SCUOLA/ Dati Ocse:
se i problemi dell’Italia iniziano già dalla pre-primaria
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La scheda sull’Italia di “Education at a glance” dell’Ocse: pochi laureati
in materie scientifiche, istruzione professionale carente e pre-primaria poco
cognitiva
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di Tiziana Pedrizzi
Quest’anno al centro per l’Italia è
stato messo il tema della percentuale di laureati, delle aree di competenza
privilegiate e delle ricadute occupazionali.
Il possesso di una laurea sta aumentando
fra i giovani italiani, ma rimane basso se paragonato con la situazione dei
paesi comparabili. Nel 2018 si è passati dal 19,5% fra i 25-64enni al 28% tra i
25-34enni. La quota di adulti laureati in ingegneria, industria manifatturiera
ed edilizia è comparativamente bassa (15%) e solo leggermente più alta tra i
neo-laureati (17%). Questo anche se nel nostro paese i laureati in discipline
Stem (Scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) registrano tassi di occupazione
prossimi alla media Ocse: tecnologie dell’informazione e della comunicazione
87%, ingegneria, industria manifatturiera ed edilizia 85%.
Restano però più popolari le discipline
che laureano nel campo artistico e umanistico, delle scienze sociali e nel
settore dell’informazione, pur se il tasso di impiego è relativamente basso
(77%). Stessa situazione per l’istruzione secondaria professionalizzante. I
giovani adulti (25-34enni) che hanno raggiunto un livello d’istruzione
secondario o post-secondario non terziario professionale hanno prospettive
d’impiego simili ai giovani laureati.
In conclusione, i laureati italiani
stanno aumentando, ma lentamente. Il termine usato spiega già molto: da noi
l’istruzione terziaria è costituita quasi esclusivamente dalla laurea, perché
le lauree triennali professionalizzanti e gli Ifts non si sono affermati;
altrove invece molti giovani si iscrivono a corsi post-secondari
professionalizzanti di lunghezza media.
Ancora più grave il secondo aspetto
della questione. La maggioranza dei laureati italiani non si colloca nell’area Stem, che garantirebbe il lavoro al livello
degli altri paesi, senza contare il fatto che per quanto riguarda gli interessi
di sistema si registra una significativa domanda in questo campo che rimane
senza risposta anche a livello di diploma secondario. Ancora spopolano le
Scienze umane e sociali, che comprendono l’ormai inflazionatissima Legge e
anche l’altrettanto inflazionatissima Economia, le quali garantiscono però un
tasso di impiego più basso. Non che questo sia un problema solo italiano, anche
se da noi si presenta in modo più accentuato. Tutti i paesi ricchi soffrono di
una carenza di questi studi, mentre le Tigri asiatiche avanzano velocemente in
questo campo. Tanto che a suo tempo si dichiarò esplicitamente da parte
dell’Ocse che Scienze veniva tenuta nel ristrettissimo paniere delle materie
valutate in Pisa, non perché offrisse un terreno di competenza diverso dalle
altre due, Lettura e Matematica, ma proprio per incoraggiare la formazione in
questo campo.
Tuttavia da noi la tradizione e la
storia – che si scopre sempre più contare parecchio in campo educativo –
spingono ancora di più in questo senso. Sembra talvolta che gli studi vengano
scelti prescindendo dal futuro lavorativo, se non snobbandolo apertamente, e
pensando esclusivamente allo sviluppo di liberi interessi personali. Volendo
poi escludere che si pensi di sobbarcarsi ad impegni meno gravosi, salvo poi
lamentare le difficoltà di impiego e il precariato.
Insomma, in Italia i laureati non
crescono come altrove, forse perché si pensa che non ne valga la pena, ma a sua
volta questo dipende dalle lauree che vengono scelte.
Stesso problema per la formazione
secondaria. Un buon titolo di studio nel campo professionale garantisce le
stesse prospettive di una laurea (anche qui non si parla della domanda che non
trova riscontro nell’offerta). Ma vediamo tutti in che stato versa l’istruzione
e formazione professionale nel nostro paese.
Fra gli altri aspetti messi a fuoco
forse vale la pena dare un’occhiata alla situazione della pre-primaria nel
nostro paese, in comparazione, quanto meno quantitativa, con gli altri. Anche
perché proprio in questi giorni è uscito da Invalsi il Rapporto sulla sperimentazione del Rav
infanzia a cura di Freddano e Stringhler che dà molte informazioni in
proposito.
Secondo i dati Ocse, nel nostro paese
sono iscritti ad istituti della scuola per l’infanzia il 94% dei bambini in
età, un dato superiore alla media Ocse, dei quali il 72% a istituti pubblici.
In questo campo i dati non sono affidabilissimi, perché una parte del settore
privato sfugge per varie ragioni alle rilevazioni, ma si può certo dire che la
domanda c’è e che la natura largamente pubblica dell’offerta attesta la
solidità istituzionale dell’offerta.
E allora qui c’è un busillis. Tutte le
analisi internazionali ipotizzano uno stretto legame fra livelli degli
apprendimenti e frequenza precoce di coetanei ed educatori in attività di socializzazione
e apprendimento. Nel nostro paese questo legame non sembra esserci, visto che a
un largo afflusso a tali attività non sembra corrispondere un livello degli
apprendimenti adeguato. Forse in questo campo, ancora più che in altri, è
urgente un’analisi territorialmente differenziata dei dati italiani. Ma forse
c’è anche da indagare sulla missione che a queste scuole si assegnano.
Ricordiamo bene che un orientamento precocemente cognitivo è
stato ampiamente demonizzato negli anni passati, in occasione di tentativi di
riforma, da gran parte degli operatori, per non parlare dei pedagogisti di
riferimento.
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