Eraldo Affinati: «La scuola per me era un inferno, per questo
cerco di renderla un paradiso»
Perché fare l'insegnante oggi? «Per amore del futuro». L'insegnante e
scrittore Eraldo Affinati “ruba” la frase ad una liceale volontaria alla scuola
Penny Wirton e scrive un libro - “Per amore del futuro” - per ribadire la
centralità della relazione nel processo educativo, a scuola e non. «Educare è
esporsi al rischio dell’altro. E non dimentichiamo mai che nei problemi di uno
scolaro spesso affiorano tensioni dal nostro passato».
Un titolo che contiene insieme una promessa e una responsabilità. Ma
oggi l’insegnante ha così poco riconoscimento sociale che non lo vuole fare più
nessuno. Davvero serve insistere ancora sulla dimensione di senso, quasi
vocazionale dell’insegnamento? Non rischiamo di parlare solo a chi è già
convinto e fa già l’insegnante in un certo modo?
In questo ultimo libro, gemello del precedente, Testa, cuore e
mani. Grandi educatori a Roma (Libreria Editrice Vaticana 2025) cerco
di riflettere, a partire dalla mia lunga esperienza come docente di lettere –
prima negli istituti professionali di Stato, poi alla scuola Penny Wirton –
sulle sfide educative che abbiamo di fronte, non solo nell’ambito
dell’istruzione pubblica, anche in famiglia e, in senso più generale, in ogni
comunità sociale. Mi sono chiesto chi sia il maestro oggi, come dovremmo
gestire l’inquietudine adolescenziale, come fare per sollevare la valutazione
dal peso precettistico che ancora si porta dietro, cosa significa scegliere e
perché, nell’azione pedagogica, non dovremmo agire da soli, in che senso la
rivoluzione digitale ci impone di cambiar rotta. In particolare, ragiono sulle
motivazioni del volontariato. Uno dei miei fari di orientamento in tutto
questo sono state le ragazze i ragazzi che vengono a fare da noi i tirocini
formativi, che oggi non si chiamano più Pcto ma “formazione scuola-lavoro”. È
stata proprio una liceale di San Benedetto del Tronto, Carla Vittoria, che
qualche anno fa, quando le chiesi perché secondo lei uno dovrebbe fare
l’insegnante, mi stupì dicendo: «Per amore del futuro».
Nel libro scrive che «educare è esporsi al rischio dell’altro». Cosa
intende? È una frase che sposta l’asse, che toglie l’educazione dal piano delle
metodologie e la riporta al cuore della relazione con l’altro. Mi pare che la
scuola italiana stia andando in un’altra direzione…
Tutti i grandi educatori e le grandi educatrici del passato, da Maria
Montessori ad Alberto Manzi, da don Lorenzo Milani a monsignor Carroll Abbing,
per citare solo quelli più recenti, ci hanno spiegato che, prima ancora dei
metodi, conta la qualità della relazione umana che si realizza in aula o nei
suoi pressi. Ancora oggi, è vero, continuiamo a non ascoltarli, perlomeno non
in modo strutturale, ma solo attraverso sperimentazioni estemporanee pur
presenti nel nostro
Una relazione speciale
Però questo vuol dire – cito sempre dal libro – vivere la mortificazione
dell’energia sprecata, l’avventura di chi ricomincia daccapo. Il maestro per
lei rappresenta quella relazione speciale, priva di riscontri oggettivi e di
compensi, l’azione a fondo perduto di chi crede in ciò che fa, a prescindere
dall’obiettivo raggiunto i mancato. Concretamente, questo quanto pesa? E
allora… perché farlo?
Dal ragazzo bocciato e ribelle che si trasforma in assistente volontario
alla Penny Wirton, spingendomi a tesserne un paradossale elogio, fino a
Daniela, costretta all’immobilità permanente a causa di una grave malattia, che
decide di venire da noi a insegnare l’italiano a un immigrato appena arrivato
dallo Sri Lanka… avrei tante cose belle da raccontare! Di qualcuna parlo nel
libro. Ma ciò che mi resta di più non sono le vittorie, bensì i fallimenti. È
stato quando ho sbagliato che ho imparato di più. A volte mi sono lasciato
trascinare dalla passione e ho smarrito l’equilibrio necessario. Ecco perché,
nel momento in cui vedo gli stessi miei errori nelle nostre volontarie, penso
di poter dare consigli utili. Dobbiamo restare sempre lucidi di fronte alla fragilità
nostra e altrui, anche perché educare chiama in causa grovigli spesso irrisolti
che non riguardano la sola generazione che abbiamo di fronte: nei problemi di
uno scolaro spesso affiorano tensioni dal nostro passato. Noi, come educatori e
genitori, questo nn dovremmo mai dimenticarlo.
Valutazione come cura
Lei parla anche di “valutazione come cura”. Un’espressione insolita.
Come si inserisce nel dibattito in corso sulla valutazione, con spinte da un
lato per la valutazione formativa e dall’altro sul ritorno del voto?
Di questo tema cruciale parlo nel capitolo intitolato “A ingranaggi
scoperti”, ma anche in “La stazione di partenza”. In sintesi: noi
come docenti non dovremmo mai tenere le carte coperte, quindi niente
domande-trabocchetto fatte apposta per far sbagliare l’alunno, come invece
faceva la professoressa contro la quale si scagliò il priore di Barbiana, mai
gettare nel cestino la risposta sbagliata accontentandosi di quella giusta. Si
tratta di premiare il movimento che registriamo nei nostri alunni, dal punto in
cui si trovano quando li conosciamo, prima ancora dei traguardi da notificare.
Dobbiamo sapere che il nostro lavoro inizia quando i risultati non ci sono, non
quando va tutto bene: per questo non dobbiamo lasciare indietro nessuno, perché
ogni apprendimento ha una sua forma e un suo tempo. Fermo restando che gli
obiettivi non vanno mai abbassati. Dobbiamo essere sempre ambiziosi. Mai
rinunciatari.
«Gli alunni che hai avuto ti restano dentro per sempre»: qual è il
suo?
Si chiamava Fabietto, aveva la sindrome di Down. Ogni volta che arrivavo
a scuola mi saltava addosso. Una volta rimbalzò sul mio petto e cadde per
terra. Il sorriso che mi regalò rialzandosi in piedi un po’ frastornato è uno
dei gioielli interiori della mia vita.
Alla fine del libro c’è un dizionario per una scuola nuova. La sua
parola qual è? Dopo tanti anni di scuola, davvero lei continua a credere che
educare possa “cambiare il mondo”?
Cambiare il mondo no, non lo penso. Cambiare una persona sì, questo è
possibile. Ecco perché fra le 28 definizioni che ho raccolto dalle
professoresse che vennero ad ascoltarmi nel monastero di Cellole, scelgo la
parola “pace”, citando la declinazione che ne abbiamo dato: «Non mero
ideale, sentimento irenico, ingenuo e utopico, bensì operatività, impegno
continuo e fattivo, in grado di mettere in circolo, valori, idee e strategie
concrete».
Oggi la scuola pare inferno a tanti docenti e tanti ragazzi. Oggi
molti insegnanti vivono un senso di smarrimento. Cosa direbbe loro? E alla
fatica dei ragazzi, invece?
Sia ai docenti, sia ai ragazzi direi che quando avevo 15 anni per me la
scuola era un inferno. Ma forse proprio per questa ragione ho cercato di
renderla un piccolo paradiso.
Nessun commento:
Posta un commento