«Sono
contenta, perché gli insegnanti hanno tutti la vocazione». Così ha risposto una
studentessa a cui avevo chiesto come stesse vivendo l'inizio delle superiori.
Ha poi dettagliato: «Appassionati, capaci di spiegare e interessati a
noi».
Senza
saperlo aveva descritto i tre fondamenti della didattica, senza uno solo dei quali non si dà scuola:
conoscere e amare ciò che si insegna (preparazione), a chi lo si insegna
(relazione) e il modo in cui insegnarlo proprio a chi lo si insegna
(comunicazione). Non vale solo per l'insegnamento, lo si può dire per tutte le
vocazioni: «salvano il mondo», se a «salvare» diamo il significato originario,
rendere qualcosa unito e compiuto (vivo), e per «mondo» intendiamo le cose e le
persone che cadono nel raggio d'azione della nostra specifica chiamata (mondo,
dal greco kosmos, ordine e bellezza, in italiano è anche un aggettivo
che significa infatti pulito, bello, ordinato, il contrario di immondo,
immondizia). Ogni vocazione fa più mondo il mondo, «monda» il reale, cioè
trasforma la paura e il caos in opera d'arte. La vocazione è l'espressione
individuale dell'amore per la vita, la via maestra, personale e sociale, per la
gioia: chi non vive la propria vocazione si sente insoddisfatto e presto o
tardi va in crisi, e una comunità si regge sulla circolazione dei beni generati
dalle singole vocazioni. Ma siamo sicuri di averla tutti?
L'origine
della parola vocazione la dobbiamo alla matrice giudaico-cristiana, infatti
nella Genesi c'è un Dio che crea chiamando («Dio disse: “Sia la luce” e la luce fu») alla vita. Non
plasma le cose, come nelle cosmogonie di altre religioni che privilegiano il
modellare il mondo, ma le dice, e il fare è inglobato nel dire: le cose non
sono solo cose ma sono parole. Ogni stella, pianta, animale, uomo è una parola
della vita per chi sa ascoltare.
«Vocare» significa infatti chiamare, «vocazione» è quindi
scoprire la parola che ogni cosa e persona ha da dire al mondo e senza la quale
la vita diventa muta. In più l'uomo, essendo «a immagine e somiglianza» del Dio
che crea chiamando, ne ha la stessa essenza: è, se vuole, un con-creatore o
pro-creatore, cioè non solo è chiamato a essere se stesso come le cose, ma può
chiamare lui stesso alla vita altre cose e persone.
E
non finisce qui: come il Dio che alla fine della creazione «gioisce» della
bellezza fatta, anche noi siamo chiamati a «goderci» la vita fatta da noi. Più
c'è creazione più c'è vita più c'è gioia, come dice il filosofo Bergson, introducendo al posto di Dio un più generico e
immanente concetto di «natura»: «I pensatori che hanno speculato sul
significato della vita e sul destino dell'uomo non hanno notato a sufficienza
che la stessa natura si è curata d'informarci al riguardo. Essa ci avverte con
un segno preciso che la nostra meta è raggiunta. Questo segno è la gioia...
ovunque c’è gioia, c’è creazione; più ricca è la creazione, più profonda è la
gioia» (L'energia spirituale).
Una chiamata per tutti
Questa
«chiamata» è per tutti e ciascuno: non c'è uomo che non abbia vocazione a fare
altra vita con la propria, c'è solo chi pensa di non poterlo o volerlo fare,
rinunciando, biblicamente, al divino in sé, o, alla Bergson, all'umano
compiuto. Quindi la vocazione è l'ambito creativo grazie al quale la vita
aumenta in e attorno a noi. Chi non cerca e vive la propria vocazione tende ad
appropriarsi di quella altrui, o invidiandola, o simulandola, o distruggendola:
de-crea, provoca diminuzioni di vita e di gioia, meno mondo e più
immondizia.
La
gioia
Educare
è in fondo educare alla gioia, perché è aiutare altri a trovare la vocazione,
come narra la scrittrice Natalia Ginzburg in Le piccole virtù: «Se abbiamo una
vocazione noi stessi, se non l’abbiamo tradita, se abbiamo continuato
attraverso gli anni ad amarla, a servirla con passione, possiamo tener lontano
dal nostro cuore, nell’amore ai nostri figli, il senso della proprietà. Se
invece una vocazione non l’abbiamo, o se l’abbiamo abbandonata e tradita, per
cinismo o per paura di vivere, allora ci aggrappiamo ai figli come un naufrago
al tronco dell’albero, pretendiamo da loro che ci restituiscano tutto quanto
gli abbiamo dato, che siano quali noi li vogliamo, che ottengano dalla vita
tutto quanto a noi è mancato; finiamo col chiedere a loro tutto quanto può
darci soltanto la nostra vocazione stessa: vogliamo che siano in tutto opera
nostra, come se, per averli una volta procreati, potessimo continuare a
procrearli lungo la vita intera.
Ma
se abbiamo noi stessi una vocazione, se non l’abbiamo rinnegata e tradita,
allora possiamo lasciarli germogliare quietamente fuori di noi, circondati
dell’ombra e dello spazio che richiede il germoglio d’una vocazione, il
germoglio d’un essere. Questa è forse l’unica reale possibilità che abbiamo di
riuscir loro di qualche aiuto nella ricerca di una vocazione, avere una
vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione: perché
l’amore alla vita genera amore alla vita».
La
vocazione non coincide con la professione, il mestiere o il ruolo, che ne sono
un'auspicabile manifestazione se il fare esprime il creare (dare vita) secondo
la propria irripetibile voce. Per questo possiamo, anzi dobbiamo, coltivarla
anche in altro modo: Gaugin faceva l'agente di cambio, Dickinson la casalinga, Einstein il tecnico all'ufficio brevetti, Kafka l'assicuratore, Čechov il medico, Vivian Maier la tata. Dal «fare» noi giustamente ci
aspettiamo una conferma del nostro «essere», ma la vocazione, se non abbiamo la
sorte di svolgere un lavoro coerente con la chiamata, sa prescindere anche
dall'approvazione.
Avere
senso
Il
senso viene prima del consenso che non è sicuro né necessario, ma se facciamo
dipendere il senso dal consenso, faremo cose «senza senso», senza vita e senza
gioia. Far coincidere vocazione e successo è infantile: è il bambino che vuole
essere costantemente guardato e approvato in ciò che fa perché la sua identità
dipende ancora in tutto e per tutto dallo sguardo dei genitori (e oggi più sono
guardato più esisto: follower, share, like...).
Quando
mi chiedono, nel piccolo della mia esperienza, come vivo quello che oggi
definiamo «successo», rispondo: «Non sono felice perché ho successo, ho
successo perché sono felice, e il successo è un di più, infatti la parola
stessa indica qualcosa di cui non ho il controllo: “è successo!”, invece la
gioia è uno stato, ha a che fare con l'essere, avviene anche se nessuno
vede». Van Gogh non smise di dipingere anche se i suoi quadri
non si vendevano, perché dipingere era la sua salvezza. Leopardi delle sue poesie diceva: «Uno dei maggiori
frutti che io mi propongo e spero dai miei versi è... contemplare da sé,
compiacendosene, di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia
conosciuta per tale da altrui» (Zibaldone). Gioire di fare una cosa bella al mondo,
riconosciuta o meno dagli altri, questa è la vocazione, come il Dio che, dopo
la creazione, riposa non nell'applauso ma nella bellezza del creato, come noi
dopo una faticosa giornata di vita (non solo di lavoro) ben fatta.
La
vocazione è quindi lo spazio-tempo di un fare in cui troviamo senso, gioia e
generiamo altra vita, a prescindere dal consenso immediato. Non esistono
persone senza vocazione, esistono persone che nell'infanzia e nell'adolescenza
sono state represse e convinte di non averla o usate per realizzare quella di
altri, persone che ne hanno inseguita una che non era la loro perché così
facevano tutti, o persone che hanno rinunciato a cercarla per mancanza di mezzi
(materiali o culturali), paura o pigrizia. Ma quelle che la vivono le riconosci
subito, come è capitato alla studentessa, perché amano la vita e ne creano
altra con la propria. Quelle persone sono come parole di carne: «Sia la vita, e
la vita fu».
Anche solo in una passeggiata...
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