MA DIO NON È UN'IPOTESI (È AMORE NELLA STORIA)
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Di GIUSEPPE LORIZIO *
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La
notizia del conferimento del premio Nobel per la fisica all’italiano Giorgio
Parisi ci ha riempiti di orgoglio 'nazionale' (speriamo non 'nazionalistico'),
anche perché questo grande scienziato ha compiuto la scelta, certamente
scomoda, di restare nel nostro Paese, e ha fatto sgorgare fiumi di inchiostro
sulle pagine dei giornali. C’è stato anche chi, dando voce alla sensibilità
credente, ha inteso esprimere il proprio 'sconforto', avendo incrociato
un’espressione pronunciata dal fisico in una intervista al quotidiano 'La
Repubblica' del 31 dicembre 2010, rilasciata in occasione dell’assegnazione
della medaglia Planck per la matematica, tanto più che il personaggio non
appare affatto come un 'uomo a una sola dimensione', bensì si sottolinea che
ama la storia e la musica, la letteratura e la fantascienza e, nei giorni
scorsi, si è anche evidenziata la sua passione per la danza. In quella
intervista alla domanda, rivoltagli dal giornalista Antonio Gnoli: «Lei crede
in Dio?», il fisico rispose seccamente «Dio per me non è neanche un’ipotesi».
Da qui lo 'sconforto'. Come può, infatti, una persona colta, inserita
profondamente nella cultura occidentale, pensare così bruscamente di poter
eludere la questione di Dio?
Ma
si è trattato di uno sconforto fecondo, innanzitutto perché ha offerto
occasione al neo-Nobel di chiarire il suo pensiero, in una lettera al direttore
Tarquinio, dalla quale apprendiamo che l’elusione del ricorso a Dio concerne
l’ambito della fisica e, diremmo in generale, delle scienze empiriche, che se
adottassero tale ricorso dovrebbero coerentemente bloccarsi nella loro ricerca.
Si tratta del versante epistemico della laicità, che pure trova le sue radici
nel Vangelo del «Restituite a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò
che è di Dio» (Mc 12, 17),
che
tradotto significa 'date alla scienza (fisica in questo caso) ciò che le
appartiene e alla fede ciò che le è proprio'. La questione di Dio non
appartiene alla fisica, ma alla metafisica, con tutto quanto ciò può ancora
significare e nonostante il discredito, di cui gode (si fa per dire) anche fra
i teologi. Sicché quando cerchiamo di individuare tracce dell’Infinito nel
cosmo, pur interpellando le scienze, non pensiamo da fisici o da scienziati tout
court, ma applichiamo la filosofia (metafisica appunto) alle altre
forme dell’umana conoscenza.
Lo
'sconforto' risulta altresì fecondo in quanto, come si nota nelle lettere al
direttore di 'Avvenire', ha avviato un dibattito-confronto sulla questione
decisiva della nostra esistenza: Dio. Infatti, se non parliamo di Lui, di cosa
parliamo? «Bla, bla, bla…», direbbe Greta Thunberg. E la speranza è che il
dibattito diventi dialogo fra credenti, non credenti o diversamente credenti,
ma comunque esistenze pensanti. Ponendoci al livello della fisica, anche
teorica, infatti, all’epoca del determinismo, oltre la posizione tranchant del
marchese di Laplace, cui si ispira la frase attribuita a Parisi, c’è stata fior
di filosofia credente che ha fatto ricorso al principio di causalità
efficiente, in senso appunto deterministico, per formulare prove dell’esistenza
di Dio, così come, al tempo dell’«indeterminazione» ( Werner Karl Heisenberg),
dei teoremi dell’«incompiutezza » (Kurt Gödel) e del «disordine» (Parisi in
fisica e Marcello Buiatti in biologia) nei flussi dei sistemi complessi, si è
cercato e si cerca da parte di qualche teologo o filosofo credente di rilevarne
l’affinità con il mistero cristiano, individuando in queste acquisizioni della
meccanica quantistica elementi per la riflessione su Dio. L’orizzonte della
laicità impone estrema cautela nell’adozione di inferenze, che
preludano a posizioni fondamentaliste. Il che non ci
impedisce di stupirci di fronte alle acquisizioni delle scienze
e di riflettere sulle 'tracce' considerandole per quelle che
appunto sono e non sbandierandole come 'prove'. In realtà, sono
sempre ancora benevolmente perplesso di fronte al pudore di Gödel
rispetto alla sua «prova matematica dell’esistenza di
Dio», testo che non ha voluto pubblicare, pur ritenendolo soddisfacente
(lo abbiamo in italiano edito da Bollati Boringhieri, Torino 2006). In ogni
caso, e per usare il linguaggio comune alle discipline scientifiche, Dio
non è né un’ipotesi, e neppure una teoria. Nel momento in cui ha fatto
irruzione nella storia, il Dio della rivelazione biblica si presenta come una
realtà. E la sua res è quella dell’Amore incondizionato, che chiede di essere
corrisposto e accolto («con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con
tutta la tua mente e con tutta la tua forza» Mc 12,30), oppure rifiutato col
gesto della restituzione del biglietto d’ingresso, che il genio di Fëdor
Michajlovi? Dostoevskij attribuisce a Ivan Karamazov. Insomma « Il faut
parier! » (bisogna scommettere) parola di Blaise Pascal (scienziato
anche lui, oltre che filosofo). E questo perché si tratta dell’amore, nel quale
non è coinvolta solo la conoscenza e la ragione, ma anche l’affettività e la
libertà dell’uomo.
Certo
il nostro lavoro teologico è quello di mostrare la ragionevolezza della
scommessa ed esplicitare le ragioni del credere, ma nella consapevolezza che
tale dimensione non esaurisce tutto lo spettro dell’adesione. La stessa scelta
di 'ignorare' l’a(A)more traccia un confine e sarebbe interessante scorgerne le
motivazioni, anche se un indizio l’ho rinvenuto proprio nell’intervista di
Parisi sopra citata: «In un lontano incontro, Cabibbo [Nicola, il maestro
credente del Nostro] disse che la fede è comunque un bel vantaggio. Non dubito,
se uno crede. Ma uno non è che può credere per vivere meglio». Infatti, il
rischio per chi crede e di essere posto dinanzi alla necessità di scomodare le
proprie certezze per accogliere l’Amore crocifisso.
· * professore ordinario di Teologia fondamentale
nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense
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