tendono per istinto a considerare intoccabile e "sacra" l’intera regola e tradizione, soprattutto se a pensarle è stato lo stesso fondatore.

Da qui la proposta. Tornando alla nostra analogia, nella fase di passaggio dal fondatore ai suoi successori, l’organizzazione carismatica dovrebbe trasformarsi da organizzazione-animale a organizzazione-pianta. Dopo il fondatore, la comunità può sostituirlo con un presidente, cambia cuore e lascia la governance di prima: questa soluzione non funziona perché non può funzionare. Ma può anche decidere di cambiare molto per salvare l’essenziale. E quindi mette mano alla parte "pratica" della regola, e crea una governance vegetale. Distribuisce le funzioni, prima addensate nel centro, in tutto il corpo, e crea una vera governance sussidiaria. Come quella delle piante, dove un attacco di un parassita su una foglia viene risolto prima dalla singola foglia, se questa non riesce subentrano le foglie vicine, poi l’intero ramo, e solo infine i rami più lontani e qualche volta gli alberi vicini. Impara a respirare, pensare, sentire con tutto il corpo. Detto per inciso, le comunità monastiche nascono simili alle piante: il loro centro non è il fondatore né, tantomeno, l’abate. La loro radice è la regola, e così molti monasteri hanno vissuto e vivono per secoli, come i grandi alberi.

Come si fa ad assicurare l’unità di una organizzazione-pianta? Anche le piante hanno un loro governo non meno efficiente di quello degli animali, ed è concentrato soprattutto nel loro codice genetico e, per certe funzioni, nelle radici. Nelle generazioni successive al fondatore, l’unità della comunità e il governo delle decisioni più importanti sono affidate al Dna e alle radici del carisma. Le comunità carismatiche possono farlo, perché diversamente dalle imprese, loro non hanno dipendenti: hanno persone con vocazioni, quindi con lo stesso Dna spirituale del fondatore (un francescano ha lo stesso "codice genetico" di Francesco, non lo impara ma lo scopre, perché era già nell’anima). Sono allora le sue persone la prima garanzia che la comunità avrà futuro - qui la loro forza, qui la loro vulnerabilità. Molto di ciò che prima faceva il cuore, ora lo potrà fare tutto il corpo se il carisma diventa radice. Sottoterra, invisibili, le radici sostengono e alimentano tutto l’albero, sentono e, come un cervello diverso, inviano messaggi a tutta la pianta, in dialogo con la terra. Non commettiamo l’errore di pensare che le radici siano il passato, magari immutabili e statiche; nelle piante le radici sono anche il passato, ma soprattutto sono il presente e il futuro. Se un carisma riesce a diventare pianta è resiliente alle crisi, diventa molto difficile farlo morire. Deve però rallentare, sviluppare nuovi sensi, crescere in profondità, conoscere tutto il bosco e imparare nuovi linguaggi per cooperare con alberi diversi.

Le piante hanno sviluppato la loro resilienza per rispondere alle sfide dell’ambiente: una grande vulnerabilità dovuta al loro ancoraggio al suolo le ha costrette a darsi organizzazioni molto diverse da quelle del regno animale, per poter vivere. Quella vulnerabilità che nasceva dal non potersi muovere è diventato il loro vantaggio evolutivo. Quando i fondatori scompaiono, l’ambiente cambia profondamente, e si sperimenta una nuova e diversa vulnerabilità. La saggezza delle piante può suggerirci come trasformare la debolezza in fortezza, e continuare la vita: «È come albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo» (Salmo 1,3).

 

*l.bruni@lumsa.it – Docente di Etica e cultura d’impresa, LUMSA Roma

www.avvenire.it 




 

mercoledì 19 febbraio 2020

INFANZIA NEL MONDO. PEGGIORANO LE CONDIZIONI DI VITA

 * Nessun Paese sta proteggendo adeguatamente la salute dei bambini, l’ambiente in cui vivono e il loro futuro. E’ la denuncia che emerge dal rapporto stilato da oltre 40 esperti della salute dei minori nel mondo, incaricati da una Commissione nominata dall'Oms, dall'Unicef e dalla rivista Lancet. Con noi l’economista Franco Bruni

dI Fausta Speranza 

Non sono solo conflitti e siccità a minacciare salute e futuro dell’infanzia in alcune aree più povere del mondo, ma ci sono altri fattori che minano lo sviluppo nelle zone più ricche: dal degrado ecologico alle pratiche abusive di marketing che spingono i giovani consumatori verso i fast food, le bevande zuccherate, l'alcol e il tabacco.
Il dramma dei Paesi poveri
Il rapporto degli esperti fotografa una situazione drammaticamente ben nota nei Paesi a medio e basso reddito: 250 milioni di bambini sotto i cinque anni   rischiano di non raggiungere il loro potenziale di sviluppo, secondo misurazioni indicative sulla malnutrizione cronica e la povertà. In questo caso lo sviluppo, che significa il futuro stesso di questa fetta di umanità è messo a rischio da crisi umanitarie, conflitti, disastri naturali, problemi sempre più legati al cambiamento climatico.
L'inquinamento dell'aria e del cibo nei Paesi più avanzati
Quello che colpisce di più è che la preoccupazione in tema di infanzia riguarda anche i Paesi ad alto reddito dove il marketing commerciale dannoso colpisce i giovanissimi e dove il numero di bambini e adolescenti obesi è aumentato dagli 11 milioni del 1975 ai 124 milioni del 2016. Si tratta di un aumento di 11 volte.
Devono far riflettere alcuni dati: i ragazzini vedono ben 30.000 annunci pubblicitari solo in televisione in un anno. In particolare negli Stati Uniti in due anni l'esposizione dei giovani alla pubblicità delle sigarette elettroniche è aumentata di oltre il 250 per cento, raggiungendo più di 24 milioni di ragazzi. In Australia - solo in un anno di programmi televisivi di calcio, cricket e rugby - gli spettatori minori sono stati esposti a 51 milioni di pubblicità di alcolici.
Se l’ambiente diventa una minaccia
Si deve parlare di questione ambientale e di freno delle potenzialità di sviluppo non solo per le zone degradate dove immaginiamo un inquinamento non regolamentato in nessun modo. Si deve considerare   che per quanto concerne le emissioni di CO2 pro-capite, gli Stati Uniti d'America, l'Australia e l'Arabia Saudita sono tra i dieci Paesi con i dati peggiori. Per quanto riguarda l’Europa, offre la “migliore casa” al mondo per i primi anni di un bambino nato oggi -  otto tra i primi dieci Paesi nell'indice che misura la sopravvivenza e il benessere sono europei -  ma non si può dire altrettanto vincente quando si tratta di misurare le prospettive di un futuro sostenibile. L’intensificarsi dei cambiamenti climatici minaccia il futuro di ogni bambino - Il rapporto include un nuovo indice globale di 180 paesi, comparando i risultati sullo sviluppo dell’infanzia - che comprende le misurazioni della sopravvivenza e del benessere dei bambini, come la salute, l'istruzione e la nutrizione - con l’indice della sostenibilità, una misurazione indicativa delle emissioni di gas serra, e dell’equità, o i divari di reddito.
Stiamo parlando della questione al centro del problema economico principale:  il mondo ha scarsa attenzione al futuro, il futuro più lontano e questo si riflette immediatamente su una scarsa attenzione all’infanzia. Noi stiamo mettendo il peso della nostra disattenzione e concretamente dei nostri debiti sulle prossime generazioni. E non ci sarebbe niente di più importante dal punto di vista economico e politico di guardare il medio-lungo periodo.
L’attenzione a tutto quello che sarà domani purtroppo risulta lontano rispetto alla prospettiva nei periodi elettorali con la quale i nostri politici guardano i problemi.
Che cosa comporterà il fatto che il mondo stia fallendo nel fornire ai bambini una vita sana e un clima adatto al loro futuro?
Pensiamo ai problemi medici dovuti alla cattiva nutrizione, per un verso o per un altro: è un problema ovviamente umano ma anche un problema economico, per l’aumento dei costi e la minore produttività di una generazione esposta a varie forme di inquinamento. Ci sarà   una generazione che sarà costosissima per se stessa, per la sanità pubblica. E’ un problema umano, sociale ed economico. Dovremmo pensare quasi solo alle prossime generazioni e invece stiamo pensando a noi con una visione molto poco lungimirante.  Inoltre, va detto che i paesi in via di sviluppo o emergenti hanno dei problemi diversi da quelli dei Paesi più avanzati ma man mano che in quelle zone del mondo aumenta l’industrializzazione e un certo sviluppo aumentano anche i problemi legati per esempio al cibo spazzatura o all’inquinamento atmosferico. “Nonostante la salute dei bambini e degli adolescenti sia migliorata negli ultimi 20 anni, i progressi si sono fermati, e sono destinati a tornare indietro”, ha dichiarato Helen Clark, ex primo ministro della Nuova Zelanda e Copresidente della Commissione.  “I paesi devono rivedere il loro approccio alla salute dei bambini e degli adolescenti, per garantire che non solo ci prenderemo cura dei nostri bambini oggi, ma che proteggeremo il mondo che erediteranno in futuro”, ha aggiunto Clark.